Letture del direttore
ENZO MELLIA
Immaginiamo le Mille e una notte versate in canto lirico minimalista. Un minimalismo che abbia digerito la lezione degli Hemingway e dei Cheever, che abbia superato l’incisiva laconicità d’un Raymond Carver e di Ann Beattle, anticipato il Davide Leavitt (classe 1962) e il californiano Brett Easton Ellis (classe 1967). Trasferiamo l’ipotesi in un caso letterario attuale di assoluta originalità, a prova di uno stile personale, riconoscibile ad apertura di pagina, e in contenuti di abbaglianti aure mediterranee: avremo una prima approssimazione alle duecento liriche di Frattanto il mare, opera letteraria dell’esordiente Enzo Mellia; il quale non lesina una significativa didascalia al titolo, aggiungendo: “Racconti brevi… forse”. Ora il punto da cui ripartire, una volta percorsa per intero questa affabile odissea melliana, potrebbe essere proprio uno specioso appulcrare sul dubbio che insinua il sottotitolo “Racconti brevi… forse”, come a volere, o dovere, distinguere il racconto, l’invenzione narrativa dalla poesia; distinzione improbabile da stabilire quando la resa letteraria ha vestito di tensioni e ritmi i momenti di una coinvolgente creatività artistica. Poesia infatti è creatività, e ben venga sotto l’auspicio del racconto breve. Specialmente se la brevità va a cavalluccio della sintesi espressiva, che colloca le parole come tessere di un mosaico, seguendo un disegno essenziale, tessere che una volta accostate non potranno più essere espunte né sostituite. Lemmi, quelli di Mellia, collocati con magica efficacia artistica, con una dimostrazione di essenzialità che s’apparenta alla reticenza, cioè a uno dei pilastri angolari di ogni poesia: “Dietro i vetri / lo guardi / è bianco / contrasto di volta dorata / zampillano canti.” O altrove: “Lo rincorse / falcando la sabbia / l’acqua / riempì / le sue orme.” O ancora per una spontanea rinuncia: “Si voltò / lasciò alle spalle / per desiderio di lei / la nave e il mare.”
Insomma, in Enzo Mellia la parola è definitiva e s’appropria del proprio diritto alla polisemia, dimostrando di non essere solo piuma ma velocità di volo, in omaggio alla intuizione di Paul Valery: “Bisogna essere leggeri come il volatile e non come la piuma”. È un volo infatti la scrittura di Enzo Mellia, agile, armoniosa, affabile nella resa di sentimenti e gioiose combinazioni di vigilie, casualità e memoria come per un ricomporsi e ricrearsi di colori nel caleidoscopio dei momenti di ogni vita umana, sempre a sorpresa, per lasciare al canto lirico la libertà di rianimare incontri, riviverli e farli rivivere. Si deve infine aggiungere agli spunti dell’originalità melliana quelli della assenza di ansie e malinconie. In “Frattanto il mare” vibrano vivacità che attingono alle sorgenti imprescindibili dell’amore, e con spontanea dolcezza. Una odissea di sentimenti che celebrano gioia di vivere modulando su registri ogni volta nuovi, capaci di ammaliare con la disinibita umiltà di chi non ha bisogno di imbellettarsi per mostrare attraverso lo specchio fedele della scrittura delicatezza e ricchezza della propria anima.
