CULTŪS DĒSERTA, 2
Di silenzio e di vuoto, quali caratteristiche peculiari del Sud, ha parlato Anna Maria Ortese. Ciò è avvenuto, in modo specifico, ne Il mare non bagna Napoli, reportage letterario pubblicato nel 1953, in alcune prose di viaggio scritte tra la Sicilia e la Puglia e, come quelle poi raccolte nel Mare, scritte nei primi anni Cinquanta e in alcuni racconti successivi[1. Tra gli scritti di viaggio, segnalo, ad esempio, Respiro dell’Adriatico, Terra dimenticata, Luci di Sicilia, Lettera dalla Sicilia, Due Sicilie, Arde sotto la neve il fuoco dell’Etna e Afrodite in Sicilia, tutti pubblicati nel 1951, in prevalenza sul «Corriere di Napoli», e in parte riproposti in A.M. Ortese, La lente scura. Scritti di viaggio, a cura di L. Clerici, Milano, Marcos y Marcos, 1991 (ora anche Milano, Adelphi, 2004).]. È come se il silenzio che la Ortese percepiva in quel Mezzogiorno fosse la più evidente conseguenza del vuoto interiore sofferto dal suo popolo. È ciò che la scrittrice nota, ad esempio, a Vieste, in Puglia, dove «sembrava che [gli abitanti] avessero perduta la facoltà di pensare, da centinaia di anni, che non aspettassero più nessuno e niente»[2. Id., Respiro dell’Adriatico, in «Corriere di Napoli», 31 ottobre-1° novembre 1951, p. 3; il testo è adesso reperibile in L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Milano, Mondadori, 2002, pp. 203-204.]. In questa dichiarazione permane la sensazione di essere in presenza di una cultura che ha perso il suo nucleo significante (forse perché mai ne ha posseduto uno) o che, comunque, esso fosse ormai incomprensibile perché sommerso dalla verità del mondo. Qui – al Sud e poi, più in generale, per tutti gli uomini –, la verità è un’entità affabulante e contraddittoria che partecipa della deformità quotidiana ed esaurisce la realtà in tutte le possibilità del suo essere. Che tale fondamento significante ci sia o no, sembra pensare la Ortese, in tutto ciò che vivo resta qualcosa che non capirò mai. È su questo nulla, peraltro, che si fonda la sua particolare visione del mondo, intesa più come percezione dell’intollerabile e molto meno come vera misura delle cose. Avviene, così, che all’oggetto osservato si sommi immancabilmente la personale nevrosi di chi osserva e i due aspetti si leghino secondo un principio irreperibile, eppure vero. In base a ciò può anche succedere che quel nocciolo sia duro, resistente, fatto di pietra, come, all’interno del Mare, nella Città involontaria («tutto era fermo, come se la vita si fosse pietrificata»)[3. A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli (1953), Adelphi, Milano 2004, (1a ed. 1994), p. 86.] oppure in un bellissimo racconto pubblicato nel 1955 («per quanto guardassimo intorno, non esisteva che pietra»)[4. Id., Gli scialli neri di Montelepre, in «L’Europeo», a. XI, n. 10, 6 marzo 1955, p. 10.]; sembra però sempre scaturire dallo stesso vuoto, come l’autrice spiega bene in un’intervista del 1994:
Questo nulla, o tutto, dell’universo, questa estraneità terribile dell’universo che nella tradizione occidentale non è niente, o quasi, mentre per me è tutto. […] Noi crediamo continuamente di essere seduti su qualche cosa: ma non siamo seduti su niente. […] Sentire questo indicibile forse mi rendeva cattiva anche nel Mare non bagna Napoli; forse perché venivo dal tempo della guerra, in cui avevo viaggiato per tutta Italia: in mezzo al fuoco, al ferro, al terrore. E quando sono tornata sentivo l’inconsistenza della vita umana, e vedere questa inconsistenza, tutto questo dolore meridionale, la gente ridotta a nulla, e l’euforia delle persone altolocate che si divertivano, era follia.[5. L. Clerici, Il dolore non bagna Napoli, in «l’Unità», 14 maggio 1994, p. 7. Il passaggio dell’intervista citato è riportato anche in Id., Apparizione e visione cit., p. 253.]
