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“Buon giorno, è il dottor Bosco?”

“Sono io chi parla.”

“Laura Di Guardo, sono la giornalista che deve intervistarla –  mi fermo un po’ imbarazzata, il tono della sua voce mi sembra ruvido e ostile quindi aggiungo – Non l’hanno avvertita?”

“Si certo ma mi aspettavo un giornalista uomo.” risponde.

Lo blocco immediatamente, ancora con questi pregiudizi. Gli dico acida: “Non fa differenza sa, le donne ormai andiamo anche a votare.” E mi blocco a mia volta, chissà cosa mi sarebbe uscito dalla bocca. Gli uomini così non li tollero.

“Comunque mi è stato dato l’incarico di intervistarla sempre che lei sia d’accordo; la chiamo per fissare un appuntamento.”

Lui non raccoglie: “Va bene ci possiamo vedere al bar Europa.”

“Facciamo domani alle diciotto.”  Propongo assertiva.

“Non è possibile per me, ho studio.” Dice, e io penso che è per stabilire, da subito, chi detiene il potere di decidere tra noi.

“Allora mercoledì stessa ora?” Suggerisco.

“No sono a Palermo per lavoro.”  Replica.

Che palle! Sembra proprio che non voglia farlo questo incontro, ma non demordo; il tizio è di una antipatia stratosferica ma io l’articolo lo devo scrivere, non posso perdere questa occasione.

“Mi dica lei, allora, dottore quando le è possibile incontrarci.”

“Facciamo sabato prossimo alle 19.”

E’ la sola possibilità che sembra offrirmi.  Cazzo sabato è il mio unico giorno libero, avevo un appuntamento con Maurizio: teatro, due spaghetti e il nostro solito settimanale dopocena di sesso chirurgico. Sono tentata di proporgli un’altra data ma il buon senso ha il sopravvento.

D’accordo ci vediamo sabato alle diciannove al bar Europa.” Mi calo il rospo e lo saluto con finta gentilezza.

Questo articolo è importante per me, un’occasione per dimostrare che so fare altro, che so scrivere non solo di diete, ricette di cucina ed esercizi per mantenere sodi i glutei. Sarà questa l’occasione per il grande salto. Presto compirò  cinquanta  anni ed ancora sono una freelance, per guadagnarmi da vivere ho dovuto nascondere i miei sogni sperando sempre in una occasione ed eccola l’occasione, è arrivata, un articolo a quattro colonne sul Corriere. Il tizio non mi scoraggerà, scriverò il mio articolo sulla sua triste  vita turandomi il naso  e lo scriverò bene, perché sono brava anche se non sono maschio. Ma come ha potuto dirmi mi aspettavo un giornalista uomo. Come si fa oggi ancora a parlare così. Rientro nella mia solita vita, mi siedo al computer e preparo il pezzo per il mio giornale: Cucina e salute: Pollo al curry  con riso Basmati alla  crema di zenzero. Non lo cucinerei per niente al mondo ma la gente vuole sempre nuove ricette esotiche, ha dimenticato   quanto era  gustoso il pollo al forno con le patate tempestate di rosmarino e cipolletta dolce. Poi quello che preparava mia madre la domenica, non arrivava mai in tavola intero perché io e mio fratello non potevamo resistere e saccheggiavamo le patate soprattutto quelle croccanti e bruciacchiate. Quanto si arrabbiava la mamma, ora capisco che era perché voleva fare bella figura con la sua pietanza dorata al punto giusto accoccolata nel piatto ovale del servizio di porcellana. Poi faceva le porzioni tagliando il pollo con un forbicione, il primo pezzo il più grande a papà, poi mio fratello quindi io ed infine lei e  pretendeva sempre che lo gustassimo mangiando lentamente e guai a chi lo toccava con le mani. Non so a volte se mi manca mia madre, il suo pollo al forno  o quegli anni meravigliosi dell’infanzia. E comunque i polli non sono più gli stessi di una volta; ammassati nelle gabbie come prigionieri senza alcun diritto, costretti a beccarsi tra di loro per conquistarsi un minimo spazio vitale trasformano in  tossine la loro sofferenza. Io, anche se lo consiglio nei miei articoli, non ne compro più da anni.  Continuo il mio lavoro: elenco gli ingredienti: naturalmente petto di pollo a tocchetti, yogurt greco, zenzero, coriandolo, cannella e cardamomo per profumare l’acqua dove sarà cotto il riso, curry e altre dieci spezie mai sentite, ma dove le troveranno le persone. Cipolla no, aglio neanche a parlarne e il rosmarino poi è proprio andato fuori moda. Passo quindi alla descrizione delle fasi di preparazione, scelgo da internet una bella foto e il lavoro è finito.

