Un lungo preambolo e un’antologia
Occuparsi dello studio della poesia in lingua siciliana, per un principiante come me, seppur avvezzo alla lettura e all’analisi critica, costituisce una vera e propria caccia a oggetti nascosti e spesso irreperibili. Gli oggetti sono i libri di autori dei quali si sente echeggiare in rete solo un nome, un profilo bibliografico; poeti senza libri, relegati, questi, nel magazzino ammuffito degli oggetti d’arte o delle prime edizioni. Libri che, spesso, sono solo un titolo, una copertina senza pagine.
Eppure gli studi ci sono, esiste una storia della poesia siciliana, di movimenti, di mutamenti, di relazioni e di contrasti. Insostituibile appare, per esempio, il lavoro di Marco Scalabrino, riassunto nei due volumetti “Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini”; ma anche reperibile a monconi in rete – e si tratta della presenza critica più vistosa – mentre altre testimonianze sono, purtroppo, oggetto di ricerca mirata e di non sempre facile consultazione. Sembra quasi evocare un mito o una burla il progetto di Salvatore Camilleri di una storia della poesia siciliana in 30 volumi!
Ogni strumento di consultazione è, dunque, utile e prezioso, anche perché, leggendo qua e là, ci si accorge ben presto di come questa storia della poesia siciliana proceda a balzi e dirottamenti, semplificazioni rudimentali che passano da un poeta noto a un altro, lasciando nell’oscuro tutti i passaggi intermedi. Da Antonio Veneziano a Domenico Tempio e Giovanni Meli, da Alessio di Giovanni a Luigi Capuana, Nino Martoglio…
Da un elenco, seppur parzialissimo, emergono solo i nomi dei poeti più conosciuti – e per un motivo non solo dipendente dalla qualità della loro opera ma per un atteggiamento che spesso hanno assunto gli artisti siciliani, cioè la necessità di una “dipartita” dalla loro terra verso territori più remunerativi dal punto di vista della fama; fenomeno, del resto, ancora attualissimo presso la giovane poesia siciliana, più sfacciata, più fotografata, ma che, forse, in un non lontanissimo futuro, potrebbe soffrire della stessa necessità di abitare un onesto organigramma di presenze, di conoscenze, se non vuole essere condannata all’oblio.
La diaspora è evidente quando si consultino le antologie, specchio di inevitabili discrepanze critiche o della poca volontà di conservare, laddove emergano valori artistici e umani.
Studiare la poesia siciliana è dunque un lavoro di scavo quasi archeologico di “reperti” sparpagliati o venduti al mercato nero. Di frammenti di presenze.
Eppure, leggendo e consultando qua e là, alcuni elementi portanti sono facilmente isolabili: per esempio il passaggio, avvenuto nel primo novecento, in concomitanza col verismo dei grandi prosatori, da una poesia ancora legata agli stilemi tradizionali, a una poesia incline all’osservazione più meditata della realtà, (Alessio di Giovanni); il persistere, malgrado tutto, di un “tono” popolare, imprescindibile dalla realtà e di conseguenza una “descrizione” delle ingiustizie e una vicinanza al fruitore, (Ignazio Buttitta).
Terzo elemento è una tendenza a un espressionismo popolare derivante dalla pratica dei dialetti di nicchia, degli ambienti di lavoro e dei sostrati culturali, (massima espressione di questa tendenza si ha in Santo Calì e significativa appare, in questo senso, la presa di posizione di Calì contro la lingua di Sciascia e Buttitta, apostrofandola come “borghese”).
A proposito delle antologie colpisce innanzitutto la quantità di voci “perdute”, destinate all’oblio, fenomeno, certo, non riconducibile specificatamente all’argomento in questione – la poesia in Sicilia – ma spesso a fattori biografici – isolamento o scarsa volontà di apparire –; ma anche mancanza di un supporto critico irrobustito negli anni.
Se si sfoglia l’antologia di Salvatore Camilleri, uno dei massimi studiosi della poesia siciliana e poeta esso stesso, “Poeti siciliani contemporanei”, Edizioni Arte e folklore di Sicilia, Catania, un testo del 1979, l’esercizio può consistere nel tenere traccia delle voci più conosciute e verificarne la reperibilità e la tenuta espressiva nel corso degli anni. Del lungo elenco dei poeti antologizzati, spesso all’opera prima o rappresentati solo da inediti, si riconoscono: Ignazio Buttitta, Salvatore Camilleri, Nino Pino, Enzo D’Agata, nomi che non ricorrono sempre in altre antologie – si veda il caso eclatante di Ignazio Buttita, più escluso che inserito, malgrado la fama e il valore – .
