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© Enzo Sellerio

Sicilia 1958: vite improbabili di una puttana

Il cantastorie ha poca voglia di parlare. Forse è colpa dello scirocco che viene dal mare, e appanna le case del porto, e i palazzi lontani, le navi all’attracco, quelle che arrivano e quelle che partono, per cui è tutto uguale, cielo, mare e terra, e non c’è verso di tirarne fuori nulla. Oppure è soltanto che lui lo sa, quant’è difficile l’inizio. O facile. Tanto facile che preferisce star muto come una radio senza pile, preferisce pensare, e non pensare, come il mondo, guardare, non guardare, come il resto del mondo. Sto bene, sto bene, si convince e stira più in là le gambe dalla sedia.
Ce lo dici, di quel maledetto giorno?
Ma lui ha poca voglia di parlare, e soprattutto di dire quello che vogliono che lui dica. Lo scirocco sale dalla finestra, ma si sta bene al fresco dell’osteria. Sto bene, lasciatemi in pace. Voglio stare come un tavolo, una sedia, un bicchiere vuoto, pensa. E’ una sera che in questo istante sul tondo della terra è buio e luce insieme se ci si riflette, estate ed inverno tra Africa ed Europa, tra America ed America, tra equatore e polo. Voglio restare perso in questo spazio dove c’è tutto quello che esiste, restare idiota come una sedia o un tavolo d’osteria.
Fai il tuo mestiere!
Che mestiere? E’ un mestiere raccontare storie?
Io invece faccio il mago, guarda che ti faccio apparire!
Tu pensi che io parli per i tuoi spiccioli? Sto bene, non ho bisogno di storie, e di soldi.
Va bene, sono un mago, li faccio sparire, vero fratelli miei?
Lo so che volete, una storia di sangue e coltelli, pensa il cantastorie. La vita è lo spettacolo, meglio se ci sono il sangue e i coltelli. Lascia qui i soldi, amico, dice il cantastorie. E’ debole, deve tornare forte, con quegli stupidi che gli sono attorno, attorno a quel che dirà. Sangue e coltelli, ve ne do quanto ne volete, è il mio mestiere. Ve ne do quanto vi basta per una sera di scirocco. Sono vostro, e sono vostro padrone io, io e le mie storie di sangue e coltelli.
E’ nostro, fratelli, ride il mago mettendo i suoi soldi sul tavolo sotto un bicchiere.
Lo sapete già com’è andata di quel maledetto giorno, il cantastorie si rimescola la lingua. Sì… Il cantastorie comincia pressappoco così, il coltello brillò, descrisse una curva, meravigliosa, un lampo attraversò i due uomini. E alla fine il lampo grondava un liquido, brillante anche quello. Il grido arrivò dopo il lampo, tagliente, quasi non ne fosse l’effetto ma ne fosse del tutto unito, una sola cosa. Acuto prima, s’incupì per una cupezza e un gorgoglio. Colpa tua, Aida, vi s’udì in mezzo. Non si capì chi avesse soffiato in un rantolo, chi dei due uomini, quello ferito o l’altro che aveva inferto il colpo, o qualcun altro, colpa tua. Invece un’innocenza guidava il lampo e il suo grido nel vapore d’alcool della bettola.
Che innocenza? Com’era successo?
Come succede? D’un tratto appaiono i coltelli, come il coniglio o i soldi in mano al vostro mago, chiedeteglielo! Nessuno sa mai da dove escano, coltelli e denaro.
Il mago dei soldi ride, è vero.
E’ stato per lei, per Aida, dice il cantastorie. Facile la colpa. Facile l’inizio.
Colpa di Aida?
E’ stato per lei, ripete senza appello l’uomo delle storie. C’è sempre una donna in mezzo ai coltelli, la stessa carta in mezzo ai tarocchi.
Bisogna lasciarle perdere, le puttane!
