Al momento stai visualizzando La frittata di padre Sansone
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Se lo ricordava più grasso, enorme, smisurato – come dire? – onnicomprensivo. Riempiva la casa quasi fosse presente in tutte le stanze contemporaneamente. Forse era il tipico inganno dell’infanzia: con gli occhi del bambino non solo la casa in cui allora abitava la sua famiglia, una casa di modeste dimensioni, sembrava immensa, ma anche le persone apparivano più grandi di quel che fossero, per età e statura, eccetto i piccoli o i coetanei. Padre Sansone era diventato subito un amico di famiglia, dacché, morto il vecchio parroco, era stato mandato al paese di Stefano, in montagna, ancora fresco di prima messa, al posto dello scomparso. Quando varcava la soglia, passava a stento dalla porta spalancata: doveva girarsi di fianco e tirar dentro il più possibile la pancia, trattenendo il respiro e sgonfiando le gote. Appena in casa, con il viso congestionato per lo sforzo, sbuffava un fortissimo «Sia lodato Gesù Cristo!» che rimbombava di stanza in stanza, e tutti indistintamente – la nonna, il nonno, i genitori e i fratelli – rispondevano in coro: «Sempre sia lodato!», aspettando che si accomodasse, com’era solito fare, unico occupante, in mezzo al divanetto. Allora, dal suo cantuccio, mentre padre Sansone conversava con gli adulti, Stefano invece di trastullarsi con i fratelli preferiva studiarselo in ogni particolare come un essere raro. Lo impressionava tutto di lui: dall’abbigliamento, che consisteva in una tonaca nera con una fila lunghissima di bottoni anch’essi neri, alla figura, che era tonda e tozza. Il nonno diceva che somigliava a una palazzina; la nonna lo chiamava “don Barilone”; i genitori preferivano evitare nomignoli davanti ai piccoli, che semplicemente lo chiamavano “padre Sansone”, col suo vero cognome, ma pensando alla forza tremenda delle sue mani, come a quella dell’eroe biblico appreso al catechismo.

 

Anche adesso, nella sua vecchia canonica, tale e quale quella di un tempo, con i mobili soltanto più invecchiati e le pareti ridipinte, rivedendolo dopo chissà quanti anni, almeno una trentina, ciò che di lui colpiva di più erano le mani. Le osservava come quando era bambino, affascinato dalla loro destrezza e leggerezza, mentre andava preparando l’impasto delle tagliatelle caserecce – una sua specialità, così aveva annunciato – con cui voleva festeggiare il suo ritorno al paese, insieme con la moglie e la figlia, dopo che, come a molti altri, anche a lui, terminati gli studi, era accaduto di emigrare al Nord, e lì sistemarsi e ammogliarsi. E quello stesso giorno, del resto, nel pomeriggio, sarebbero ripartiti per Milano, finite ormai le ferie.

Gli girava intorno pensando alla sua infanzia, e indirettamente alla vita di lui giovane parroco, mentre se lo ripassava quasi a memoria. Le sue mani, dunque! Non erano sviluppate in lunghezza ma in larghezza: le palme sembravano delle pale; le dita, tozze e grosse, dei salsicciotti; i polsi, due grossi manici di ferro. La sua forza era diventata proverbiale. La gente non diceva più: «Qui ci vuole la forza di Sansone»; ma: «Qui ci vuole la forza di padre Sansone». Una volta, di mattina presto, dopo la messa dell’alba che Stefano gli aveva servito da chierichetto prima di andare alla scuola elementare, si fece accompagnare in canonica, si mise a letto con la febbre alta e lo spedì dal gelataio, l’unico del paese, in cerca di ghiaccio.

«Ghiaccio?» ripeté il gelataio. «E a che gli serve il ghiaccio?»

«Ha la febbre alta. Dice che vuole il ghiaccio.»

«Ma non sarebbe meglio il dottore?»

«Così mi ha detto.»

Il ghiaccio, al gelataio, glielo portavano direttamente dalla fabbrica, che si trovava a valle in un altro paese, in blocchi di grandi dimensioni avvolti in sacchi di iuta. Proprio in quel momento arrivava il furgone del fornitore, che faceva il giro dei paesi. Invece di fargli scaricare i blocchi, il gelataio lo accompagna fino alla canonica. Entrano subito nella stanza da letto, dove padre Sansone giace paonazzo, sudato, gli occhi lucidi, tremante di febbre.

«È permesso?»

«Entrate, entrate. Avete portato il ghiaccio?»

«Ma quanto gliene serve?»

«Un poco, da mettere sulla testa, in una borsa.»

«Ah!» capisce finalmente il gelataio, che non sapeva di quest’uso del ghiaccio. «Insomma, si mette in testa e la febbre passa?»

