Diversamente dalle altre grandi città del nord Africa, a Catania i bambini non molestano i turisti; nessuno si è ancora industriato a offrire agli stranieri servizi da Cicerone, inattendibili ma pur sempre a buon mercato.
Bisogna avere fiducia nei prossimi governi e diffidare dell’Europa; il bisogno e l’ingegno provvederanno al resto.
Oggi come oggi il turista se ne va in giro per il centro indisturbato, senza scugnizzi che ambiscano a monete: il turista è padrone di sfogliare in santa pace la sua brava Lonely Planet; libero di fare su e giù col naso da un pagina della guida ad una facciata del Vaccarini, da una facciata del Battaglia ad un’altra pagina della guida.
In piazza Duomo quest’esercizio lo si può compiere con massimo agio e metodo: Cattedrale, Palazzo del Comune e una miriade di altre perle architettoniche sono tutti lì a portata di tavolino; non resta che scegliere quello più giusto in prospettiva e ordinare da bere o da mangiare.
Al centro della piazza domina l’elefante africano, con le zanne in su e l’obelisco egizio sul groppone.
Ma il diavolo si nasconde nei dettagli: Don Ciccio Pètrina, profumato, elegante, dall’eloquio formidabile e cangiante, è lì in agguato che aspetta.
L’anno scorso, ad una comitiva di giapponesi, complice il traduttore di Google, Don Ciccio ha fatto credere che le campane della chiesa suonassero per le sassate del sagrestano: ecco spiegato perché ogni volta il din don è un po’ diverso!
Un asiatico diffidente ha provato ad obiettare, e Don Ciccio: “Sttt! …”, l’indice di Don Ciccio in verticale sul naso, l’altro indice rivolto verso il campanile, “…sttt! Ascoltate!”
Din Don, Din Don.
“Avete sentito? E’ il sagrestano!”
Le prede di oggi sono due coniugi lombardi; né vecchi né giovani; siedono al tavolino con la guida in mano; confabulano sugli ideogrammi dell’obelisco.
Dal tavolino vicino, Don Ciccio chiede: “Pavia?”
Il marito risponde: “Vigevano”.
E Don Ciccio: “Ah Vigevano”; mima il perimetro della nostra piazza Duomo; strabuzza gli occhi; agita le mani in segno di meraviglia; allude, si capisce, alla loro piazza Ducale, ne è ammirato.
Ora che ha rotto il ghiaccio, Don Ciccio si rivolge alla moglie, chiede: “Non c’è, vero?”.
La donna non capisce; anche il marito posa occhi smarriti su Don Ciccio.
“La traduzione, intendo; dei geroglifici, nella guida non c’è, vero?”.
“Eh sì; in effetti manca” conferma il marito.
Don Ciccio sposta una sedia; gira senza complimenti la copertina della guida. “E’ un’edizione non aggiornata, lo supponevo”.
Il seme è sparso; già germoglia: la moglie vorrebbe chiedere; il marito pure.
Don Ciccio è un gentiluomo e non lascerà la curiosità inappagata.
Resta inteso che però ci vorrà del tempo.
“Liborio, un altro caffè per me, e ancora latte di mandorla per i signori; metti tutto sul mio conto mi raccomando”.
Superata la diffidenza, ai due non resta che ascoltare la storia.
“Questi geroglifici sono un mistero; per anni, ma che dico anni, secoli! Per secoli illustri studiosi hanno supposto che essi non volessero dire nulla”.
Arriva caffè e latte di mandorla; Don Ciccio zucchera e gira, zucchera e gira; e nel mentre parla: “Nulla, capite? Nulla, come se si trattasse di semplici disegni. Probabilmente nella sua guida si dirà ancora così …”. Il cucchiaino di Don Ciccio ciondola verso il marito.
“Sì …” conferma il marito “… effettivamente qui si dice che i disegni non vogliono dire nulla”.
“Lo so, lo so; ma ascoltate il seguito …”.
Don Ciccio butta finalmente giù il caffè.
“Tutto è cambiato qualche anno fa, quando in Egitto hanno trovato una stele con gli stessi geroglifici …”.
I coniugi adesso pendono dalla labbra di Don Ciccio.
Lui parla con foga: evoca scavi in terre lontane; tira fuori nomi di località esotiche; cita illustri cattedratici; nomi di grandi musei. Parla: parla a lungo e parla bene. Ricorda un lungo elenco di codici miniati: le fonti, come le chiama lui con commozione di vero studioso; il tono di voce gli si fa più basso. Pure i coniugi ne sono toccati.
A questo punto Don Ciccio si alza in piedi; stima venuto il tempo di stringere; lascia sul tavolo qualche spicciolo di mancia.
I coniugi lo seguono con apprensione. Temono di avere contrariato quel Cicerone burbero e sensibile. Sperano di conoscere ugualmente il finale.
Ma Don Ciccio, lo abbiamo detto, è un gentiluomo.
“Insomma … finalmente, come dicevo, quest’anno il risultato della ricerca è stato pubblicato; ormai è certo che i geroglifici hanno un significato preciso ….”; le parole di Don Ciccio sono tutte sulle punte delle sue dita: prima le intreccia poi le allontana; mima l’obelisco per lungo; ne squadra i lati; conclude: “… è il significato è questo: quelli da un lato vogliono dire Chi se ne fotte … quelli dall’altro lato Me ne sto fottendo”.
Ciò detto Don Ciccio fa un inchino e se ne va.
I coniugi dapprincipio ridono ma non capiscono.
Poi cominciano a capire e non ridono più.
Ausilio Ignazio Lotti