Chiamo Maurizio per disdire l’appuntamento, in realtà un po’ mi dispiace non quanto a lui ma è sempre una rinuncia perdere il nostro incontro intimo di sesso senza coinvolgimenti del cuore. È bravo Maurizio e ci sa proprio  fare, conosce il mio corpo meglio di me ed è capace di tirarmi fuori reazioni intense, sarà perché fa il medico.

“Pronto Mau sabato salta il nostro randez-vou, devo intervistare un tuo collega e chiaramente, per rompermi le balle, lui è libero solo sabato sera. Mi spiace.”

“Pazienza saltiamo Il giardino dei ciliegi  ma poi, quando termini, passa da casa mia ti preparo  due spaghetti e ci facciamo le coccole senza amore naturalmente, se no non sei contenta.”

“Non lo so, non vorrei rovinarti la serata, questo dottor Bosco, a proposito lo conosci, rischia di essere uno stronzo, antipatico da morire, per questo non ha niente da fare il sabato, chi lo vuole, forse neanche sua moglie.”

“Mai sentito, io comunque sto in pronto soccorso fino alle diciotto poi vado a casa e ti aspetto, se passerai mi farai piacere altrimenti guardo un film in tv e poi a nanna.”

“Ok ragazzo grazie, fammi gli in bocca al lupo perché questa intervista sarà pubblicata sul Corriere ed io non sto già nella pelle.”

“Ma fa il cuoco o il medico questo Bosco?”

“Ah ma allora mi vuoi proprio perdere! – piccata reagisco – Gianni Allegra, il direttore della redazione siciliana del  Corriere mi ha telefonato proponendomi di sostituire nientemeno che Callisto Leonardi, il mago della cronaca giudiziaria che purtroppo ha un brutto male. È uscita giorni fa una sentenza che riguarda questo dottor Bosco ed io dovrò intervistarlo. Allegra mi ha detto che sa quanto valgo, che questa può essere l’opportunità che aspetto da anni, che lui mi stima bla bla bla e io non so perché ha chiamato proprio me che non gliela ho data mai. Però ho accettato il lavoro e scriverò sulla fottutissima vicenda di questo tizio un articolo che, parrebbe sollecitato da qualcuno che sta in alto. Penso si tratti dello stesso avvocato che lo ha difeso e che ha studi a Milano, Londra e New York, quindi abbastanza potente per comprarsi una pagina del Corriere; immagino non in difesa del cliente ma per fare pubblicità al proprio studio legale visto che, come un vero principe del foro, la causa l’ha vinta lui. Quindi di sabato o anche fosse  natale io non mi arrendo, scriverò questo pezzo anche  a costo di aspettare il tizio sotto casa e di accompagnarlo al lavoro.”

“Dici con lo scattiolo che hai? Quello non  ci sale  sul tuo motorino mica è come me.”

“Non sarai geloso vero?” Lo provoco.

“Un po’ si, lo sai che sei importante per me e non da ora. Ma io aspetto, sono sicuro  che quando sarai vecchia vecchia e senza più chance, senza denti e con le tette flosce mi sposerai.”

“Dimenticalo  non lo farò mai, non sposerò nessuno. Come diceva mia nonna: l’amore è brodo di ceci e a me non potrà capitare mai più dopo quella volta che sai. Vabbé, dai ci provo a passare da te dopo l’intervista, magari un po’ di ginnastica ci farà bene. Ti abbraccio Mau e, anche se non lo credi, ti voglio bene ciao.”

“Ciao bella Laura, io comunque ti aspetto.”

Faccio una lunga doccia, mangiucchio un po’ di semi e frutta secca, leggo qualche appunto e, alle dieci, sono già a letto. La settimana scorre nelle solite routine, corro a destra e a manca col motorino per raccogliere notizie: un nuovo supermercato apre con una area dedicata agli alimenti biologici ed espone, nel reparto cibi freschi,  una moltitudine di verdure e frutti esotici, che io non ho mai visto. Prendo appunti,  hanno nomi terribili. Il direttore del supermercato me li illustra  uno per uno e vuole che io, nell’articolo, li descriva con grande precisione, la gente deve conoscerli per poterli acquistare.

