Leggere un testo poetico è sempre una sfida. Abitudini e automatismi consuetudinari non sono certo una bussola funzionale. E ciò vale sia che ci si trovi fra le mani una poesia scritta nella lingua nazionale (nel caso italiana), o nell’idioletto geografico siciliano, come nel caso del nuovo libro di poesie di Marco Scalabrino. La lingua poetica è sempre una lingua artistica, e come tale sempre “minore” rispetto alla lingua “maggiore”; e minore nel senso che sottrae alla maggiore la sua egemonia comunicativa, perché la sua secondarietà è capace di mettere a nudo tutta una polisemia di contropelo e di informazioni che la maggiore, addomesticata, non può permettersi. E non certo perché i mezzi (gli elementi del codice), come le parole e le regole di combinazione, che differenziano i significati delle parole e il senso veicolato dai loro suoni, siano per esempio diversi dal parlato prosaico o dallo scritto prosastico, ma perché con gli stessi mezzi creano un altro mondo e significazioni inediti quanto destabilizzanti l’ordine consueto dell’interlocuzione tra l’io, il tu e l’egli delle relazioni dialogico-intersoggettive. Così, usando un paragone, crediamo pertinente dire che leggere un libro di poesie, o un suo singolo testo, è come avere fra le mani un cristallo, o un flusso climatico e scomporlo. Ci investe! Poi si tenta di ricomporne le parti e ri-assembrarle per catturarne significati e significanze. La complessa semantica cioè che il poeta (nel caso il nostro Marco Scalabrino), impiegando certa tecnologia propria al fare poesia, mette est-eticamente in giro nello spazio lavorato delle pagine de La puisia di Marco Scalabrino / The Poetry of Marco Scalabrino, prefazione di Corrado Di Pietro (Legas, Mineola – New York, 2018).
Così, attraversando qualche testo, o qualche frammento (una strofa) di un altro, proviamo a dire che la ripetizione fono-semantica (principio base di una scrittura artistica), o un andamento “enumerativo”, e per asindeto, del verso (“espressionismo” particolarmente efficace per immediatezza comunicativa), si incrocia con un’opportuna misura etica, cifra indiscutibile di questa nuova scrittura poetica, fresca di stampa. Un’opera, potremmo dire, trilingue. L’idioletto siciliano, che scrive le poesie in prima battuta, è la lingua del poeta Marco Scalabrino. La traduzione italiana (seppure a piè di pagina, come se fosse una nota a margine) porta i nomi di Maria Pia Virgilio e Flora Restivo. Le traduzioni in lingua inglese sono a cura di Gaetano Cipolla, Peter Russell, Stanley H. Barkan, Tony Di Pietro e Nina Scammacca.
E non per inciso, a proposito della scrittura poetica di Scalabrino, è utile che il principio della ripetizione, modulo specifico del far poesia, in questa silloge, non sia messo da parte, o trascurato. Struttura portante di “simmetria stilistica”, la ripetizione, grazie per esempio al “parallelismo” costruttivo dei versi e all’“equivalenza” fono-semantica delle parole in riga e ritmo (cosa, per inciso, analizzata da Osip Brik e dai formalisti russi, come lo stesso “straniamento” linguistico), fa scattare una certa sinonimia complessiva o d’insieme del testo. Una costruzione tipica cioè della poesia che, come linguaggio secondario e “minore”, si fa sorgente della plasticità della lingua poetica stessa e della sua artisticità rispetto alla lingua della comunicazione comune.
Il principio della ripetizione non riguarda, nel caso di questa nuova silloge di Scalabrino, solamente il materiale verbale del testo; intriga anche la veste dell’impaginazione grafica. C’è, si vuol dire, una figuralità dello spazio della pagina piuttosto insistita e curata ad hoc; una linea geometrica che, tra regolarità e irregolarità di movimento e posizione geografica delle parole, visualizza una forma geometrizzante accidentata ma significante. Una qualità essenziale che sostanzia le poesie sia nel loro detto che nel loro supposto, come è la stessa funzione della qualità tonale dei fonemi delle parole che compongono un verso o un intero testo, mentre, sovrapponendosi reciprocamente, suoni e significati, e richiamandosi gli uni gli altri, intensificano il valore semantico delle singole parole e dei versi come se fossero nuove fiorescenze (la plasticità) significanti ed emergenti dal potenziale combinatorio dei materiali verbali, non verbali, grammaticali, sintattici, logici, immaginativo-produttivi.
