La caccia spirituale
di Massimo Morasso (Jaca Book)
“Il senso per la poesia ha molto in comune col senso per il misticismo. È il senso dell’originale, del personale, dell’ignoto, dell’arcano, di ciò che deve essere rivelato, del fortuito-necessario. Rappresenta l’irrappresentabile. Vede l’invisibile, sente il non sensibile, ecc. […] Il poeta è veramente privato dei sensi; in compenso, in lui si trova tutto. Egli rappresenta nel senso più vero il soggetto-oggetto – animo e mondo. Di qui l’infinità di una buona poesia, l’eternità. Il senso della poesia è molto affine con quello della profezia e in genere col senso religioso, col senso del vate. Il poeta ordina, unisce, sceglie, inventa – e lui stesso non riesce a comprendere perché proprio così e non altrimenti”. Questo è quanto scriveva Novalis in uno dei suoi Frammenti (edizioni Bur, traduzione di Ervino Pocar), e ci sembra il modo più adatto per accogliere la nuova opera poetica firmata da Massimo Morasso, La caccia spirituale, per la pregiata collana I poeti a cura di Roberto Mussapi, edizioni Jaca Book. Nelle corpose note a fine libro, l’autore genovese, da raffinato critico oltre che poeta, ci introduce con grande chiarezza in quello che è l’ultimo atto di una trilogia (a sua volta tripartita) intitolata Il portavoce, “costata” dodici anni di lavoro. Protagonista è la città di Genova, città presente anche nei precedenti lavori ma più in assenza, come indica lo stesso, qui invece luogo teatro del poema, diviso in tre sezioni-momenti (alba, meriggio, notte), secondo tre tentativi di sguardi-visioni religiose: l’induismo in “Genesi”, prima sezione, il cristianesimo, nella seconda sezione intitolata “Espiazione” (oltre che un po’ dappertutto), l’islam, nell’ultima sezione, “Le oscurità”. Questo tentativo, perfettamente riuscito (almeno da un punto di vista poetico), di raccogliere le eredità religiose delle grandi tradizioni potrebbe essere sintetizzato da una definizione che Morasso scrive tra le sue note: “C’è un tipo di fedeltà a se stessi che chiede una dedizione massima, una concentrazione e un’intensificazione della coscienza che sfocia nella dignità della resa. Che lo si ammetta o no, ognuno di noi è un popolo, e ogni popolo porta con sé il peso e la responsabilità di una storia”. E il poeta Morasso riesce con assoluta naturalezza a regalarci la bellezza estatica delle cose minime, a farci vivere il “respiro anfibio, marino e verticale” della sua città, “Vicoli dopo vicoli e vicoli nei vicoli”, facendosi “portavoce” di un carico terrestre di angosce, preghiere, invocazioni e interrogazioni: “[…] con quale irriducibile sintassi / posso parlare delle cose, / le più semplici, dei segni di qualcosa / che ci chiama ed è insondabile / come lo spazio tra il mio corpo e la tua assenza, / dire l’interno di una rosa già appassita / ma che persiste nel tremore della mente / come un urlo / in cui si scuote tutta la realtà / appesa a un filo di parole?” (pag.10). Di un’epica che coglie il frutto dell’alba, “piena di cure per la terra”, il poema “Genesi”, si nutre; da luce e parola, luce che a volte lascia abbagliati, parola che rende muti, in un’arrendevole impotenza, i lettori vengono travolti. Un flusso ispirato e vorticoso, una partecipazione che si dona in maniera assoluta: “cosa si deve fare dell’amore / se non abbiamo neanche la pietà / di chiederci l’un l’altro / la nostra breve storia / non dico i dettagli ma proprio il cuore / semplice della vicenda comune / cosa sono io / cosa sei tu / in questa bolla d’aria / la gravità ci abbatte e in fondo è inutile / non ci conosciamo per davvero / viviamo in mezzo ai segni, sotto traccia, / spie dei rovesci dei cieli / e dell’aria insondabile / legati a quanto in noi tesse il destino / con le sue mute angosce e come un grido / la lunga sequela dei nostri cari / caduti, falciati a mazzi come primule / per la dolente, l’inarrestabile / vicissitudine dei giorni” (pag.22). Si tratta di doversi arrendere al creato, del difficile compito di spogliarsi del sé: “perciò mi inchino all’Impossibile e ripeto / a monito o memoria di me stesso / accogli in te la legge in cui sei accolto, / perditi, adesso, in ciò che ti circonda / sappi del vuoto e cresci insieme al suo reciproco / simile alla rugiada che svapora / nella mite misura delle foglie” (pag.26). Nella seconda sezione l’autore indossa le vesti ascetiche di Caterina Fieschi Adorno, mistica genovese vissuta tra il XV e il XVI secolo, comparando già nell’esergo della santa «Mi par essere in questo mondo come quelli che son fuori di casa loro…», lo stato di orfananza, di apolide, del mistico, a quello del poeta, dell’uomo in costante ricerca conoscitiva e capace di rimettersi in discussione: “A quarant’anni ho capito che stavo sbagliando, / che il mio furore nascondeva un desiderio illimitato, / ibrido, non controllabile, / che il mio intelletto forte e la paura di astrazioni / non comportavano patente d’elezione o moratoria morale / ma davano al contrario responsabilità, svantaggi, / dolenti contrappesi / alla rapace voluttà di mondo / che mi pervadeva” (pag.30). Il senso dominante di insipienza, egotismo, vanità, viene descritto con grande compassione punteggiata da ironia nei versi a pagina 38: “Fra le colonne nell’atrio del Ducale / ci sono intellettuali e opinionisti, sembrano mosche / che ambiscano a attecchire sulla carta, / somigliano alle teste calve di cui scrisse Yeats / con sulle spalle il peso di una morta / civiltà, scrivono on-line, brillano / per acutezza di cervello fra i sodali, ammaliano / grazie all’esibizione dell’intelligenza / orde di ragazzotti che dicendosi creativi / a loro volta vanno verso il nulla / a fare scialo di un’apologia di sé”. Siamo in “un tempo propizio alla fine”, un mondo “staccato, ormai, da tutti i cieli”, dove le parole di un uomo morto d’overdose sono forse le più pietose, le più nostalgiche di un’altra vita possibile: “perché io ho sempre sperato di poter volare / oltre i confini della mia memoria / tossico eterno per pietà e disgusto / non già di me, ma dell’attaccamento a tutto il vostro / stupido mondo assurdo senza fine…”. Ressa di “fantasmi di fantasmi, ossa che tacciono”, lungo il “corpo della notte”, La caccia spirituale è un poema pervaso da un’indicibile luce, dal “prillare” di immagini, nel bagliore custode della Lanterna di Genova, la Superba città omphalos, con l’animo e la penna del poeta letteralmente in stato di grazia, attraversati da “una febbre di poesia”, / una festa d’anarchi”, in perfetta armonia dentro un registro poetico degno della migliore tradizione europea (John Donne), tra pensiero poetante, elementi filosofici, teologici, sapienziali e un’osservazione lieve, spoglia e sofferta, aperta all’idea “che oltre ogni respiro / perfino nella morte non si spegne / la forza e la bellezza del vivente”.