Questi testi avvalorano l’immagine di una poesia popolare, immediatamente fruibile, senza sotterfugi o malizie stilistiche, in cui, oltre al verso libero, si pratica con maestria l’ottava, la terzina, il sonetto. Permane, cioè, almeno formalmente, un forte legame con la tradizione settecentesca di una lingua “pulita”, edulcorata dai regionalismi, dalle parlate locali.
Il fenomeno dei “neodialettali” è un aspetto successivo della questione, da indagare, a mio avviso, con strumenti critici diversi.
Pregevole, mi sembra, per rigore critico e per desiderio di far emergere il sommerso, almeno come esempio, vista la portata della questione, l’antologia di Gisella Pizzuto, ORO ANTICO, Parole d’Amore Parole d’Onore, Antologia della poesia nei dialetti di Sicilia dal 1839 al 1997, Prova d’Autore 1997.
Certo, il quadro temporale preso in esame è assai ampio e dunque il lavoro della Pizzuto andrebbe inteso come “esempio”, in sintesi, di un lavoro ben più vasto. Ne produce essa stessa un esempio nell’introduzione al libro, facendo emergere nomi e tendenze, sotto “Il segno della madre”.
L’aspetto più eclatante che la Pizzuto analizza nella sua introduzione, è la condanna dei dialetti esercitata dalla politica culturale del fascismo, soprattutto attraverso la scuola, con la conseguenza, nel corso degli anni post bellici, di un imbastardimento delle parlate, fino alla necessità, registrata negli ultimi decenni del novecento, di una riappropriazione “neodialettale” da parte dei poeti, con immissione di espressionismi e una forte tendenza all’ideoletto: “la resistenza e controffensiva della poesia in dialetto può e deve essere interpretata anche, globalmente, come atto di rifiuto e opposizione magari in articulo mortis, alla sempre più spietata rapidità del processo di accentramento livellatore che sta completando la distruzione…”, (Pier Vincenzo Mengaldo, cit, p. 11).
Il quadro variegato del lavoro di Gisella Pizzuto, autorizza l’idea di una poesia inquadrabile in contesti culturali che, se da una parte tendono a conservare, a preservare, dall’altra si “smuovono” verso l’altro, verso fenomeni di più ampia portata europea.
Si veda il caso di Luigi Capuana, teorizzatore in Italia del verismo, in stretto rapporto col realismo francese che, eppure, riserva la sua produzione poetica a una descrizione della realtà in tono “minore”, nel senso di una tendenza al bozzettismo della realtà locale – .
Stessa analisi è applicabile all’opera poetica di Nino Martoglio, la cui lingua è ricca di gergo locale, “di pause, di forme sincopate e proprio in virtù di ciò acquista una capacità descrittiva, resa dagli stessi personaggi, attori-autore”, in sintonia, quindi, con la sua opera considerata maggiore, il teatro dialettale che, seppur ammirato da Pirandello, rimane ancorato al territorio, senza “universalizzarsi”.
Caso a parte, e interessante anche da un punto di vista antropologico, è l’opera di Carmelo La Giglia in quanto la sua poesia “è un importante esempio di gallo-italico, il particolare dialetto localizzato in alcune zone della Sicilia, che presenta caratteri tipici degli idiomi dell’Italia settentrionale”.
Nel caso di Alessio Di Giovanni, uno degli scrittori più importanti, stupisce, certo, come la sua opera non sia riuscita a raggiungere la stessa notorietà dei più grandi. Il motivo è analizzato dalla Pizzuto in questi termini; “Realismo, linguistico e tematico, autenticità e verità anche in poesia; questo perseguì Di Giovanni in linea con i mutamenti politici, sociali e culturali che avevano già prodotto la stagione verista. Un realismo, però, che, nel momento in cui accoglieva entro di sé elementi di peso non lieve di spiritualismo e misticismo, si avviava al tramonto. (…) L’iniziale scelta del fonografismo fu superata ben presto alla ricerca di una koiné letteraria regionale, una lingua comune che non fosse semplicemente catanese né agrigentina né palermitana”.
Il lavoro della Pizzuto contribuisce a smitizzare l’idea di un Vann’Ant’ò poeta squisitamente futurista, riportando la verità di uno scrittore che, dopo la maturazione avvenuta a causa della sua partecipazione come volontario alla prima guerra mondiale, recupera una poesia “umanizzata”; “Nella raccolta di liriche Voluntas tua, (…)oggetto della rappresentazione lirica sono: la campagna, la miniera, la trincea, tre ambienti in cui le condizioni di vita sono estremamente dure”.
