Napoli, vuota, è un “deserto innaturale”; la gente infastidita dalla malavita e dalla spazzatura traboccante per le strade, risponde con la “diaspora” in una scenografia che rammenta” fotogrammi di Kubrik”. Ovunque montagne di rifiuti altissime in uno spettacolo di desolazione. È una visione lunare per il commissario Abruzzese, protagonista di Mater Munnezza (CentoAutori, pp. 213, euro 13) di Massimo Siviero, il quale, dopo due anni trascorsi a Milano, ritorna nella questura partenopea per risolvere un “conto in sospeso con la città”. Ed è subito chiamato ad affrontare l’intricata vicenda del cadavere “impacchettato” di una giovane donna ridotta a un “manichino di carne” e ritrovata nelle acque antistanti un club esclusivo. Nell’esecuzione del crimine palesi sono i modi di una macabra ritualità.
L’atmosfera vacanziera fuori luogo, le boutique eleganti con le vetrine accese fanno da contrasto con lo scenario di una morte circondata da gente che va e viene in un clima meccanico. Si moltiplicano gli stati di tensione, le indagini prendono la via fra mille difficoltà, mentre la metropoli a poco a poco moltiplica il suo franoso tessuto di una società impermeabile alla collaborazione. E intanto non ha tregua una catena di dibattiti sul degrado urbano e sulle insospettabili insidie nascoste in ogni dove. La “capitale europea dell’illuminismo” appare ridotta a una “discarica di rifiuti”, sconvolta da rapine, attraversata da manipoli di giustizieri della notte, insanguinata da un numero impressionante di omicidi e sempre alle prese con i “verbi difettivi dell’edilizia”. Una “geografia di veleni” che, con la complicità dei colletti bianchi, dilaga senza sosta. Il riconoscimento dell’uccisa, una giovane albanese andata a trovare lavoro al circolo Posillipo, e la prolungata assenza di una ragazza probabilmente tendono i fili di un primo collegamento.
Implacabile, franto in una successione di dialoghi e insieme capace di indicare fulmineamente ogni genere di corruzione, il romanzo, agile come nelle consuetudini di Siviero (rinviamo al ciclo del genere giallo dominato dalla figura del commissario Abruzzese), fa serpeggiare l’inchiesta fra i meandri di realtà spesso crude e riflessioni che mirano a sventagliarle su contesti larghi di implicazioni sociologiche, apparati sentenziosi con una punta di alterazione fantastica sovente mischiata a qualche trama di grottesco e costantemente dentro il perimetro dell’area centrale. Il risalto di una scrittura vivace ed espressionistica non impedisce la tenuta regolare e informativa del discorso, qua e là chiazzata da un lessico di caratura locale.
Il rigore dell’indagine mantiene un’alta temperatura costante tenendo in arsi un’incisività curiosa e tagliente, su cui il picco delle allusioni non tarda a trovare momenti di denuncia risentita. Corredata da percussioni linguistiche talora anche criptiche, la parola riesce a tenere unita la multiforme materia, facendo di ogni dettaglio, anche di quello più oscuro e minaccioso, una specie di emblema pronto a dare impulso non solo al movimento poliziesco ma a un’idea, una verità scomoda, strappata al silenzio e all’omertà.
Cose, oggetti, materia comune dell’uso domestico si addensano in una dimensione irreale, occupano spazi fantastici e fanno piegare l’ordine della visione logica verso esiti deformanti. A muovere questo transito di cronachistica rassegna del quotidiano verso ombre, simboli, inganni, è il senso del vuoto, la “paura del tempo vasto che avanza e corrode le cose, una specie di aria acida, di vento atomico che consuma e annienta le cose e ci lascia nel vento cosmico”. Fluttuanti come “astronave alla deriva”, gli uomini sono travolti da un’atmosfera indefinibile, misteriosa eppur carica di pesi terreni. Queste sensazioni prova il protagonista del primo dei sette racconti raccolti da Davide Gatto in Il male minore (Manni, pp. 171, euro 13).