L’uomo delle storie annuisce. Un uomo la voleva per sé, Aida la puttana. Una puttana! Non poteva che finire così, con il sangue. E’ sempre così la storia, uomini, donne, coltelli, denaro. E sangue.
Il sangue di quell’uomo che la voleva?
No, ci andò di mezzo l’amico. Succede anche questo, a mettersi in mezzo alle storie.
Com’è andata?
Forse un’offesa a quella donna, forse una reazione di quell’uomo che la voleva, e poi un coltello, un’imprecazione, e un altro coltello, quello dell’amico a parare, a mettersi in mezzo, ci sono io! No, non è affar tuo! Tre uomini. Il cantastorie getta uno sguardo tra i tavoli in attesa, non so i loro nomi, sono tre uomini, due con il coltello, e uno no, li chiamerò l’uomo, l’amico, e l’assassino. L’uomo è senza coltello, è l’amante di Aida, l’amante d’una maledetta puttana.
Non sai i nomi?
Gli altri due hanno il coltello. L’assassino è silenzioso, gli altri due parlano troppo. Ci sono, sono qui! Non è affare tuo! Non è affar mio, e non so nemmeno perché lo faccio, triglia innamorata. Vattene! Dove vado? Non so nemmeno perché sono qui, sono venuto a lacrimare di una donna, per una donna, digrigna l’amico, una donna d’altri per giunta, devo essere scemo. Vattene, l’uomo. Certo, me ne vado, mastica l’amico ma non si muove. Da qualsiasi parte, mastica ancora l’amico, invece che qui, con te, pesce lesso che sei, con un coltello in faccia, e il mio coltello in mano. E tu, che vuoi fare tu con il coltello? continua rivolto all’assassino silenzioso. Usalo o posalo, maledizione! Vattene, ha un coltello, è affar mio! Sì, maledizione, è affar tuo, ma anch’io ho un coltello, è un coltello questo, no? Vattene! L’assassino butta giù una sedia con una pedata. Certo, largo, spazio, mastica ancora l’amico tra i denti. L’assassino è immobile davanti all’uomo e al suo amico, lui non dice una parola, una schiuma gli cola da un labbro, una sorta di fame. Fanno largo, fanno silenzio. Il cantastorie passa gli occhi attorno, silenzio. Vediamo come va a finire, d’un tratto canticchia l’amico nel silenzio, vediamo come va a finire. Gli altri sono a cerchio, occhi lucidi, fronti sudate, luccicanti, silenzio Chissà se basterà loro il sangue che sgorga tra poco. Il cantastorie balena un altro sguardo sulla sua folla. L’uomo, l’amante di Aida, l’amante d’una puttana, amante di niente, amante della morte, e il suo amico, loro due e un assassino. Anche i due coltelli si fissano immobili. Poi si muovono lenti in cerchio. Dovrei essere sul letto d’una femmina, a cavallo d’un muro a fischiettare, a pescare e lavorarmi il giorno sulla mia barca nuova, appena impeciata e dipinta, ci ho dipinto il petto d’una donna a prua, a questo servono le puttane, a rallegrare la prua d’una barca, a poppa invece c’è un pesce lungo, su tutti e due i fianchi, pesce spada come quella spada che tieni in mano tu, l’amico rotea piano la sua lama verso l’altra. Da qualsiasi parte, invece che qui, da qualsiasi parte, è l’ultimo pensiero saggio che gli balena in mente. Poi c’è solo il coltello dello sconosciuto, che gira lento, anche lui, pronto a scattare e bucare. Neppure lo conosce quell’altro con il coltello, neppure lo odia. Maledizione alle donne e agli amici, maledizione a me! L’amico fa una finta con il braccio armato. L’altro non si muove. Maledizione, è uno che sa tirare, non s’è mosso, non si fa spaventare questo, maledizione, te la sei scelta bene la lite, pensa. Prova un’altra