Il lettore, o l’ascoltatore (solo però se in presenza di un grafico o di un videoartista che ne incorpori la figuralità), non può che esserne coinvolto, e, insieme con l’Io poetico che costruisce e si espone, condividerne l’articolata dinamicità strutturale. Il dinamismo cioè che, simultaneamente, grazie al lessico che interseca campi semantici diversi, contatta e attizza est-eticamente lo sguardo, l’ascolto, la logica e la sfera etico-storica dell’essere “siciliano”.
Che il lettore, dall’inizio – il titolo (funzionante da archisema) – del testo alla chiusura, provi a tirare una linea lungo gli estremi dei versi e delle strofe: avrà davanti agli occhi un’opera grafico-geometrica che il testo porta con sé; è la poesia dello spazio che gli appartiene e che gli dà immagine e movimento. Insieme, questo lettore, avrà il godimento po(i)etico di un tuffo fra i zig zag di quest’andare che coniuga gli anfratti di una linea di costa marina o di montagna o di una geografia musicata a hip hop, e fino al delinearsi di una figura geometrica, o di un quadro che, ora regolare ora irregolare (un frattale climatico), si offre come una cornice dentro cui è scritto un pentagramma e, come recita il titolo di una poesia del libro, una canzone (Canzuna di vita, di morti, d’amuri, pp. 40-49). È il pentagramma sonoro che, fonetico e fonologico, orchestra il parallelismo musicale e ritmico per veicolare l’equivalenza tonale in funzione delle differenze semantiche delle parole a-grammaticate per posizione elenco-numerativa. Parole che, di volta in volta, scegliendo uno stile “cumulativo” incalzante, si dispongono in sintagma lineare o meno per presentarsi poi verso e poesia; un dire poetico cioè che, aggrumando certe scelte lessicali di pubblico e comune uso (paisi, populu, civiltà, storia), non rinuncia a prendere (e suggerire) una netta posizione d’impegno etico-politico, trasfigurandolo nel “sogno”; la veglia e il risveglio che fanno a pugni con l’oppressione e la rassegnazione! Ad esempio, citiamo i primi tre versi della poesia Sicilia ci cridi, p. 26).
Che il lettore, ascolti questa semantica sonora come forza non decorativa; perché, fra accenti discendenti e appassionati, percetti di senso differenziali e qualificazioni metaforiche al genitivo, il suo dettato è nell’essere ipersegno poetico:
Marini suli coppuli lupara
bagghi templi canzuni marranzanu
cuscusu pisci pupi petra-lava…
facissivu bonu a scurdarivilli!
Curcatu nna la storia d’un paisi
unni sparti un cumuni patrimoniu
di sangu di lingua e di civiltà
c’è un populu chi sonna di scuddarisi
lu jugu rancitusu chi l’appuzza.
Nun la svigghiati cu la scusa: – È tardu! –
Sicilia accomora cridi a li sonni.
Ma che dire, ancora, estrapolando dalla poesia “Aschi e maravigghi di Sicilia”, dell’anafora (il pronominale – ju –, la simmetria grammaticale e sintattica della successione dei versi, la fonia semantizzante, l’accentuazione della scansione); e che dire, infine della forma piramidale tronca (opportunamente, qui, distanziamo vertice e base dei tre gruppi strofici…) della strofa:
ju zeru
ju lapardèu
ju senza travagghiu
ju bucatu
ju sucasimula
ju l’Aids a tagghiu
ju mafiusu
ju cascittuni
ju nuddu spiragghiu
ju … nun lentu mai di bistimiari.