L’unica salvezza può venire dalla circolazione del mondo esterno, dal potersi aggrappare ad essa per trovare ancoraggio nella landa desolata del tempo. Gatto, in tale clima di rarefatta valutazione acronica inserisce un discorso politico sulle guerre dettate da ragioni economiche e dal bisogno di portare ovunque democrazia “mettendo le mani nel sangue”. E mentre i personaggi dibattono su siffatti problemi, il sole, le cose abbandonate pure dalle ombre sono “povere cose piatte e trasparenti”. Si assiste a un continuo gioco di finzione e verità su cui l’autore fonda un racconto paziente e sfuggente, minuzioso ed energico con un amanuense che trascrive grandi opere “senza capire nulla” e soprattutto senza attendersi alcun premio nell’aldilà.
Analogamente anche in certi angoli più ripiegati di pagina, lo scrittore cerca di captare le minime risonanze della realtà minuta nel cosmo, per edificare disegni immaginifici, un'”uniforme nebbia di luce”, una completa fusione di immagini diverse, la lotta per riempire la “distesa sconfinata” dei giorni, lo scenario è sempre quello labile, ammiccante e inconsistente di figure che “sciamano spinte alle spalle dall’ultimo sole” e di un mondo che si è fatto “stretto”, dal momento che “quello che succede à come se succedesse nel cortile di casa nostra”. Il momento più vero è la notte, infinita, “sempre uguale a se stessa”.
E quando l’orizzonte cambia gli uomini continuano ad abitare le loro differenze “come si abita una fantasia”. Una prosa denotativa, puntellata su reiterate ripetizioni di parole-chiave, non monotona ma ipnotica si dedica a cercare una geometria di voci problematiche, resistenti, tenaci nel loro spostarsi da un luogo all’altro di situazioni abbaglianti in cui i profili lottano per trovare un rilievo in paesaggi che prendono consistenza nelle “prima luminescenza del giorno”. E la voce del racconto si ritrae e si ripresenta, partecipe e indifferente. La pagina è conclusiva nei suoi frantumi, anche quando si libera dei suoi limiti di pensosità e sembra procedere oltre, verso un punto, verso qualche sagoma “sospesa sull’orlo di un presagio innominabile”. V’è una limpidezza assoluta in certi palpiti apparentemente occasionali.
Arroccato sulle montagne, lontano da Palermo, Jato è un paese periferico e dimenticato, stretto dentro spesse mura medievali. Qui, dopo anni di assenza trascorsi per il mondo in un’avventurosa vita di musicista, ritorna Rosario, appena in tempo per il funerale del padre. Il fratello Pino, tutto dedito alla viticultura, lo fulmina con “uno sguardo severo”. Divisi dall’amore per Maddalena, la donna di Rosario che ha sposato però Pino, i due fratelli vivono con grande tensione il loro irriducibile dissidio.
Pungolato da incessanti, minime vicende locali, il tema centrale di Il Duka in Sicilia (Einaudi, pp. 217, euro 17), romanzo picaresco di Vittorio Bongiorno, si amplia a spirale evocando un gran numero di personaggi e mettendo in rilievo la tendenza a raccontare un minuscolo ma insidioso mondo di corruzione e degrado, violenza e mafia, un processo di dissoluzione sparso in segni non tutti pienamente espliciti, ma fermati negli istanti più ambigui di una situazione, in un contesto di volti in procinto di sfaldarsi e di obnubilare la più comune e decifrabile identità. Non si dispiega del tutto la volontà di un giudizio generale, lo scrittore si muove sempre sul punto di aggiungere qualcosa di nuovo, un motivo da approfondire, ma si ritira dietro un dialogo, una semplice descrizione di uno stato d’animo. In disparte, osserva protetto da un realismo neutro, un distacco che non chiede sovvertimenti di senso, allargamenti della sfera espressiva.