finta, con l’altro braccio. Nessuna reazione. Sa quando muoversi, maledizione! Allora provo un affondo, pensa l’amico, un affondo dopo due finte, pensa. Ecco, uno, due, e via affondo! Ma l’altro si scosta con uno scarto. Aspetta il momento giusto, te lo sei scelto bene, pensa dentro di sé l’amico. Forse potrebbe abbandonare, e tuffarsi sul letto d’una femmina, ma non può. Ormai ha fatto la sua scelta. O non l’ha fatta. Ormai ha seguito l’uomo nell’osteria, l’ha ascoltato tutta la sera parlare di Aida, gli ha riempito il bicchiere, se l’è riempito. Vino di mistura, maledizione! Guarda il suo coltello, non distrarti, non pensare ad altro, devi vedere bene, senza veli negli occhi, pensa l’amico. Un’altra finta. Ma adesso l’assassino risponde, tenta anche lui, cerca un colpo al fianco mentre l’amico s’è aperto per l’affondo. L’amico schiva. Non sono morto, pensa, sono ancora vivo, si meraviglia. E sono qui a tirare di coltello come uno stupido! Restano di nuovo fermi a fissarsi tra occhi e coltelli, gli altri fissano a cerchio. Che aspetti adesso? pensa l’amico. Che aspettano tutti? C’è un granello che gli trema nell’occhio. Dovevi starne fuori. L’assassino è di nuovo fermo in attesa. Adesso aspetto io, dovessi aspettare fino alla fine del mondo, pensa l’amico. Si mette in posizione di difesa. Sono fermi. Però è l’amico a non resistere. Deve scegliere, o no, come quando s’è messo in mezzo. Tira un colpo verso la pancia, fa un giro con il braccio e tenta un altro bersaglio. Ma l’altro non ci casca, ha già scartato, è già pronto. Si spostano, uno di fronte all’altro. Girano legati ad un asse maledetto. E’ la morte quel centro, pensa di colpo l’amico. L’ha riconosciuto. Il primo che lo trova, quel centro, muore. E’ la tua amante quel centro, pensa l’amico con uno sguardo rapido all’uomo, è la tua puttana, quella di cui m’hai parlato tutta la sera al tavolo, quella che vorresti per te, il centro a cui giri, triglia lessa, e ora ci giro io. Nessuna puttana può essere d’uno solo, triglia innamorata, e nessuna morte. Non distrarti, non distrarti, non guardare nessuno, non pensare a niente, solo a quel coltello davanti a te, oppure ci arrivi subito a quel centro, tutto mio quel centro, maledizione, non lo piglia nessuno, il maledetto centro, lo piglio io! Giriamo, giriamo. Girano, girano, lentamente. Si sente solo un mormorio quasi un pianto, vattene, non sa cosa dire l’uomo, mormora in sordina per sé. Non lamentarti, maledizione, porta sfortuna, pensa l’amico, non distrarmi, pesce bollito. Mi muovo? E lui? E il suo coltello? L’ammazzo, ora l’ammazzo, e finisce, stringe gli occhi l’amico, vado a prendermi la mia notte, a godermela lontano da qui, più lontano possibile da qui. Ancora colpi, uno, due, tre, finte e prove. L’assassino arretra. Cos’è? Hai paura? Più paura di me? O sei più furbo? Non lamentarti tu, sfortuna che mi piglia! Te lo sei scelto bene! E’ furbo! Più furbo di me, non ci vuole molto. Ora però la finisco, pensa. L’assassino arretra. L’amico gli si getta addosso. No! grida l’uomo, cerca di frapporsi. Ma l’amico è già avanti, avanti verso la notte da godere, verso ciò che non vuole e non ha motivo. C’è un luccichio negli occhi dell’assassino che fa il paio con il lampo del coltello. L’amico lo vede, e capisce. Ho sbagliato! Ho sbagliato tutto stasera! Ma ormai non si può fermare. Nessuno può fermarlo. Poi il grido, del tutto legato al lampo, una sola cosa.
Allora…?