Viene dopo (o prima?) la modulazione espressiva propria di questo avvocato-poeta. Un elemento fondamentale in letteratura come “mestiere” – significante, quest’ultimo, che nel caso più caro alle “scritture” viene adoperato con accezione diversa dal riferimento a qualche lavoro professionale, e si è capito – laddove, appunto, il carmina non dant panem, come benedizione-maledizione d’un decreto d’altrove, mai ha smarrito la propria beffarda attualità. Mestiere per un “non mestiere” insomma, quasi metafora a carico del tempo che in questo caso è perduto per essere ritrovato. Detto, pure questo, in omaggio al Proust di quella Recherche nella quale potremmo non peritarci di trovare “filosofie liriche” come nei percorsi ludico-sentimentali di Enzo Mellia. E poiché non siamo
tentati da impertinenze ci limiteremo all’onus probandi incumbit ei qui dicit del giure latino, caro al Mellia maestro di giurisprudenze da scaffale alto, e torniamo a quanto ci si chiedeva su “stile e contenuti”, anche perché prima ne abbiamo affermato riconoscibilità ad apertura di pagina. Ebbene, Mellia scrivendo non segna ma incide. C’è una collocazione definitiva del significante non solo come coerenza verso l’essenziale (abbandoniamo per un momento le dissertazioni orientative sui nuovi minimalisti, qui citati all’inizio) ma come scelta della parola appropriata. Ci aiuta ad apprezzare ciò la colonna sonoro-semantica (ci si consenta un banale tentativo di figuralità) che accompagna le scansioni liriche, fino al mantenimento dell’aura annunciata dal titolo “Frattanto il mare”. Il mare che, per Mellia, ora si contiene e ora smargina, tra elemento e simbolo, con il fascino di un respiro umano, come carezza infinita, ma anche come affanno, come ansia d’amore che si rinnova come la risacca sull’arenile, un mare che comincia con il lambire le dita della madre quando trattengono quelle del figlioletto: “tutti i cortili dei giardini d’infanzia / coi bianchi grembiuli / che corrono da una parte all’altra / rivedo le mie dita / custodite da quelle di mia madre / corro sul molo del mio mare / cercando nell’affanno della vita / ancora una volta / le tue dita ” (…). Il francese (lingua des anges) del Proust citato prima, ci suggerisce l’omofonia tra madre e mare (la mer / la mère. Sostantivi in francese entrambi femminili); la mer che in Mellia ha il profumo struggente della madeleine e ci fa pensare al poeta de …la lavande pour moi c’est comme la madeleine de Proust, ça me rappelle ma mère. Ed ecco la letteratura che va in analisi e s’appiglia a uno dei capitoli più affascinanti della ricerca, quello esitato dal Sandor Ferenczi di Thalassa, dove il mare trova la sua più esaltante celebrazione poetica, sotto forma di indagine psicanalitica. Una folata di coincidenti motivi che tra Proust e il Ferenczi del Thalassa (edito in francese da Payot), sembra voglia costringerci a tutto un discorso su la mer / la mère di questa silloge di Mellia, che a libro letto lascia, appunto, una madeleine di femminilità come omaggio alla donna e al mare in una simbiosi simbolicamente sorretta dall’elemento per eccellenza taletiano (archè ton panton). E allora ecco la parola farsi mare e il mare madre e insieme amore. Un amore “falciato dal sole” e dispensatore di dolci-crudeli esperienze se è pur vero che “un amore può durare anche un attimo” e che comunque vadano le cose resta sempre in navigazione come confermano i significanti che ne intercettano la presenza verso qualche approdo. “Racchiuso nei tuoi occhi / pur se lontano / è lì / il porto”. L’amore che è sirena ammaliatrice anche quando tace il canto: “per quanto ieri / la brezza tacesse / cantavano i tuoi occhi / lampi di silenzi e di canti”. O pozione magica, invero indefinita, perché indefinibile, pozione e basta: “Mai abbandonai le sue labbra / come se una pozione / una pozione d’amore / avesse fuso le mie alle sue”.
