Mario Lunetta, Identificazione biometrica. Poesie scritte in sogno, Roma, Robin Edizioni, 2011, pp. 126, € 10,00.
Come un tumultuoso, barocco sueño del infierno – una “voragine” che inghiotte “qualsiasi forma di nostalgia” e poi la rovescia in impegnata consapevolezza contro un contesto dove “tutto è futile, tutto è smagliato/ […,]/ lasciato lì” – è questo libro votato a un’autobiografica Identificazione fisiologico-comportamentale: libro avverso all’infetto “scenario di cartapesta”, all’“entropia universale” che tutti ci aduggia e il poeta stigmatizza “senza troppo zelo ma non troppo disimpegno”.
Lui, âgé per l’inane anagrafe, è ancora quel ragazzo dallo spirito avventuroso (“Sembri uno zingaro mi diceva mia madre”) che torna “a casa sporco, stracciato, in disordine, eccetera”; e subito dopo, inesausto e metamorfico dandy, eccolo, impassibile, raffrenando ogni sdegno e passione, ad “annodarsi la cravatta nella tormenta”.
Infatti, non c’è zelo nel rapporto con l’immediatezza delle cose da parte d’uno scrittore ‘totale’ qual è Mario Lunetta; bensì un sobrio engagement filtrato dalla registrazione, critica e paradossalmente onirica, d’una realtà che, assunta per quella che è, appare poi ‘sognata’ per come dovrebbe essere.
Concorrono, in tale sogno lunettiano giammai metafisico e tutto materialistico, tanto la lingua produttrice di forma estetico-letteraria (ma non gli esausti moduli dell’art pour l’art) quanto la severa coscienza metalinguistica della non neutrale e tuttavia non subalterna responsabilità della poesia – della sua implicita valenza etica – verso i sistemi culturali originati dal vissuto umano e dagli avvenimenti della storia, della quotidianità sociale, delle ideologie o della politica.
Allora, oltre ogni “oblio/ & dimenticanza,/ sonnolenza, pazienza, evanescenza, riposante incoscienza” sia un impegnato “bon voyage mauvais voyage” la lettura di questo “calepino negligente, indisponente”: che col telepatico Emilio Villa, “grande storpio della carne & del verbo” quasi omologo del “Contino de’ Leopardi” dalla “voce remota” (ah, quel XX dei suoi Pensieri, feroce monito contro le pubbliche, stolidissime declamazioni di versi!), bandito da “questi tempi davvero gobbi nelle meningi”, evoca a raccolta la memoria dei Cantos di Pound trattato dai neoantifascisti come un “animale al circo”, le “Ceneri senza Cena” di Pasolini o il “chierico rosso” Sanguineti, poeta d’una “Palus Putredinis” fatta ora specchio della nostra attualità.
L’ingegno affabulatorio e la militanza critica, la chiarezza illuministico-antilirica legata a una smagliante lucidità intellettuale, un sorvegliato sarcasmo e l’arguzia polemica caratterizzano, oltre alla metafora “biometrica” dell’autore, il perspicuo risvolto identitario di quest’opera che, scritta in nome della poesia, compendia i talenti di un autore la cui opera complessiva resta un riferimento essenziale della letteratura italiana secondonovecentesca.