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18- Libera traduzione in prosa da l’“Entrée d’Espagne” DXLII versi V-XVIII - anonimo

«Cacciato via, mi precipitai fuori dalla porta con qualcosa d’indescrivibile che percorreva la mia pelle, il sorriso sulle labbra come fossi ebete e un senso di aspettativa.
Immenso.
Ero solo.
Ma c’era lei, c’era soltanto lei che mi faceva barcollare come un viandante sfinito per una strada di porfido ormai buia, c’era lei nei miei occhi, nei miei timpani, sotto i polpastrelli delle mie dita.
E ad ogni passo incerto sentivo ancora il gelo dei ferri di Orlando stretti nelle mie mani; vedevo gli occhi dell’altra marionetta accanto a quelli di lei che mi fissavano, tutti gli occhi di tutti i pupi, insieme ai suoi, addosso a me; sognavo il seno di Agata prominente contro il mio petto; bruciavo e non mi controllavo, quando qualcosa
(lui)
mi agguantò da dietro, grugnendo, porco, sulla mia nuca e non mi restò che ripiombare nella realtà di questo schifosissimo mondo.
Adesso, emozione dietro l’altra, vibrava di nuovo la paura.
«Tu… tu… come osi?» diceva, intanto mi sbavava sul collo saliva bollosa. «Tu non la devi toccare! È mia! È mia!», mugolava. E quando io mi illusi di essere riuscito a divincolarmi, in realtà era lui che aveva scelto di lasciarmi.
Era un maniaco? Era malato, oppure…»

Turi Torre aveva gli occhi che guizzavano di intelligenza. Si accese una sigaretta, inforcando le lenti che aveva tolto per qualche momento come per vedere meglio, come se quelle nascondessero, scurendoli, anche i ricordi e bisognasse rimuoverle per porre chiarezza su di essi. Gli occhiali, coprendo iridi nere così svelte e inquiete, non si limitavano a nascondere i sentimenti di un uomo, ma soprattutto il passato, un passato di uomo. Gli occhiali erano la sua maschera, il camice del medico, la divisa del militare, erano la mitria del papa. Senza di essi troppo facilmente Torre dimenticava di essere assassino.
 
