Un capitolo interessante sulla terribile maledizione insita nel gesto del donare per ingannare, capitolo forse molto noto quanto poco indagato, è quello che riguarda la “Camicia di Nesso”. Denominazione abusata invero, e altrettanto abusiva, cioè falsa. Perché la camicia che stroncherà Ercole non era stata mai indossata da Nesso, né da questi posseduta. Tutto diviene chiaro alla luce dei fatti come sono avvenuti e narrati prima di essere stati interpretati dai grandi tragediografi greci. Ercole e Deinaira dovevano attraversare l’Eveno, sulle cui rive avevano incontrato Nesso il centauro che fungeva da traghettatore, essendosi dato il compito di attraversare il fiume portando sulle spalle il cliente di turno da una sponda all’altra. Pattuito il servizio, Ercole era rimasto ad attendere che Nesso raggiungesse l’altra sponda con Deinaira sulle spalle. Ma nello stesso momento di deporre la donna sulla terraferma il centauro non aveva trattenuto l’istinto di violentarla. Il gridare di Deianira però giunse all’udito di Ercole che senza frapporre indugio, malgrado l’enorme distanza, incoccò al proprio arco divino una freccia avvelenata e la scagliò mirando al petto di Nesso che ne fu trafitto. Subito consapevole della irreversibilità dell’effetto del veleno che lo avrebbe fatto morire da lì a poco, il centauro pensò subito a come vendicarsi, si rivolse quindi a Deinaira e le disse imposturando a mo’ di estrema confidenza espressa per farsi perdonare, che il sangue che fuorusciva dalla sua ferita aveva potere magico; a raccoglierlo e adoperarlo, anche dopo coagulato, spalmandolo su un indumento, avrebbe reso a lei fedelissimo e legato indissolubilmente Ercole fin dal momento che lo avrebbe indossato. L’ingenua Deianira abboccò, e avendo con sé una piccola bottiglia per l’acqua, come per consuetudine facevano tutti i viaggiatori greci di quella volta, la riempì del sangue che sgorgava dalla ferita del centauro e celandola alla meglio la portò fino a casa dove ancora una volta la nascose in una casseruola di bronzo (Cfr. in Trachinie di Sofocle). Ed ecco che sarà l’ignara Deianira stessa a tessere la camicia su cui spalmerà il sangue di Nesso, prima di far dono dell’indumento all’altrettanto ignaro marito.
2 – Ercole si rende conto della propria fine nello stesso momento in cui indossa il dono della moglie. Se ne rende conto perché collega la disperata reazione del proprio corpo già in preda a improvvisa cancrena e irresistibile bruciore, alla memoria della vaticinio che gli era stato fatto anni prima. Ne avrà conferma mandando a consultare l’oracolo. Decide perciò di prepararsi ad affrontare una morte dignitosa, da par suo, e ordina al figlio Illo di disporre un catasta di legna per farne la pira su cui si sarebbe sdraiato per morire incenerito dal fuoco. Il figlio appresta la pira, ma quando Eracle vi si colloca e ordina che si appicchi il fuoco, si rifiuta e fugge lontano. Non restava altro all’eroe che attendere la disponibile mano del primo passante e infatti questi arriverà presto con il proprio gregge. È il pastore Peante, padre di quel Filottete che costituirà l’anello finale della catena di tragici effetti seguiti all’inganno di Nesso e al dono della inconsapevole Deinaira. Ercole invoca l’aiuto di Peante, gli chiede di accendere il fuoco alla catasta e in compenso gli dona il proprio famoso arco dai poteri divini. L’inganno e la vendetta di Nesso hanno già prodotto due vittime: Ercole e l’ingenua Deinaira, la quale avendo capito di quale tragedia era stata inconsapevolmente responsabile, si suicida facendosi infilzare da una spada che aveva all’uopo fissata nel terreno.
3 – La seconda parte è nota anch’essa attraverso altra opera tragica di Sofocle. Peante dona a Filottete l’arco che aveva ricevuto da Ercole come compenso per essersi prestato ad accendere la pira. Il giovane lo adopererà per la prima volta quando è in navigazione verso Troia con tutta la flotta di armati che vanno alla conquista della città dove regnava Priamo, padre di quel Paride che aveva rapito Elena moglie del re Menelao. Filottete prova l’arco con cui Ulisse aveva scoccato la freccia avvelenata contro Nesso. Lo prova conoscendone lo straordinario potere ma ignaro del fatto che esso era stato lo strumento che aveva provocato la morte del Centauro traghettatore. Mira su un delfino che seguiva la nave ma nel momento stesso che imbraccia l’arma divina per usarla, una fulminante cancrena puteolente si impossessa del suo corpo. L’insopportabile olezzo di carne putrida rende impossibile la sua permanenza sulla nave e sarà Ulisse a suggerire l’idea di farlo sbarcare sulla spiaggia della prima isola incontrata, Lemno, e ivi abbandonarlo. Il resto ce lo ha raccontato Sofocle nella tragedia cui ha dato il nome del protagonista.
4 – Timeo danae et dona ferentes! Ma sarà detto invano. L’arco di Filottete sarà stato frattanto recuperato dietro suggerimento di Apollo, che aveva fatto sapere come Troia sarebbe caduta solo se sotto le sue mura sarebbe arrivato l’arco divino che era stato di Ercole. Sofocle racconta la missione dei greci inviati a rintracciare Filottete e l’arco, racconta la reazione del disperato ancora vivo. Infine l’arco sarà recuperato e Filottete curato. La profezia era stata rispettata, e il volere dell’Olimpo esaudito. Leggiamo in Apollodorus Mythographus la fine di Paride ucciso dalla freccia fatale partita dall’arco di Filottete, come segnale di preludio per la caduta di Troia. Sarà stato l’adempimento di questo passaggio a placare la tragica “forza d’inerzia” della vendetta di Nesso? Non invocheremo un deus ex machina per una qualche risposta. I fatti che seguirono il recupero dell’arco e l’uccisione di Paride, sono noti: Ulisse concepisce l’idea del cavallo di legno con pancia zeppa di guerrieri. Il marchingegno spacciato per dono degli Dèi ai creduli troiani, sordi al vaticinio di Cassandra. L’inganno propagandato dal greco Sinone aveva ripetuto quello antecedente di Nesso a Deinaira. E tutto iniziato per causa di donne? Nesso aveva molestato Deianira, Paride aveva rapito Elena. Anche le “Scritture sacre” della cristianità, propongono come origine del “partorire con dolore” il gesto di una donna, Eva. Non spiegano però se la sua sia stata ingenuità e buona fede come quella di Deianira. Si limitano a evidenziare il gesto e il simbolo (la mela simbolo d’innocenza o del “peccato”?). Sotto-sotto sgomitano aure “divine” di maschilismo ante litteram, lungo tutta la mitologia, basterebbe far caso agli esempi-modello che propone il padre Giove . Per il caso di Nesso l’evidenza del “delitto d’onore” commesso da Ercole, non viene presa in considerazione dall’Olimpo, gli dèi crucciatissimi per l’uccisione del Centauro, permettono e agevolano il compimento della vendetta tramata della vittima di Ercole, senza attribuire alcun significato morale al comportamento del maschio stupratore che Nesso, appunto, rappresenta. Ma questo è un tema a parte, sembra mai risolto, salvo l’abolizione (in Italia) del delitto d’onore sostituito da un tragico contrappasso da congiura celeste, il proliferare della “civiltà” del femminicidio. La spiegazione giungerà con il verdetto di un deus ex machina?