Forse si stendono echi letterari di una lezione di impassibilità ottocentesca, tuttavia all’interno di una capacità – ben mimetizzata – di trasformare ogni invito in qualche brivido creativo, in una sorta di composita didascalia in cui non preme troppo il giudizio. Ne scaturiscono profili psicologici che si esprimono più in astrazione che in effettiva incisività di diagnosi. Si punta molto sugli effetti del sogno, del colore, dei meccanismi di costruzione delle singole tessere narrative. Si incrociano gli eventi, l’aria è soffocante, i personaggi entrano ed escono di scena condotti da quel ritmo di musica che vibra ovunque e chiama quasi dal nulla la mitica figura del jazzista Duke Ellington, a cui l’intero paese guarda come a chi dovrà, arrivando, essere l’ospite d’onore di una festa organizzata per salvare una diroccata chiesetta.
Bongiorno, a volte, si dedica più a far raccontare, attraverso le confessioni dei personaggi, i fatti, che a seguirli in presa diretta. Ne deriva come un cantare assecondato dalla ricorrenza di termini dialettali, in cui le notizie filtrano per mezzo di voci ora chiassose, ora pacate, ridenti o incolonnate in un continuum rude e struggente. E soprattutto sul piano di uno slittamento nel metafisico. E arriva inatteso il tempo, che “si ferma” con il caldo e con la luna che è l’“unico faro” lesto a illuminare la notte. Dal canto suo, la musica che ha accompagnato la storia si solleva, per un “prodigio”, a un “grappolo di note dolcissime come acini dell’uva più prelibata che Dio aveva creato”. Nell’onda di quella musica i personaggi assumono un aspetto leggendario: Miranda, un impresario discografico avvolto nel mistero; Mimì, scapolo di bell’aspetto; la giovane Margherita, che spera d’essere salvata da un “cavaliere nero”; e poi il parroco Rocchè, il sindaco, con la moglie, una “bella matrona”; un simpatico, anziano clarinettista di New Orleans, e il finale elenco di nomi dell’oggi, fra cronaca e malinconia di memorie.
Il romanzo Prospettiva Lenin (uscito a Mosca nel 2008 e ora, riveduto, presso Feltrinelli) di Antonio Fallico che si firma con lo pseudonimo di Anton Antonov, è costruito secondo una scansione binata: a voci alterne si muovono due protagonisti che alla fine si identificheranno in un solo personaggio a mezza via tra l’autobiografia e la finzione. Nato a Bronte, l’autore notissimo ‘businessman’ ci consegna una pagina estremamente mobile, in cui si passa dalla notazione spesso parcellare a un più vasto orizzonte storico, sociale, economico e politico. L’attenzione non è tanto fissata su chi conduce l’azione ma deviata verso l’esterno da una sorta di curiosità dello scrittore che denuncia il desiderio di movimentare una scena dietro l’altra.
Ad aprire il plot è Ivan, “ingranaggio di una macchina perfetta”, al servizio del Kgb con il compito di controllare i comportamenti di stranieri che operano in Russia. Estremo difensore del socialismo, l’uomo assiste alla disgregazione dell’Unione Sovietica e, sgomento, allo stato di miseria e di prostrazione della gente (“Mosca rigurgitava di code infinite davanti ai negozi, soprattutto quelli di generi alimentari e di beni di largo consumo: sulla città posava l’ombra della povertà e della carenza di cibo”). Perde contatto con gli amici e si rifugia in un condominio fatiscente, un falansterio dove abitano persone deluse, un “mostruoso alveare di relitti umani”.