Eppure, dietro questo vuoto c’è un’acquisizione importante: proprio a Sud, con Il mare non bagna Napoli, la Ortese riesce a cogliere pienamente l’intollerabilità del reale, vale a dire ciò che lei stessa definisce come spaesamento nei confronti del grande centro meridionale e che finisce per riflettere quello, più complesso, nei confronti di «una lacera condizione universale»[6. La citazione è tratta da uno dei due scritti aggiunti al Mare non bagna Napoli soltanto nell’edizione del 1994: A.M. Ortese, Il «Mare» come spaesamento, in Id., Il mare non bagna Napoli cit., p. 10; l’altro scritto, posto a conclusione del volume, è Le giacchette grigie di monte di Dio (ivi, pp. 173-176).]. Per la scrittrice romana si tratta di una dimensione tanto stilisticamente precisa e definita, quanto ineffabile sul versante delle modalità di percezione che implica: a dire il vero, essa si intravede già nei primi racconti degli anni Trenta, ma diviene più consapevole nella produzione letteraria e giornalistica del dopoguerra.
La Ortese, in più occasioni, ripete come sia impossibile risalire da laggiù, da quel vuoto che, anche secondo Pasolini, l’Italia contadina e paleoindustriale ha lasciato nel momento in cui si è disfatta[7. Cfr. P.P. Pasolini, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in «Corriere della Sera», 10 giugno 1974, ora in Id., Scritti corsari, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 308.]. Si tratta di uno spazio immobile, oscuro e silenzioso, all’interno del quale non sopravvive nessuna possibilità di emozione, tranne una forma di paura talmente tenace da impedire «di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo»[8. A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli cit., p. 156.]. La scrittrice muove verso l’emozione servendosi – proprio come ammise di fare nel Mare[9. Cfr. D. Tuccillo, L’ultima sconfitta degli intellettuali tra splendori e cupe premonizioni, in «Roma», 18 dicembre 1992, p. 14.] – dell’effetto di esagerazione connesso all’impiego della fantasia e della letteratura: si tratta di una lente che, come quella che figura nel ben più tardo Cardillo addolorato, consente di cogliere la verità del mondo in tutte le sue contraddizioni e che rende all’irrealtà una posizione di preminenza nella definizione dell’uomo e del suo destino. Da un lato, dunque, la Ortese avverte le emozioni, i suoni e le luci della realtà; dall’altro, arriva al «senso di freddo e nulla»[10. A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli cit., p. 174.] che procede da quelle stesse cose, secondo una disposizione critica che non sarà mai mera esposizione alla vita. Quando si troverà in Sicilia all’inizio degli anni Cinquanta, risulterà evidente il modo in cui la scrittrice arrivi a cogliere lo spirito di quella terra «rimasta sospesa ai limiti di una eterna aurora»: proprio là, dove «Cristo non è neppure passato»[11. Ead., Ancora silenzio, e «ho parlato ancora con te, Afrodite», in «Corriere di Napoli», 28-29 dicembre 1951, p. 3 (col titolo Afrodite in Sicilia); ora, oltre che in Ead., La lente scura cit., pp. 302-304 (e, nell’edizione Adelphi, pp. 247-249), anche in Ead., Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte, a cura di M. Farnetti, Milano, Adelphi, 2011, pp. 43-46; traggo le citazioni dalle pp. 43 e 44.], in quel silenzio, corporeo e assoluto, che già avevano scorto la Saffo di Quasimodo e su quelle strade levigate, nell’aria molle di una terra che dialoga continuamente con le cose eterne, la Ortese sembra individuare il senso interiore e, dunque, umano della condizione meridionale.