«Non passa. Diminuisce o non sale. Non fa scoppiare le vene della testa!»

«Ah!» ripete convinto il gelataio. «Allora, eccolo qua, tutto il ghiaccio che vuole.»

È tempo di rompere il blocco. Ma il gelataio ha dimenticato il mazzuolo nel negozio. Non c’è nella canonica un martello o un matterello a portata di mano. Il gelataio soffia e sbuffa, non riesce a rompere il blocco, che è duro come l’acciaio. Lo calpesta con i grossi scarponi, quasi scivola per terra a gambe all’aria, impreca, fa forza con i pugni, ma non riesce a scalfire il blocco.

Padre Sansone lo osserva, dapprima ansioso, poi divertito.

«Mettilo qua, vicino al letto» dice al gelataio, che subito gli spinge il blocco per terra vicino al comodino.

Padre Sansone si sporge dal letto, allunga il braccio e con un pugno simile a un maglio manda in frantumi l’intero blocco. Il ghiaccio allegramente si sparge dappertutto nella camera, cozzando con i vetri della finestra, con la coppa del lampadario, con le ante dell’armadio, con la specchiera, segnando di rivoli e rivoletti d’acqua il pavimento.

Una forza incredibile! Anche Stefano l’aveva provata, da ragazzo, ogni volta che, per complimentarsi di qualche servizio, il parroco gli dava dei buffetti sulle guance, facendole diventare rosse per delle ore. Per lui erano carezze; per Stefano, ceffoni. E ne distribuiva a ognuno, per qualsiasi motivo. Pur essendogli affezionati, i ragazzi gli stavano alla larga, pronti a schivare le forti manate.

Per via della forza si era conquistato in breve gli animi della maggior parte dei parrocchiani, soprattutto tra i braccianti, i muratori, gli scalpellini, i cavatori di pietra. Ai tavoli del caffè, tra una partita di briscola e l’altra, cui partecipava da buon giocatore nelle uggiose serate d’inverno, li metteva tutti sotto gareggiando a braccio di ferro. Ci provavano quasi tutti a battersi col parroco; ma non c’era niente da fare: o perché conoscesse qualche trucco particolare o perché davvero non incontrava rivali della sua medesima taglia, li superava senza remissione di peccati.

Immenso, smisurato, eccessivo: era sempre stato così, in ogni sua abitudine e in ogni manifestazione di vita. Anche adesso, mentre preparava le tagliatelle, si lasciava governare da un senso di sovrabbondanza, come se invece di tre ospiti a pranzo ne dovesse avere dieci. Dosava la farina e le uova secondo misure incredibili. La moglie di Stefano tentava di limitarlo, ma lui insisteva con fare sornione e ridanciano.

Di colpo affioravano alla mente di Stefano i momenti più strabilianti di quando, uno fra i tanti chierichetti di quell’età, lo accompagnava di casa in casa per la benedizione pasquale reggendo il grande cesto delle offerte. Pochi i denari ma molte, moltissime, le uova che pian piano s’innalzavano a piramide nella conca del cestone. Era un’impresa non farle rovesciare, ma alla fine del giro la soddisfazione di consegnarle intatte lo ripagava della fatica.

«Che cosa ci farà con tutte quelle uova?» si domandava curiosa la nonna parlottando con la madre.

«Se le mangia» chiarirono una volta Stefano e il fratello maggiore, anche lui chierichetto, appena rientrati a casa da quel servizio.

«Oh bella! Se le mangia tutte lui?»

«Non tutte, la maggior parte.»

E non gli fanno male?»

«Sta meglio lui in paese che il papa a Roma» commentò il nonno.

Difatti, solitamente, andava così. Alla fine del giro, spogliatisi delle vesti di chierichetti, padre Sansone regalava agli accompagnatori di turno cinquanta lire e una dozzina di uova, uova da portare a casa. Il resto, naturalmente, era tutto per sé, che donava a qualche famiglia indigente o riciclava rifornendo qualche bottega. Ma come mangiatore di uova davvero non scherzava, era insuperabile. Le sue frittate erano straordinarie: non meno di dieci uova alla volta, con i condimenti più ricchi e saporiti: pezzi di lardo e pancetta, dadi di formaggio piccante, tranci di cipollotti teneri, prezzemolo tritato, una grattugiata di buccia di limone per coprire l’odore caratteristico delle uova, che diceva di non sopportare. Si sedeva alla tavola senza nemmeno apparecchiarla e mangiava direttamente dalla padella di ferro ancora infuocata, ma senza ingordigia, molto lentamente, assaporando la gran frittata a piccoli bocconi.