Non si può, ulteriormente, non dire che si è davanti a una testualità, la cui plasticità poetica è amalgama di complessa ed esponenziale informazione (intreccio di elementi di vario tipo) ma ricco portatore di sensi combinati e stridenti quanto suggeritori per allusioni e valutazioni. Basterebbe guardare ai vertici di ogni mini piramide tronca: ju zeru; ju bucatu; ju mafiusu. Ogni volta il pronome ‘io’ è identificato con lessemi di campi semantici diversi, mentre la sonorità fonemica (almeno questa è la netta percezione di chi scrive), identificandoli, a partire dalla consonante iniziale delle parole che formano ogni verso e i successivi, ne sottolinea la differenza. Un nesso semantico che solo la logica della poesia, e nel caso quella del poeta Marco Scalabrino, può permettersi di far deragliare il senso comune, innescando il “negativo affermativo” del dolore, della rabbia e dello spirito terragno e materiale, come una gioiosa esplosione di rivolta e lotta contagiosa. La comunanza e la diversità dei concetti, che non è sicuramente la girovaga coloritura emozionale del degrado d’epoca, è allora una polveriera d’uso in conto barricadiero e immaginario rivoluzionario. E non ne ha bisogno, necessità e urgenza solo la terra siciliana!
Per concludere (anche se approssimando), nei versi di questa strofa piramidale, il principio della ripetizione – versi corti e anaforici, costruzioni sintattiche parallele –, ci sembra, è ancora l’anima vincente di questa scrittura poetica: la coincidenza di singoli fonemi in parole diverse, per contenuto e significato, ne fa un composto cristallo o mazzo di fiori fuori stampo, ma per questo un singolare percetto fuori mercato, gli stereotipi del senso comune o dell’editoria della deriva dell’instapoets dei “cuoricini” di rete!
Per memoria e lettura (nostra), l’equivalenza di “ju zeru / […]; ju bucatu / […]; ju mafiusu / […]” (“Io nullità; io a rischio di Aids; io mafioso!”; p. 20), che media il passaggio concettuale dal secondo termine al primo mediante il comune fonema che fa da ponte, è paragonabile, crediamo, a quella della poesia di Andrej Voznesenskij, “Goya”: Io – Goya! / […] / Io – il dolore. / Io – la voce / […] / Io la fame / io la gola / […] / Goya! […]”.
La differenza e la comunanza è concentrata solo nella seconda parola di ogni verso, o nella somiglianza che nei rapporti non annacqua la semantica delle parole e dell’articolazione che ne veicola i sensi! Il resto è la poesia in cammino delle equivalenze semantiche dell’“Io” poetico di Scalabrino e del suo urlo contro la deludente storia nel suo esserci di luoghi e tempi diversi. Non è solo il rifiuto della tormentata realtà del mondo siciliano; si è di fronte infatti a un’avversione che si scaglia contro il sistema-mondo in generale!
Così l’appassionata rivolta del poeta si misura e reagisce contro un andare dell’umanità che “mi squatra / m’arrassa / mi bummìa / […] / Però … accura! / […] / Nun è babbiu addumisticari sta fera // […] / La differenza? / Mischinu mia! / Na scoppula chi ti sagna la vita.” (“mi squadra / mi evita / mi schernisce / / […] / Però … stai accorta! / Non è inezia addomesticare questa fiera // […] / La differenza? / Caspita! / Una batosta che ti segna la vita”; p. 46, “Canzuna di vita, di morti, d’amuri”).
E intensamente insiste fino al punto in cui la voce ordina alla morte di “canziarisi” (stare alla larga) e al silenzio di cambiare aria: “Canziati morti, / nun mi fai sangu!” (“Sta alla larga da me, morte! / Non mi vai affatto a genio”; Ivi, p. 48); “s’avi puru a sbuttari / sta staciuni macari / un canciamentu d’aria […] / ncagghiu lu silenziu / e lu fermu.” (“dovrà pure sfogarsi / chissà che la prossima estate / io non possa imbattermi nel silenzio / e metterlo sotto chiave.” (“Ncagghiu lu silenziu”, p. 64).
Lunga vita allora alla poesia che cammina per confliggere col mondo dato, e alla scissione (contenuto ed espressione) quale viatico che simula un mondo diverso, alternativo!
Antonino Contiliano
Marsala, 4 giugno 2019