Il cantastorie riposa un momento, debole. Un lampo, esclama riprendendo a fatica. Però è un lampo rossastro. C’è uno sbocco di sangue. La macchia s’allarga per terra, quasi fosse lì da prima. L’unico rumore è uno sfrigolio, il sangue che sbocca da una ferita. Chi è, chi è? gridano dal cerchio d’uomini. E’ lui, lui! Non so se indicano l’assassino o il ferito. L’assassino è l’unico che non si muove, non parla, si lecca soddisfatto quel rivoletto di saliva dal labbro. La sua nave salpa tra un’ora, Indocina, oceani distanti, l’assassino si asciuga il labbro, avido, già pronto a tirare ancora di coltello per farsi largo e scappare. Non ce n’è bisogno. Gli altri guardano fisso il ferito che mormora parole senza senso, in bilico sulle gambe, il sangue spruzza, il suo coltello cade. Maledizione alle donne e agli amici, mormora appena. S’affloscia, è per me il centro, sono al centro del mondo, triglia lessa e innamorata. E’ lui il ferito! Sono io, ghigna l’amico. Al posto di qualcuno che non vedo, non ti vedo, pesce morto, non ci sei più, non vedo bene, sei già sul letto della tua puttana, giusto, lasciami un posticino anche per me, è grande il letto delle puttane, si scorda tutto sul letto d’una puttana, maledizione, mi scorderò d’esser morto se muoio, d’essere più morto d’un pesce morto, ghigna ancora l’amico. S’avvolge per terra. Muore, dicono. No, non è morto, sanguina, sanguina, via, via, a casa sua! Che casa, sanguina, in ospedale! Che ospedale! Dal ferraio, lui non parla! Dal ferraio! Lui lo cuce. Via, via, presto! Dal ferraio, presto!
E’ morto? chiede la gente al suo cantastorie.
Il cantastorie non risponde, sempre più debole, la strada s’insanguina, pare che il sangue sgorghi direttamente dalle scaglie della via. Lasciano una scia di sangue sulla strada, portandolo, come uno spacco di lava viva. Lo ricuce il ferraio! Ce la fa. Ne ha cuciti tanti! Ce la fa!
Muore?
La strada corre per quanto può, per quanto permette il peso d’un corpo sempre più inerte, sempre più duro. Presto! Ma la strada ha il suo corpo, corpo lungo, corpo aspro di scaglie, corpo repentino di lucertola.
La fai lunga! Muore?
Eccola, eccola, la casa del ferraio! E’ in casa? C’è sempre, in casa, il ferraio, dove va? Non c’è mai quando c’è bisogno. Ci sono, ci sono, ma non ci sono! Maledetto ferraio, ci sei! Che volete? Non lo vedi? Non ci sono, portatelo all’ospedale! Non può andare in ospedale, non è roba per l’ospedale! Maledizione, all’ospedale! Devi cucirlo! Non è un ospedale casa mia, e io non sono un santo, e non faccio miracoli, lo vedete com’è conciato, non li avete, gli occhi? Lo vediamo, non ce la fai a cucirlo? Non capite, ignoranti, non è questione di cucire! Perdi tempo, cucilo, o muori con lui! Certo, che paura! Siamo ignoranti e ubriachi, attento! Il ferraio guarda, ci ripensa, lavorare per un poveraccio che mangia quando mangia, quando pesca pesci di scoglio! Non gli piace. Ignoranti e ubriachi, attento! Va bene, va bene, qualcuno pagherà il lavoro, comunque vada qualcuno paga – avete capito? – comunque vada! Cucilo! Va bene, no, non lì, è il mio letto quello, maledizione, qui, qui, sul tavolo mettetelo, mi riempite la casa di sangue, è una fontana il disgraziato. E’ il tuo mestiere! Questa casa non è un macello, e io non sono macellaio! Sbrigati! I ferri, quelli, quelli! Eccoteli! Ci vuole luce! Luce, luce, facciamo luce! Qui sopra, la lampada, no, non così, più in alto, più in basso! Cucilo! Non sapete far altro che ubriacarvi e scannarvi a vicenda, voi e le vostre risse d’ubriachi! Cucilo!Maledizione, maledizione! Ce la fai ? Sapete che volevo fare? Dormire, avevo mangiato e volevo dormire, steso come un re. Ce la fai a cucirlo? E invece arrivate voi e il vostro pezzente, un pescatore pescato e tranciato all’amo! Ce la fai? Ma lo vedete com’è ridotto? Devi farcela. Lesioni interne… uh… Devi farcela! Che ne capite? E quello chi è nell’angolo come uno stupido ? Era con lui, è stata causa sua, il suo amico. Bell’amico! Pensa a cucire! Cucire, cucire, mi gocciola il sudore, asciugatemi la fronte, maledizione! Continua! Il suo amico quello? Quello stupido se ne va, non gli importa, non vedete? Continua, nessuno volta lo sguardo, affascinati dal sangue e dal corpo segato. Però lo sentono, che l’uomo è sfilato via, come si sente un vento che passa.