“Qui abbiamo il pak choi, un cavolo prelibato che viene dalla Cina – sentenzia orgoglioso. Vorrei chiedergli del  chilometro  zero ma mi astengo – E qui ci sono  dei cherimoye veramente a buon mercato, arrivano dall’Argentina.” Continua e,  con un coltellino, apre questo piccolo pomo verde che mostra al suo interno una crema bianca punteggiata da minuscoli semi neri. Mi propone di assaggiarlo, io rifiuto non è che non mi fidi ma ho appena gustato  un bel tarocco della Piana e proprio non mi va altro. Nell’espositore  accanto c’è altra frutta: il kiwano  africano  che sembra un ficodindia giallo  ma i nostri, quelli delle sipale dell’Etna , quelli che chiamiamo bastardoni dove sono, non ne vedo in giro ma non pongo la  domanda, ascolto come una brava scolara la lezione di scienze naturali. Il direttore passa poi ai  karela con la forma di cetriolo, la  scorza è spinosa e ruvida e, aggiunge, sono  amari da morire una delle verdure più amare che esistono però è benefica e preziosa per regolarizzare gli zuccheri nel sangue.  E ancora l’ okra che ricorda tanto un carciofo e costa un occhio della testa a dispetto di quelli locali dei quali non c’è traccia, inutile cercarli. Ed infine, per strabiliarmi, il direttore mi mostra gongolando un’erba che sembra  un minuscolo asparago, si chiama okahijiki, il nome è tutto un programma, è una verdura antichissima coltivata in Giappone sembra un’alga ma invece, miracolo della natura, cresce sulla terra. Copio con attenzione tutti questi nomi strani dopo dovrò trascriverli nell’articolo in maniera corretta e prendo appunti sulle descrizioni  domandandomi in cuor mio chi acquisterà questa roba ma soprattutto perché con le belle e meravigliose verdure che offre la nostra agricoltura, penso alle maritate con senape, borragine e finocchietto, penso ai broccoli verdi e gialli, alle zucchine e alle zucche rosse per non parlare della nostra frutta: le pesche tabacchiere, le ciliegie, le albicocche, le mele gelate, le sorbe  e le arance che marciscono sugli alberi perché il loro prezzo è troppo basso e non vale la pena raccoglierle. Ma non potrò scrivere  questo, sarò capace di mettere da parte ciò che penso.

Il giorno successivo visito la nuova palestra di Picanello per poterne raccontare le meraviglie trasformando l’odore di muffa che si respira, in un’aria salubre e ricca di ossigeno e le grasse signore che sudano sugli attrezzi con le carni tremule, in atlete sode e bellissime. È così, il proprietario paga e il giornale gli dona una immagine che non possiede ed io sono quella che opera tale miracolo. Mi giustifico ai miei occhi con la necessità di sopravvivere e portare a casa la pagnotta; forse domani potrò dedicarmi ad altro ma per ora è così.

Arriva il giorno stabilito, manca qualche minuto alle diciannove,  sono seduta ad un tavolino del caffè Europa e attendo il Dottor Luigi Bosco, so già alcune cose di lui, mi sono documentata ma sarà diverso ascoltare i fatti dalla sua bocca. Il mio registratore è carico di pile nuove di zecca e il notes, a portata di mano, nella borsa. È sabato, la serata si anima, molti giovani prendono posto sotto i portici del bar riscaldati da grandi stufe, il cameriere viene a prendere l’ordinazione e per la seconda volta gli dico che attendo un amico e aspetto, aspetto il tizio che mi ha fregato di sabato sera, mi ha fatto perdere Il giardino dei ciliegi al Teatro Verga e ritarda. Provo a chiamarlo ma il suo cellulare è fuori servizio, dopo mezz’ora capisco che non verrà, allora ordino un Campari soda con una spruzzata di gin, divoro tutte quelle fritturine che accompagnano l’aperitivo, divoro i semi, le patatine  che sembrano di vera plastica, ripulisco il vassoio senza lasciare neanche una briciola. È fame o rabbia? Pago e me ne vado.

Ormai per il teatro è tardi, non ho voglia di ritornare a casa, sono troppo isterica e mi dirigo da Maurizio. Grido nel citofono: “Lo stronzo mi ha dato buca. Mi risponde raggiante: “ Meglio così, speravo che saresti venuta, ho l’acqua della pasta che già bolle.”

Mi fiondo in ascensore, ma perché non riesco a innamorarmi di quest’uomo. Non gli manca proprio nulla: i suoi occhi neri sono profondi e intensi, la sua barba che ormai è striata di bianco è morbida e profumata come piace a me, è colto, interessante, non troppo alto, proprio della mia misura perché mentre scopo mi piace guardare  il mio partner negli occhi e poi cucina da dio, senza dimenticare che guadagna molto bene, è primario al pronto soccorso dell’ospedale Santa Marta e, nonostante i suoi cinquantaquattro anni, si fa ancora guardare  e non solo dalle infermiere che come bianche colombe gli svolazzano attorno. Il sesso poi è fantastico con lui, il suo corpo è sodo e scattante, non ha più la tartaruga ben disegnata nella pancia ma possiede un membro  perfetto, non ne ho mai visto uno così elegante e sontuoso; l’ebbrezza e il  piacere sono assicurati. A volte quando viene mi sussurra: “ Amore mio.” Ma se glielo faccio notare mi ripete  che lo dice a  tutte le donne con le quali scopa e che, nell’acme dell’orgasmo, oltre ai liquidi gli escono anche suoni dolci come amore mio. Io ci credo anche se un pizzico mi dispiace perché è vero che non sono innamorata di lui ma è anche vero che vorrei sempre essere unica e insostituibile. Ma i patti sono questi: liberi come l’aria e amici tanto, legami nisba.