«…era psicopatico, leggermente ritardato, la tormentava da ormai due anni. Ma Agata, stupida!, Agata non ne aveva intuito le potenzialità, ostinandosi nel valutarne l’imbecillità, solo quella, che definiva innocua. E mi raccomandava di non dar peso alle sue azioni… Poi cambiava discorso, cominciava a progettare forse per dimenticare, forse ingenuamente davvero dimenticando, progettava ancora su di sé, sul proprio futuro, sottolineava il desiderio di partire per il mondo come girovaga, di ripetere il cammino già percorso da Vitali e Remi, questa volta portandosi dietro non una scimmietta e tre cani, ma un teatro di legno che potesse rimpicciolirsi e ingigantirsi a seconda dello spazio disponibile, poi, insieme a quello, varie serie di pupi, ognuna di una dimensione diversa, dalla più piccola alla più pesante. Mi spiegava che avere successo in lidi stranieri non significava solo ricevere gratificazioni per l’abilità dimostrata agli spettatori, ma sopra ogni cosa raccontare la storia del povero popolo siciliano che viveva in una terra ricca e generosa senza mai possederla, un popolo addirittura posseduto dai despoti, oggetto di regalie e vendite da un sovrano a un altro, sottoposto a umiliazioni e soprusi stranieri, in fuga da scorribande di turchi e pirati, trainato da culture di dominatori e devastato dalle battaglie che fazioni opposte non indigene si combattevano fra loro per il suo possesso.
Le guerre indette da eroi schiavi, le insurrezioni del vespro e del pane, i moti di Messina non potevano bastare a dissetare le terre aride, bruciate nelle barbarie e bagnate col sangue. Dunque, un triste sogno di riscatto si faceva strada nell’ammirazione per i paladini di Francia e nel desiderio di essere come loro. La Sicilia si esaltava nel fremito della durlindana che vibrava, contro la maglia dell’armatura, sulla coscia di Orlando; si agitava nell’amicizia, fratellanza, fedeltà pura e sacra, tradite per sempre durante una morte tremante di Oliviero; sussultava nel ribelle Rinaldo che aveva vinto la battaglia interiore contro il tiranno, conquistando a piene mani una libertà, che solo il potente con la spada poteva stringere al petto.
E il sorriso furbo si accendeva sul viso di Agata ogni volta che le palme delle sue mani diventavano bianche sotto la pressione energica sui ferri di quest’ultimo, del leone, mentre la voce le cambiava nella gola, facendosi grossa e il pupo si agitava per sconfiggere il serpente sputafuoco, mentre i muscoli le si contraevano, mentre il petto si allargava nel muovere un paladino al massimo delle potenzialità, perché il serpente era il male e Rinaldo colui che lo avrebbe annientato.
I cantastorie, portando i romanzi francesi lungo l’Italia tradotti e spesso alterati, hanno lasciato sulla nostra terra un segno indelebile che si è tramandato di generazione in generazione fino ai giorni delle marionette, quando un certo Don Gaetano Greco scese da Napoli a portare lo spettacolo e tramutarlo in “opera”, nata proprio per lo scontro in combattimento fra “bamboli”, costruiti resistenti e perfetti proprio per questo, giuntura per giuntura.
E Agata ne era l’ereditiera, Agata che perdeva la personalità, quando recitava, e di ferro in ferro si trasferiva da una marionetta a un’altra, trasfigurando l’espressione del viso, il suono della voce, il modo di muoversi e di muovere i personaggi. Ora infatti cambiava, diventando cattiva quando interpretava Marsilio, impaziente e feroce alle prese con Orlando, o intrepida se era Clorinda. E in quel momento non era semplicemente donna, ma reggeva il peso di un’antica tradizione e di ciò che essa rappresentava: il silenzioso covare, il rabbioso soffocare sotto le violenze, lo strisciante sopravvivere, tutto ciò che aveva dato vita a un unico asilo tanto odiato quanto amato, l’unico nido chiamato con una parola che sembra brutta a voi estranei, ma è così confortante e familiare per noi! Il riscatto è la mafia, la risposta a millenni di repressione, la protezione, l’Alternativa che governa nell’ombra. Agata ne era assolutamente inconsapevole, ma in lei c’era anche questo: un mondo favorito dal dolore e dalla fame, l’unico sistema che può garantire il minimo per sopravvivere, lì dove il governo è solo vessazioni.
La mafia è come una vipera, striscia e strisciando si insinua dappertutto. Un suo germe c’era anche lì, in quel conte Rinaldo, potente, che diceva no a Carlo Magno e che poteva permetterselo proprio perché era potente. Un Rinaldo guerriero e assassino, spavaldo e dignitoso, che poi in realtà era comandato da fili e ferri proprio come un masculiddu dal padrino. E il filo ne impediva la fuga, collare al collo di un affunato, tenendo la mano sinistra che poi è anche quella del tradimento; i ferri erano l’imposizione rigida che non ammette elasticità, né esitazioni all’obbedienza.
Ma Agata, non potendo saperlo, continuava a promuoverne gli ideali e, poiché non si può rappresentare un’opera da soli, mi insegnava le medesime arti: come creare il rumore del passo con la tipica scarpa di legno, come imitare il tuono, agitando una lamiera di metallo, e il lampo accendendo e spegnendo luci artificiali, come far combattere le marionette a colpi di spada contro gli scudi, come far credere che le spade staccassero le teste di legno dal corpo o che i corpi venissero tagliati in due, mi insegnò a reggere il peso senza stancarmi, a sollevare e riabbassare con la spada la visiera dell’elmo, a far uscire il sangue dagli occhi di Orlando, quando per il soffiare troppo impetuoso nell’Olifante gli si spezzano le arterie della testa, a modulare la voce e ricordare ogni battuta, finché non pensammo, addirittura, di osare… di organizzare un primo spettacolo con i nostri compagni di scuola all’insaputa dei suoi familiari, per… diciamo… mettermi alla prova…»

[...continua nel prossimo numero]

Marcella Argento