Sempre nell’alveo di una poesia impegnata socialmente, con le necessarie differenze di tono e di stile, sono da inquadrare le opere di Ignazio Buttitta, Vincenzo Licata, Santo Calì…
Il caso dei fratelli Giangrasso, Antonino, Vito, Mauro, Aurelio, mi sembra indicativo di quella tendenza a un espressionismo legato alle parlate locali, a una lingua “stretta”, se si pensa che il territorio di provenienza dei Giangrasso è l’isola di Favignana. Poesie, queste, che mi hanno molto colpito, non solo per la rilevanza espressiva della lingua, ma per la descrizione di un’isola che assume tutti i connotati di un’Itaca sempre desiderata e sempre perduta. Eppure, sembra, non esiste alcuno studio critico in merito a questa poesia “di famiglia”, se non l’introduzione stessa che Aurelio Giangrasso scrive per il volume antologico “Acqua ri puzzu”, testo miracolosamente consultabile in rete nella sua interezza ma, purtroppo, non scaricabile per una, seppur rudimentale, stampa cartacea.
Altro esempio di parlata “locale”, persino specialistica, è quella di Maria Costa, la cui poesia è legata a un “vocabolario marinaresco (…) uno spontaneo repertorio lessicografico di attrezzi propri dei pescatori, nomi di pesci e molluschi, tutto rigorosamente appartenente al mondo dello Stretto”.
Il poeta maggiore che incarna questa tendenza è sicuramente, come si diceva, Santo Calì, la cui opera, almeno quella poetica, meriterebbe uno studio a parte – da sottolineare come molti di questi poeti siano stati contemporaneamente anche studiosi di cultura locale – Il nome di Santo Calì salta fuori, quasi a sorpresa, in un libro di Guido Davide Bonino, “Novecento italiano. I libri per comporre una biblioteca di base”, pubblicato qualche anno addietro da Einaudi, ma non è citato in “Letteratura delle regioni d’Italia, Storia e testi. La Sicilia: un profilo della letteratura dell’isola”, di Ferdinando Imbornome, pubblicato da Editrice La Scuola nel 1987, testo, che, eppure, giunge fino all’opera di Vincenzo Bonaviri e Gesualdo Bufalino.
La poesia dei fratelli Giangrasso, inoltre, testimonia di un altro aspetto importante di molta di questa poesia, e cioè l’incredibile maestria tecnica di poeti illetterati, spesso analfabeti, custodi, dunque, di una pratica che rimonta a millenni e che, dopo i cantastorie degli anni sessanta e settanta, si è irrimediabilmente conclusa; il più celebre poeta illetterato, come sanno i siciliani, è considerato Petru Fudduni, vissuto a cavallo tra ‘500 e ‘600 ma la tradizione di una poesia improvvisata sulla piazza, più parlata che scritta e ben studiata dal Pitré (il suo inestimabile studio sulla poesia popolare si può scaricare liberamente in rete), è documentata, almeno in parte, anche dall’antologia di Camilleri, mentre un esempio, nel lavoro della Pizzuto, è costituito dall’opera di Giuseppe Bonafede.
Altri poeti antologizzati da Gisella Pizzuto, testimoniano una sorta di “svarianza” letteraria rispetto alla tradizione e all’innovazione. Per esempio il pessimismo leopardiano dell’opera di Francesco Guglielmino, l’intimismo di Carmelo Assenza, l’inquetudine di Marisa Liseo, ma anche l’eclettismo di un poeta e studioso come Mario Grasso, alla cui opera Massimiliano Magnano ha recentemente dedicato un importante saggio: “d’Intrattabile temperamento, Mario Grasso, paradossi e parossismi d’un intellettuale fuori dalla grazia degli uomini”, Salvatore Sciascia 2019.
Per concludere queste brevi note: a chiunque vorrà avvicinarsi alla poesia dell’isola, non ne potrà sicuramente sfuggire la grande ricchezza e la millenaria stratificazione. Credo che, nella ricerca e nell’indagine dei “minori”, debba scaturire il desiderio di voler uscire dal seminato delle esperienze maggiori, convinto, come sono, che ogni espressione artistica è permeata e permeante; in uno stesso ambiente culturale, i “molti” contribuiscono a creare l’opera comune, un lavoro in cui grandi e piccoli vivono di luce riflessa.
Sebastiano Aglieco