L’altro protagonista, che conduce la storia in prima persona, è Salvatore, cresciuto alle pendici dell’Etna e incline a portarsi dentro i colori e gli umori della sua terra, le voci, familiari, i costumi, i “contrasti forti”, la “severità dolcissima delle linee delle case, dei muretti a secco, dei sentieri che zigzagavano verso il monte”. Lì, in quei luoghi infuocati, compie la propria educazione sentimentale, si laurea a Catania con una tesi sull’abate Casti, impara la lingua russa e, per conto di una grande impresa di avanzatissimi mezzi di comunicazione telematica, è mandato in Mosca per diffonderli. Ciò gli consente di venire a contatto con uomini potentissimi e anche di accettare un incarico del Kgb che lo invia a Comiso e poi a Roma sotto copertura, per procurare informazioni “sull’ago della bilancia geopolitica della Guerra fredda”. Scoperto, riuscirà a riparare in quel grande paese del Nord dell’Europa che ha scelto tanti anni prima e che gli ha dato tutto.
Trapunto di citazioni, che non sono mai appesantimenti culturali, ma moderni strumenti di trasmissione narrativa, il racconto fonde molti generi letterari (dalla narrazione storica a quella di spionaggio, dalla vicenda picaresca a quella psicologica e di costume) in una struttura composita nella quale, anche con l’ausilio di un’abile strategia degli spazi bianchi, si fanno coesistere in modo duttile finzione e realtà.
“Era l’anno, ma che importa la data? Era un vecchio Natale del paleozoico precellulare, degli abeti non ancora vittime ecologiche, e nevicava come nei western di una volta”. Tutta la famiglia è intorno all’albero, il piccolo Morfeo è rannicchiato sotto una finestra. “Pesante come una bara”, una sgangherata persiana, “stanca della vita”, precipita e colpisce il bambino in mezzo alla testa. Un colpo tremendo che lascerà un trauma incancellabile. Ma, “bello”, il mondo fuori lo accoglierà all’uscita dell’ospedale.
Un impasto linguistico immaginoso, secco e ilare, travolgente nei passaggi da un episodio all’altro e limpido nella cura del dettaglio sul punto di deformarsi, inanella le cadenze anomale, tra urti del reale contraffatto e immalinconita sapienza, di La traccia dell’angelo (Sellerio, pp. 125, euro 111) di Stefano Benni, gestendo una quotidiana luce media da cui trapelano le fosforescenze perverse e le discrete favole giornaliere tipiche della produzione dello scrittore (a partire dall’inquietante Il bar sotto il mare).
Gli anni che trasportano una miscela di schegge di verità e di mistero ci consegnano un Morfeo ormai adulto che, spinto dall’ossessione di diventare uno scrittore, si immerge in “interminabili maratone sui fogli” spingendo ogni pensiero verso l'”oscurità della notte”. Come in un delirio, il paesaggio si popola di insoliti fatti frullati nel grande contenitore della guerra tra il bene e il male, dove la pagina raggiunge il massimo della visionarietà nella figura dell’angelo caduto. Passano, convulsi e insieme chiari, sfondi e personaggi: una città avvolta nella nebbia; il padre Giobbe, un “brandello di vita” che tenta il suicidio; la moglie Angedia, “a caccia dell’uomo speciale che l’avrebbe portata dentro una telenovela”; l’amatissimo figlio e musicisti, operai, medici, una silenziosa ragazzina bionda e, in primo piano, Morfeo ricoverato in clinica con le illusioni perdute, pronto a misurasi ancora con la malattia e con la determinazione di sganciarsi dal devastante “dominio chimico”.
Dimesso, è come l'”abitante di un altro pianeta caduto sulla terra”, ancora in preda alle paure ma in storie che “devono continuare”. Attratto dalla presenza di qualcosa d’altro, di metafisico, l’autore ausculta quell’onda in più di risonanza che, pur sfuggente e metamorfica, ha nell’esistenza umana un peso insostituibile. A rendere questa complessa dimensione enigmatica opera lo strappo sonoro della parola dalla quale la scrittura è come spinta a lacerarsi e a rilanciarsi subito, ricca di un nuovo fardello di fantasmi.