Se ne va? chiedono al cantastorie. Ma l’amico è sotto i ferri!
L’uomo è scappato via, non sa fare altro che scappare, un uomo innamorato scappa, come un assassino, non sa neppure da cosa, dove va. Corre, non sa neppure se il ferraio ha finito con l’amico, se ce l’ha fatta, se ce la farà il suo amico, se andranno insieme un’altra volta a pescare, a vagabondare per le vie del porto, a stuzzicare le puttane nei bordelli del porto. L’uomo non sa se farà più l’amore con Aida, con lei o con un’altra donna. Con nessuna, con nessuna, pensa. Però subito pensa, Aida, Aida. Poi pensa al sangue, al luccichio dei ferri del chirurgo, alla gente ubriaca attorno al corpo squartato, dentro la luce squallida d’una stanza, poi pensa ancora e sempre, Aida, Aida. Pensa alla luce rosata sul letto della donna. Poi non pensa più nulla, corre e basta. Aida, Aida, però gli grida dentro senza coscienza. E’ lì sulla porta dell’osteria. Muso di porco sta chino a ripulire il sangue e accomodare i danni, bestemmiando contro gli ubriachi, non si guadagna oggi, e ci ho perso pure. Aida, Aida, vuole mormorare o urlare l’uomo, ma non emette suono. Forse è Aida quell’ombra raggomitolata su una sedia, forse è lei, lei che non può fare nulla, lei che ha visto tante risse, tanto sangue, e non ha più nulla da dire o da fare. Aida! Forse non è lei. Vattene, sbraita muso di porco. Aida, rimbomba nella mente dell’uomo. Scappa ancora l’uomo, non sa fare altro, scappa, non sa dove. Gli appare una scure tra le mani, è lì, sulla barca dell’amico, la barca ancora da pagare, da soffrire, e godere come una donna. La sfonda a colpi di scure. S’è sdraiato, con gli ultimi voli dei gabbiani sopra che sembrano falchi, supino, sul legno della propria bara. E’ quieto adesso, e non c’è davvero più nulla nella sua mente, neanche il nome di Aida.
Vogliamo sapere di quello ferito, protestano vicino al contaballe.
Il cantastorie fa un gesto debole per fare silenzio. L’hai cucito? L’ho fatto, ma c’è un organo leso, lo capite? Zitti! Il ferito, il ferito vuole parlare. Si meravigliano tutti, veramente s’erano dimenticati di lui, come non fosse più uomo ma solo sangue e ferite. Invece le sue labbra d’uomo si muovono, farfugliano. Non si capisce, che dice? Zitti! La barca…. la mia barca… si va in mare… si va a pescare… si pesca bene in un certo posto… non lo dico, non lo dico, uno spacco del fondale, pieno di pesci… fitti come una nuvola…. non si vede neppure l’acqua… tanti sono i pesci che girano, beccano… come le gonne delle ragazze che ballano il sabato notte al bar in riva al mare… Il ferito pare sorridere, chissà se ci pesco una triglia lessa in mezzo, bel centro di gonne e sottogonne colorate come pesci in amore. Afferra la manica del ferraio, non ti vedo, chi sei? Portami lì, voglio tuffarmi in quel fondo… Stai fermo, dice il ferraio e agli altri sbraita, adesso va in ospedale, capito? In ospedale? C’è una lesione! Certo, certo. Portatelo via di qui, non voglio vederlo più. Ti pagheremo, te lo meriti. Sì, sì, ma via da qui! Portano il ferito tra le braccia. Di nuovo per le strade. Però non è andata per il verso giusto. In ospedale? Lasciatemi lì, in mare, nel mio fondale che bolle di pesci.