Dietro le quinte delle dolci brezze e della madeleine un po’ celato un po’ sfrontato vigila sornione il tempo oppressore: “(…) nei tuoi occhi / sino a rimanervi lì / per non incontrare i miei / malinconici e oppressi / dal tempo”; il tempo che si fa carta di riconoscimento per tutti “(…) un uomo segnato dal tempo / i capelli d’argento (…)”; il tempo che rende cieche le cose avendole private dalle loro anime: “(…) divina conchiglia / strappata dall’acqua / trascinata dai venti / cieca di luce e di tempo.” E capita tra i lacerti di questa ricerca che proprio il tempo si trovi catalogato in una folgorante occasione che farebbe invidiare i lirici greci: “(…) è il mare / alabastro del tempo / donna bruciata / dal sole / eterna corona / respiro di onde / linguaggio dei venti.” Orbene, qui il tempo è divenuto alabastro, elemento e momento del mare / mère, donna su cui il sole ha esercitato il prodigio della metamorfosi, dove le onde sono i polmoni del tempo e il loro incresparsi e accavallarsi è discorso, grido, parola, comunicazione del vento messaggero di passioni. Il tempo che ha il potere di fermare con un suo incantesimo persino la luce della bellezza: “Ha i colori della porpora / è la tua bocca / seta d’oriente / rara mercanzia / sospinta da ciò che non ha fine / luce incantata dal tempo / voce struggente del mare”. La presenza del mare è catalizzatrice in tutti i momenti della silloge – e lo abbiamo ripetuto – ma non abbiamo tuttavia dato cenni su motivi calderoniani come purezza del sogno e del sognatore che estende il proprio “controllo” oltre il manifestarsi del “raggiungibile”: “È sempre lì / sospesa tra cielo e mare / è la mia luna” elemento anch’esso di conforto, “altro versante” che dilata l’intuizione di San Giovanni della Croce ammodernandone il riferimento all’epoca dei viaggi interplanetari, pur senza richiamarne chiasso e stupori, ma contenendo tutto nella misura inespressa de “la vida es sueño” e non certamente come nella concezione sei-settecentesca del disinganno, ma proprio come risvolto romantico in limine con quella religiosità laica tanto cara all’anima mediterranea del Mellia “cavaliere antico” e greco antico: “Luna raccontami di lei stasera / chiedile dei templi dei greci”. Un Mellia poeta che ha scritto prendendo distanze astrali dalla sua eccellente professionalità quotidiana, forse massacrante, di penalista-principe. Una constatazione non del tutto marginale se ci provoca con forti stimoli ad aprire un secondo momento di confronti con Frattanto il mare…Beh, frattanto… sostiamo.
DARIO PASERO
“A sluso le paròle ‘n sël papé / scalabrun-a ‘d costa lenga / venida ‘d sò sfiam d’argal…” eppure non si può dire che manchino calore e fiammate in questa nuova opera lirica di Dario Pasero, pervasa da una forte tensione interiore del poeta e percorsa da momenti di allarmate tensioni, nelle quali il lettore si ritrova a sua volta rappresentato, rivendicato. E si vorrebbe saper dire quanta densità, levità e agilità caratterizza il verso di questo poeta, che filtra un suo diario affidandolo al magico vocabolario fornito dalla lingua delle madri e dei padri. E a questo proposito si dovrà pur aggiungere che il poeta è titolare di una responsabilità particolare proprio in ambito linguistico, nella sua qualità di direttore della rivista trimestrale La Sloira che continua con successo e incisività a mantenere vivo e presente l’interesse per la lingua e la letteratura piemontese di tutti i tempi.
Sullo stesso piano alto della caratura linguistica troviamo l’incisività dei contenuti in questo L’ombra stërma, diario ad alta voce di stati d’animo e sentimenti che sgomitano impetuosi e dolci a contrastare momenti di venid-amèr, perché il poeta non può rinnegare il fondo di ottimismo che lo accompagna in ogni momento, specialmente quando la ricerca della verità non si ferma a confrontarsi con gli aspetti confortevoli dei colori e dei profumi di genziane, eriche, germogli di edera, segni che occhieggiano a complementarità di un mondo che si conserva intatto e si offrono a far da protagonisti con pudica discrezione persino nei momenti di una pausa al mare che si rivela portatore di accattivanti effluvi floreali. Sarà la naturale brezza marina di una Ventimiglia complice . Ma potrebbe essere un momento di elemento primigenio, Urstoff, precisa Pasero, ricorrendo all’ausilio del lemma tedesco per dare efficacia definitoria a un concetto che potrebbe fungere da secondo denominatore al titolo di questa silloge di poesie che ci portano in un mondo caro alla memoria e alla ricerca di noi stessi. “Esiste il presente?” si chiede il poeta “La domanda che ogni mattina / l’uomo, / appena aperti gli occhi del cuore, / dovrebbe porsi. / Esiste il presente o è soltanto frammento, / una briciola messa a cavalluccio / del passato e del futuro?”