Trasognato, il giorno si apre su una Messina antica e leggendaria, protetta dalla sua possente fortezza. Il piccolo Scipione, di illustre casato, ha un incubo, vede posarsi su di sé lo sguardo di fuoco di un lupo. Intanto, “primo calpestio di un nuovo giorno”, la luce arriva alla finestra della stanza della madre, donna Lucrezia, dove il bambino si rifugia, e dalle parole di lei saprà di essere lui, il lupo.
Con l’onda di una musica avvolgente e oracolare, il franto respiro di una prosa attesa da un ventaglio di prolungamenti simbolici e una collana di rubriche dai criptici significati, il nuovo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco, Il lupo e la luna (Bompiani, pp. 199, euro 18), fissa un andamento lirico-favoloso su intarsi di modulazioni orali, in cui il taglio di registrazione puntuale e il volo imprendibile della sua deformazione coesistono senza alcun attrito. Versetti icastici; percussioni foniche; inversioni sintattiche; parole ieratiche isolate in una attonita cadenza semantica di allusioni e rispondenze; violente interruzioni per lacerare il senso immediato o un legame facile tra le parti; andature ellittiche sopraffatte da congiure inesauste di iterazioni verbali, elenchi, sono mezzi con i quali l’autore innesca una forte tensione ritmica e un dilagante iperrealismo che trasformano anche episodi correnti in scenari colmi di complicazioni. Da qui una pagina espressionistica dagli ampi risvolti visionari: un angelo accorre e afferra in volo “la coda al demonio”; parte del creato “si sfalda nell’increato”; la notte cala la propria “scure di silenzio”; la bella terra d’Africa diventa presto “carne masticata dai chiodi”.
“Rapito” dai barbareschi, Scipione “sprofonda nel suo destino” di prigioniero la sua nuova vita. “Raggiante di sconfitta”, è addestrato alla guerra mentre volano gli anni e dal Soldano è incaricato di varie missioni, cadendo nel “buio oblio del male senza più parole”. Nominato capo degli eserciti ottomani, vince tante battaglia, diffonde il terrore ma patisce la malinconia e la fattura della luna. Tra saccheggi e trappole di passioni, enigmatici eventi (ricorre spesso il termine “segreto”) e resoconti del respiro epico, prende corpo una narrazione che sembra dilatarsi nel suo essere carica di cose e di ignoto, delle meraviglie spalancate dall'”altalena del giorno”.
Spettacolari contrasti si accendono nell’animo del protagonista, tra la violenza dei suoi atti e il dolce pensiero della madre, la spietata severità verso se stesso e lo scontro con il fratello Filippo. Dominano spesso movimenti corali, gridati da feroci cadenze di morte e distruzione; folle disperate scivolano in tenebrose dissolvenze, altre passano nella memoria “in forma di fantasmi, profumi, parole e paesaggi”. Accanto appaiono figure della storia e della cultura, Come Tommaso Campanella, il “frate pazzo di Stilo”, oppure figure dell’amore, come donna Selene, vestita di “chiaro e dolce bagliore” dalla luna. E tutto si chiude nel tempo, sigillato dal ripetersi fittissimo del passato remoto, definitivo, inesorabile, eppure con una misteriosa inafferrabilità per quel suo corrispondere a un intreccio fatato: “E fu così che …”.
Alla ricerca della propria origine, Clelia recupera la figura della nonna Franca, arrivata dalla Russia a Napoli nel 1914, del nonno Giacomo, con il suo “unico occhio sbarrato sul passato”, e l’immagine di sé, bambina, che vola con la fantasia dal balcone del suo palazzo, stretto tra una selva di anonime costruzioni uguali, nelle storie degli altri, “ombre cinesi che ingigantivano e rimpicciolivano nel movimento, tutto sotto i suoi piedi sospesi”. Pensa che la vita sia stata fuori di lei, afferrata per brandelli, nelle parole della gente e intanto si perde negli infiniti riflessi degli specchi di un armadio, proiettata di qua e di là, senza sapere nulla del suo destino. Vetri nei quali, forse a saperle leggere si riflettevano le strade di tante esistenze. E il tempo corre nella “stratificazione degli anni” creando una “catena di infelici” di cui la protagonista di Lettera di dimissioni (Einaudi, pp.193, euro 18,50) può essere un “anello”. Sullo sfondo, ma con puntate che entrano a far parte integrante degli accadimenti che si svolgono in una ben ripartita progressione, compaiono la storia d’Italia, quella della famiglia di Clelia, l’amore di lei per la musica sinfonica, “acceleratore molecolare”, e l’indelebile vocazione al volo.
