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Scrive Paolo Donini in un bel saggio apparso su “Anterem”:

La violenza è il fondamento dell’impoetico. Ma la violenza è un paradigma impersonale, un paradosso assoluto e valevole per tutti. Per contro, la verità poetica si dà esclusivamente per ciascuno, e mai: per tutti. La verità poetica presiede a un avveramento sempre-singolare e la chance di quell’avveramento, aggredita e azzerata nel pubblico dominio dell’impoetico, si riforma e risana, nella flagrante singolarità dell’incontro poetico. La verità poetica permane (e permarrà) persino se inattinta, grazie all’ascolto accertante che la convoca a sé avvicinando il silenzio, eguagliandolo, dove attendono nella voce rasa al suolo delle culture distrutte, sempre pochi versi scampati alla violenza.

 

Vorrei giungere, dunque, e assai velocemente, a una conclusione che certamente non coincide del tutto con quanto appena sostenuto ma che ne costituisce, diversamente, un corollario quasi automatico e singolare: e cioè la necessità di ribadire la funzione di “mensa” della poesia, parola oggi coincidente con sostrati “aziendali”, di elargizione indifferenziata di un nutrimento, del resto, esso stesso, indifferenziato.

La poesia si dà e si riceve, invece, nel contesto di un numero ristrettissimo: chi scrive e chi legge declina la condizione di una élite che si costituisce per naturale ordito della parola offerta e della parola ricevuta. Non per tutti; non nello spazio della mensa aziendale ma in quello del tavolo da cucina apparecchiato. Si entra in questo spazio per naturale desiderio e si riceve chi vuole entrare senza chiedere la carta di identità.

E’ chiaro, però, che in questo accogliersi, si configura il patto non dichiarato intorno a una parola che, come dice Paolo Donini, “realizza un avvenimento sempre singolare”, per “ciascuno” e non per tutti. “Tutti” è moltitudine, “Uno” è il luogo in cui il senso della poesia trova la sua giustificazione e la vera luce che la investe di senso.

Giungo a questo pensiero da considerazioni pratiche, dalla presa d’atto dell’esistenza di “comunità” che si autoreggono a porte chiuse. Di monadi poetiche che vagano senza alcuna luce riflessa; di castelli circondati da fossati. Dal paradosso dichiarato soprattutto dai poeti stessi, che la rete ha autorizzato attenzioni critiche illegittime, l’impossibilità di redigere canoni, soprattutto se queste attenzioni siano state rivolte ad amici. Ma diciamolo fino in fondo: non esiste altro modo di diffondere la poesia senza che questa abbia varcato la soglia dell’amico più prossimo, del lettore desideroso di comprendere. Ognuno trova i propri poeti e ne perde altri; e così sia. Se questo è, vorrei fare mia, intimamente e profondamente, una dichiarazione di Luigi Di Ruscio:

 

“Non sono un ipocrita; stimo i critici che si sono occupati della mia opera”.

 

Chi non ho incontrato, chi non si è fatto incontrare, semplicemente non esiste.

Occuparsi dell’opera altrui viene da un desiderio di intimità, di specchiamento per somiglianza o per burrascosa alterità. E’ in questo contesto di spazio piccolo che la poesia può proclamare persino il suo mutismo, la sua impossibilità a dire dell’altro che ha davanti; lo può fare perché sa che da qualcuno sarà accolta comunque, come il bambino che si mette nell’angolo della classe e dice a tutti la sua incapacità di stare con gli altri. Il maestro si avvicina, lo ascolta, lo sprona, gli parla; e il resto, il dopo, sarà il dono offerto a tutti, e gradito perché ora compreso: persino il dono del silenzio o del pianto.

Sebastiano Aglieco