Ed è importante scoprire come la pensa il poeta, che non esita a parteciparcelo: “soltanto il passato si mantiene nella nostra mente / come una scintilla di ricchezza, / ora gioia ora dolore, ma nostra.”
E c’è un aleggiare di sentimenti d’amore che vibra dolcemente lungo tutto il canto dell’accattivante silloge, momenti accompagnati da struggenti richiami, ora festosi ora di lievi malinconie autunnali, quando “L’aria fredda della sera mi porta spontaneamente un profumo / che mi piace pensare essere anche il tuo, / un caldo e dolce profumo di mirto e di artemisia, / una brezza stordente afrore di estate morente e di notte di sogni teneri…/ i tuoi pensieri possano essere anche i miei.”
E i doveri, che giungono come riflessione, come Pensieri in un pomeriggio d’estate: “Leggi, Leggi, Leggi e rileggi, Lavora, e lavora ancora. Chiedi (o Pensa), E troverai”.
Un universo di ricordi e resoconti, un mondo interiore colmo di consapevolezze e di desideri, segni di una vita intensa che ama il sogno, la verità e la memoria e che non esita a confessare: “Ad una rondine o ad un corvo / voglio assomigliare. / per essere in grado di andare a vedere / i tetti o il cimitero del mio paese.” Un desiderio che il poeta, letterato e filologo Pasero, docente di lingua italiana, esprime con forte partecipazione affettiva, adoperando il presente indicativo e non il condizionale.
SELLERIO E IL KILT
Con la scomparsa di Enzo Sellerio un altro pezzo di Sicilia Novecento è calato nell’archivio della storia. Il fotografo, è stato detto e ricordato, il fondatore della casa editrice, cui resterà legato il suo cognome. Elvira, la moglie e animatrice dell’attività editoriale era, come tutti sanno, una Giorgianni. Ma forse nel momento del ricordo a caldo è l’attingere ai fatti più emergenti che vale, regola del coccodrillo come, nel caso di Sellerio, s’appropriano alla storia dell’operatore di cultura (fondatore di una Casa editrice che si è destinata subito a brillare di luce propria, sotto la guida di Leonardo Sciascia) e del genio creativo, unico in Enzo Sellerio, capace di dare immagini all’aura delle cose (il fotografo in bianco/nero). Viene rinviata a successivi momenti virtuali l’evocazione di aspetti ritenuti secondari della personalità. Momenti che apparentemente poco aggiungono alla caratura dei meriti principali. Eppure può trovarsi nei piccoli gesti estemporanei della quotidianità celato il tratto più profondo dell’indole umana. Ecco perché di Enzo Sellerio riteniamo bisognerà ricordare, anche, il gesto di esibire il bizzarro abbigliamento in gonna scozzese, con l’intento di non frequentare il costume d’una regione del Nord Europa, ma come segnale di una personale ribellione contro lo strapotere della donna. Il kilt indossato negli Anni Settanta da Enzo Sellerio non è stato scimmiottatura d’un aspetto d’altra civiltà ma spunto di richiamo e metafora. Sottile proposta rivelatrice, a suo modo, d’un mediterraneo baluginare di ironie in riserva, sigillate in cambusa. Una subliminale tentazione per il fotografo del bianco/nero verso mosaico di quadratini colorati assunto prima dei pasti o come nostalgia di cornamusa? Forse no. Era una contestazione contro i colori delle gonne senza cornamuse.