Maurizio ha già messo gli spaghetti nella pentola quando esco dall’ascensore e suono il campanello, non ho mai voluto le chiavi di casa sua. La tavola è apparecchiata con due tovagliette all’americana dove sono stampate una fila di casette colorate come quelle di Bergen, su una c’è una ciotolina colma di parmigiano e sull’altra un vasetto di patè di pomodorini secchi con accanto crostini di pane. I piatti sono De Simone ognuno con un colore e un disegno diverso.

“Solito rosso Laura?” chiede Mau agguantando una costosa bottiglia di frappato Nanfro.

“Lo sai che amo questo vino soprattutto per l’effetto che mi produce.” Rispondo ammiccante.

La pasta è pronta, Maurizio la condisce con striscioline di salmone, pepe verde e una schiuma di burro; stappo il vino, lo verso nei calici brindiamo e lui mi bacia subito, sento la sua lingua che mi fruga dentro come a cercare qualcosa.

“Che fai Mau? – scherzo divertita –  non puoi attendere che mangiamo la pasta?”

Ma il suo desiderio già agita il mio.

“È  per spazzare via tutte le parolacce che hai lì dentro contro quel povero cristo, magari gli si è rotta la macchina o il figlio è finito in ospedale.”

Capisco che non vuole lasciare sfogare il mio disappunto, la pasta è divina, prima ancora  di aver vuotato il piatto siamo intrecciati e le sue mani percorrono il mio corpo, si aprono un varco attraverso la cintura in cerca della pelle dei miei glutei. Stacco tutto e mi lascio prendere, ci sono momenti in cui mi piace essere una donna accogliente e dolce, mi piace consentirgli di  fare di me ciò che vuole, che mi penetri e mi baci e che mi dica anche amore mio. Il suo letto è comodo, le lenzuola fresche di bucato, finito il sesso  ci attardiamo pigri come i gatti poi lui, al solito, mi chiede di restare a dormire e io, come sempre, trovo mille scuse per andarmene. Mi pesa ma è una mia regola; mi alzo, mi vesto e,  sulla porta di ingresso, con il casco già allacciato, deposito un ultimo bacio sulla sua espressione lievemente delusa. Inforco il motorino e dopo dieci minuti sono a casa mia, domani farò col gruppo Amici del vulcano una interessante  escursione, la montagna mi rilassa e mi riconnette con me stessa, quindi preparo le scarpe da  trekking e i pantaloni pesanti, ci sarà freddo, l’Etna è spruzzata  di neve già da una settimana. Riempio lo zaino con la mantella per la pioggia, nel sacchetto della colazione  metto un’arancia, la marmellata di cotogne e l’ immancabile cioccolata fondente. Il panino lo imbottirò domattina, già l’ho tirato fuori dal surgelatore. Leggo un po’ del libro  di Annie Ernaux Gli anni, il capitolo  è doloroso con la riflessione che nulla ci appartiene o rimane, tutto quello che siamo, le immagini, i ricordi, la nostra personale storia, finirà come son finite le storie e le immagini dei nostri antenati, come sono finite anche, penso, le immagini di me e mio fratello in braccio ai nostri genitori. Il tempo è una strana dimensione, rifletto, mentre mi dico che questa mia decisione tutta mentale  di non volere a casa un televisore, a volte, mi pesa perché magari sdraiarsi davanti al video sotto una coperta calda ad inebetirsi ogni tanto non sarebbe male. Ma devo fare l’intellettuale per bilanciare i miei articoli futili e di nessun valore culturale e letterario. Livia, mia compagna di banco alle medie, psicologa nota in città,  me lo ha chiarito nel corso di una lunga e intrigata conversazione: fino a quando non scriverò qualcosa di decente devo mostrare a me stessa, con rigore e determinazione, che sono una intellettuale che legge libri impegnati e che non guarda TV spazzatura. Meglio dormire, sistemo la sveglia  per domani alle sei e spengo la luce.

Renata Governali