Una pagina sensibile all’espansione di sempre nuovi spazi riflessivi, talora denotativa, fedele al suo obiettivo di scandaglio psicologico, attraverso il quale si dispone a disegnare un ordine di voci ricche di risalti, riscontri nel paesaggio campano e nella “provincia strana, gravitante sulla metropoli, schiacciata tra il vulcano e il mare, tra l’autostrada e la linea ferrata, fitta di palazzi brutti senza possibilità di distinguervi dove spariva Pompei per iniziarvi Ercolano e Torre”. Lì, con la famiglia, Clelia sente arrivare “più lente e meno crespe” le onde della barbarie trionfante. Nel giro di passioni politiche, ingiustizie patite, aspirazioni di una carriera nel teatro e sorretta dall’amore per Gianni (con il quale va a vivere in un piccolo appartamento), la donna si staglia nel nitore assoluto di una scrittura ritagliata con ogni cura da Valeria Parrella, non dimentica delle sue precedenti prove, a partire dal felice Mosca più balena (2003).
La lucidità della prosa esalta il brio e il malizioso sguardo anche quando si tratta di realtà scomode o svanite nelle nebulose della nostalgia: un fermo dominio critico fa da mediatore, sospende il deragliamento ideologico e aiuta la scorrevolezza dell’intreccio che riga, pure di “irrequietezza e furore” gli eventi dell’esistenza di Clelia, lo “scarto di binario” di nuove direzioni: l’abbandono di Gianni, il successo artistico, la discesa “sotto il suolo del mondo” del palcoscenico per meglio capire i meccanismi, il continuo confronto denso di amarezza con i mali della città, le distorsioni della politica, l’allarme quotidiano. Nel frattempo dal “cuore” di uno dei quartieri più degradati, vale a dire da “un’altra galassia”, arrivano “segnali”. E la terra? “Disegna un’ellisse sempre più stretta attorno al sole”.
Una “catastrofe al rallentatore”, un'”apocalisse” che ha fatto “ben poco rumore”: Venezia, dopo un “millennio di vita anfibia” sprofonda nelle acque. Acquistati i relitti dell’immensa alluvione, i cinesi ricostruiscono parte della città. Siamo nella seconda metà del Duemila, e nasce un nuovo territorio senza orizzonti, una “fosforescente necropoli apogea”, che diviene il simbolo del nuovo mondo, in cui tutto è permesso, tranne portare armi da fuoco, avere figli e avere un dio. Confinati in un ghetto i veneziani superstiti e le stagioni ridotte ormai a memoria riflessa di un’epoca tramontata, il tempo è andato avanti.
Alla prima luce di un inverno eccezionalmente caldissimo, il Maestro, un “quintale di ossa robuste” e “carcassa umana di cicatrici”, si sveglia e guarda, dall’isola di San Giorgio, la vecchia città rinata preparandosi a scendere nell’arena per operare una selezione di lottatori tutti destinati a vivere in solitudine. Termometro sensibile di una realtà scardinata e indecifrabile, la scrittura di La seconda mezzanotte (Bompiani, pp. 349, euro 19) di Antonio Scurati fa scattare sperimentalismi strutturali e figurativi, improvvisi cambi di registro stilistico, mantenendo tuttavia un rigoroso montaggio di scene fosche, spesso icastiche, altre volte dilatate verso una dissoluzione come accerchiante mistero, una zona d’ombre come contrappunto e motore di un senso di attesa di imprevedibili eventi straordinari.