Sta morendo, vero? chiedono al cantastorie.
Il cantastorie prende tempo, pensa, vediamo qual è il finale, quello più redditizio, quello che piace a questa canaglia. Se fosse più forte oggi, lo saprebbe senza dubbi.
Lui muore? insistono.
Il sole tramonta sul mare mentre lo portano a braccia. E’ già un servizio funebre, ubriaco, reggetelo, cade, prendilo, ma piano, tenetelo, ma alto, più alto sulle teste. Il tramonto allunga le ombre.
Muore?
Il cantastorie socchiude gli occhi, mettetemi nella mia barca, voglio andare al largo, al largo dove so io… Reggetelo, ma piano, niente ospedale, non c’è più bisogno, si convincono. Muore, se ne convincono sentendolo parlare di mare e pesci, muore tra le loro braccia. Nella rada il sole ha chiuso il suo occhio dietro il mare, è già sera e già viene la notte. Sei qui, è la tua barca. Non gli dicono che la sua barca, la barca ancora da pagare, è mezzo distrutta. C’è il suo amico, dentro, lui è vivo, ma sembra morto, più morto di quello che muore. Lo stendono vicino all’altro che ha ancora in mano la scure con cui ha spaccato la barca non sua, la barca dell’amico, quella presa a debiti, quella che all’amico serve per vivere, quella che adesso inonda di sangue. E’ giusto, muori vicino al tuo amico, pensano gli uomini. No, no, pensa l’uomo con la scure. Però resta immobile, non riesce a muoversi e scappare un’altra volta, anche se ne avrebbe voglia, più voglia adesso. Il sangue dell’altro gli arriva caldo sulla faccia, non può far nulla se non restare immobile, un tempo eterno. L’uomo delle storie sospira stancamente, chi muore non s’è accorto dell’amico vicino, portatemi dove vi dico, in mare. Non sa che la barca non potrà più andare da nessuna parte, con quel buco nello scafo. Portatemi… l’amico avverte un sole di tramonto su di sé, l’ultimo sole della sera, o così gli pare, ecco, se gli riuscisse di aprire i maledetti occhi che si sono chiusi, se li apre forse può vedere le prime stelle della sera, già stelle della notte, può contarle, pensa. Le conta, una, due, tre, quattro… sono la strada per arrivare al suo fondale ribollente come il bar illuminato del sabato notte. Lì s’affollano le luci o le stelle, quattro, cinque, sei… la luna è in centro.
Così finisce? A nessuno piace la fine.
Il cantastorie rigira la lingua, qual è il finale migliore? Come finirla e far colpo? Quella volta non vuole sforzarsi, non ce la fa.
Aida era rimasta incinta. Di quell’uomo. L’hanno raccontata così a loro.
Il cantastorie mormora alcune parole. Le parole ad effetto che mancano alla storia. Ma quelle parole rimangono incomprensibili sulle sue labbra stanche.
Cosa? chiedono. Scrollano le spalle, però la raccontano diversa, borbottano, la raccontano che a morire è stato l’altro, l’amante di Aida, raccontano che lei ha vegliato il cadavere del suo uomo tutta una notte, e la figlia d’amore le si rimescolava nella pancia quella notte. Ce la cambi ogni volta, ce la cambiano sempre.

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.