La rappresentazione fantastica, orwelliana non falsa il misterioso agire del protagonista e degli altri molti comprimari, né altera le profilature psicologiche: le motivazioni dei comportamenti – saettanti dentro un magma di azioni – derivano più dalla pressione di Scurati (dal suo progetto ustionante di grandiosa costruzione narrativa, stralunata e iperbolica venata dalla “forza triste” che circonda le vicende) che dagli impulsi della “fatalità” di una città d’acqua che si accerchia con le “proprie mani”. Epicentro di un divertimento sfrenato, meta di visitatori di ogni luogo, Venezia è invasa da una euforia collettiva, da una circolazione di immagini fissate da un “montaggio serrato”, mentre tenebre e abisso sono “tutti a carico di chi si attarda nell’umano”.
Dilaga una folla di indovini, ciarlatani, esseri deformi, simulacri minacciosi di una “favola nera”, volti deformi che si perdono in cunicoli percorsi da “orchidee animali” colonne di esseri disponibili a tutto. Con il Maestro, che fende questo inferno spettacolare e straziato, c’è l’allievo Spartaco, “scultoreo, micidiale”, quasi astratto nella sua irraggiungibile possanza. Intorno, il carnevale frenetico, violento, barbarico, con la gente che vuole vedere scorrere il sangue a fiumi dei gladiatori. Devastazioni da incubo, entusiasmi contagiosi, vorticosi personaggi fluttuanti in luci gelatinose si susseguono fra uno sconfinato universo di cose che “non sono mai state vive e mai lo saranno”.
Avanza il libro, maestoso e visionario, sonoro, sul ritmo ossessivo di una danza macabra. Cesure istantanee e illustrazioni condotte al limite del grottesco, celebrazioni seriose dell’assurdo alimento una narrazione appagata delle proprie virtù illusionistiche più che sorretta dall’esigenza di trovare negli intrecci verità da approfondire. Scurati potenzia al massimo i moduli espressivi, stravolge la comune percezione dei fatti, finendo con lo stare sempre sul punto più alto dell’osservazione: non una forma sofisticata di distacco, bensì un modo di innalzare la voce verso un più marcato grado di mirabolante racconto.
La povertà, la malattia, la vecchiaia: tre temi dolenti, devastanti, osservati da un punto di vista mobile, pronto a trovare forme espressive diverse, soluzioni plurilinguistiche di composita fattura, mutamenti nervosi di toni, miscele di realtà e immaginario, vorticoso alternarsi di abbagliamenti e tenebre. Un trittico, privo di un filo conduttore, trascinato dalla veemenza della parola gridata o dall’ascolto di quella sofferta, riflessa su se stessa in un pensoso cerchio e pure nello scivolamento di significati verso interrogativi irrisolti e immagini frammentate che si misurano con i ricordi.
Trilogia degli occhiali (Rizzoli, pp. 95 euro 13) di Emma Dante va dal monologo al dialogo serrato, dalla didascalia alla distensione narrativa, dalla definizione secca, spesso concitata di una situazione anomala, alla proiezione favolosa sul punto di deragliare per riprendere presto ordine e polarizzare un minimo evento intorno a un centro. Concisa e divagante, pensosa e fulminea, la pagina vuole circoscrivere un caso, un gesto, un comportamento, senza chiamare in aiuto gli strumenti più naturali e funzionanti della struttura narrativa. Cerca, invece, di far esplodere gli attriti fra concretezza e urticante fantasia. Ne viene fuori (anche dai montaggi scenici arditi, dalle esplosioni esclamative, dagli strappi del corsivo) un’impressione di scrittura aggressiva e lirica, un’esca di spettacolarità e, insieme, un’ansia di pausa, con una pronuncia musicale lieve di nostalgia e non aliena dallo stupore.
Un anziano marinaio recita, con la “faccia da furbetto” davanti a una sala affollata la “sceneggiata” della sua vita, l’amore per il mare e quel suo perenne rimanere legato a una prua immaginaria, “nella posizione di una polena pronta a sfidare l’oceano” (Acquasanta). Allontanato dalla sua casa, nel quartiere della Zisa, un ragazzo down, assistito in una dimora religiosa da due suore, se ne sta inerte a ogni stimolo esterno e, preso dai sogni del suo passato, guarda dalla finestra la stregata vita del castello arabo (Il castello della Zisa). È un’atmosfera plumbea che si protrae nell’ultimo testo (Ballarini), nel quale una donna molto vecchia trae da un baule i suoi ricordi, il più bello dei quali è quello del marito. È la notte di Capodanno e i due si mettono a ballare: lui, alto e magro; lei piccola e curva, formano l’articolo il. Da un secondo baule escono oggetti, anche un velo da sposa e un piccolo carillon. Così, ballando, i due “rientrano nei ricordi”, ripercorrendo la loro storia d’amore. E intanto il racconto non cessa di riservare sorprese, mentre la stanza risuona delle canzoni di un tempo.
I cristalli dei lampadari avvolgono con i loro bagliori Lida Baarova, l’io narrante di L’amante di Goebbels (Marsilio, pp. 158) di Anna Kanakis e la rendono “inadeguata” davanti alle manifestazioni di affetto del fidanzato Gustav. Giovane attrice cecoslovacca, Lida si innamora, “come trascinata da un magnete”, di Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Nazionalsocialismo. Siamo a Norimberga, nel 1936.
Avvampata da una tempesta di sentimenti, la pagina di questo avvincente romanzo si frange in un delirio di sogni: frammenti aguzzi, interrogativi ed esclamativi affidati spesso a istanti visionari declinano gli stati d’animo della donna e si avvitano in un inestricabile intreccio di realtà e di incubo, di silenzi e grida e memorie torturanti. Ma v’è nitore in questa storia di passione, una lucentezza espressiva (il lessico esatto, la sintassi veloce e senza esitazioni, i tagli improvvisi delle immagini, sotto una pressione di colori che non le fa deviare dalla loro catena) tesa a dissolvere ogni baldanza della narrazione dando forza solamente al flusso continuo della voce della protagonista e della sua naturale vicinanza alle cose. Se anche un che di indefinito e oscuro sembra aleggiare, proprio questo attrito fa capire certe angosce, e commistioni misteriose con la natura.
L’alternarsi degli abbandoni di Lida segue il filo di un respiro dal quale proviene l’increspata autoanalisi che le permette le esplorazioni più capillari del suo comportamento, dei gesti, del suo stare prepotente e nello stesso tempo anche defilata sulla scena. Si fa strada una sensibilità prensile nel cogliere gli aspetti dell’esterno, non tanto nella loro impermeabile forma, quanto in quel loro tramutarsi in ombre fantasmi, sussulti del cuore e della mente. La “finzione s’accartoccia nella stessa morsa della realtà”; la relazione con Goebbels si fonde con il “sogno di carta” di un copione, “raccoglitore del niente”; e una gioia autentica diviene “retaggio di una sofferenza”.
Elegante, rapido e pur riflesso in un ventaglio di risonanze, il libro pone il lettore sempre dentro la verità, forte, inesorabile, e dentro il suo controcanto favoloso: ecco un bosco che “capitola e si arrende alle nubi”; ecco il cappotto di un ufficiale, appeso a un attaccapanni, assomigliare a un “pipistrello che riposa a testa in giù”. Incalzante, una folla di personaggi, nel frattempo, si riversa con severità, crudeltà, malizia: gerarchi nazisti, belle donne (tra le quali Magda, la moglie di Goebbels, una “bambola di cera”), intellettuali, tra feste, cene, riunioni politiche, mostre d’arte. E mentre si avvicinano le avvisaglie della guerra, Lida è “spazzata via come un ingombro inutile”.