Tanto era ghiotto di uova quanto era astemio. Il vino, o qualsiasi bevanda alcolica, gli dava repulsione. La celebrazione della messa comportava sempre un piccolo dramma. Quel sorso di vino che versava nel calice, all’atto d’esser bevuto lo spingeva a fare delle strane smorfie che suscitavano il commento ilare e un po’ blasfemo dei profani. «Gesù Cristo ha il sangue amaro» ghignava qualcuno. Per il resto, non solo era una gran forchetta, ma sapeva cucinare i cibi talmente bene che spesso, finita la messa e intrattenendosi con le parrocchiane, era prodigo di ricette e consigli culinari che, all’atto pratico, si rivelavano preziosi.

Il suo piatto forte era la zuppa di pesce. Ma lì, in montagna, nel paese dov’era stato mandato a fare il parroco, per lui nato e cresciuto in un borgo di mare, l’occasione del pesce fresco e adatto per la zuppa non era rara ma rarissima. Quando accadeva, era festa per molti: stipava fino a trenta persone nella sala da pranzo della canonica, e lì a mangiare a più non posso fino a tardi. Della cucina campagnola si vedeva che si contentava. Ma col tempo l’aveva perfezionata con la passione e il gusto di chi, fatta una scoperta, la partecipa a tutto il mondo. I parrocchiani, alla lunga, non solo lo avevano accettato come uno del posto, ma addirittura, se così può dirsi, lo avevano adottato, nulla facendogli mancare in canonica di quanto, in quel paese di campagna, veniva coltivato, allevato e prodotto: non solo uova, naturalmente, ma formaggi e salumi, polli e conigli, frutta d’ogni stagione e verdura d’ogni qualità, farina e legumi, vino e olio in quantità considerevole. Ciò che padre Sansone non consumava – non solo il vino – lo donava alle famiglie più bisognose, con affettuosa discrezione. La gente non ci mise molto a capirlo, per cui la canonica ben presto divenne una specie di luogo d’ammasso di derrate alimentari a uso e consumo dei poveri della parrocchia.

Per l’olio, poi, che era d’oliva e spremuto a dovere nell’unico grande frantoio che serviva all’intera comunità, padre Sansone teneva due giare: una in un ripostiglio della sacrestia, dove venivano con le boccette a versarlo le pie donne per la lampada del Santissimo; l’altra in un canto della cucina canonicale, dove venivano svuotate le bottiglie degli offerenti. Per far ardere la lampada, la gente portava olio stantio insieme a olio novello. Talvolta padre Sansone, in mancanza d’altro, attingeva per la cucina all’olio destinato al Santissimo. Allora non era difficile sentirlo tuonare dall’altare, sul finire dell’omelia domenicale: «E l’olio per la lampada portatelo di quello buono, sennò raschia la gola!».

Benedetta lampada! Bisognava sorvegliarla costantemente affinché ardesse giorno e notte. Appena si spegneva, bisognava avvertire il parroco o il sagrestano, che doveva correre a rinnovare la scorta dell’olio o lo stoppino. A Stefano piaceva l’odore acre, di bruciaticcio sfrigolante, che emetteva.

Una volta toccò a lui avvertire il parroco:

«Padre parroco, padre parroco, si è spenta la lampada del Santissimo!».

Padre Sansone lo guardò sorridendo e prendendosela molto comoda:

«E tu non ti preoccupare, tanto il Signore non deve leggersi il giornale!».

Le sue prediche erano un avvenimento. Non amava parlare in pubblico; ma, costretto a farlo a causa del ministero, dopo i primi impappinamenti, si lasciava andare senza freni in quello che da tutti i fedeli presenti era ritenuto il “ritornello preferito”: il rimprovero per gli assenti, l’invettiva contro chi di solito non frequentava la chiesa e non partecipava alla messa festiva. I più assidui non se ne adontavano: lo spettacolo di padre Sansone che, paonazzo in volto, infuriato come un Savonarola, prometteva fuoco e fiamme ai peccatori, li risarciva dei rimproveri immeritati. Senza dire che, spesso, nella foga del parlare, mescolava i racconti delle parabole evangeliche, come quando al figliuol prodigo attribuì un lungo peccaminoso amore con Maria Maddalena, oppure di due festività ne faceva una, come quella volta che annunziò imperterrito: «Oggi celebriamo l’apparizione della Madonna di Lourdes là nella grotta di Massabielle ai tre pastorelli di Fatima, Giacinto, Francesca e Lucia».

Era fatto così, non si curava granché dell’istruzione. Non preparava le prediche, non si aggiornava, non leggeva libri, forse non recitava nemmeno il breviario. La sua forza era soltanto una gran devozione di stampo popolare e un fortissimo senso della carità cristiana.

Si sarebbe levato il cibo dal piatto per darlo ai poveri, che con l’andar del tempo, diffusasi la voce della sua generosità, accorrevano a lui anche dai paesi vicini.

«La carità bisogna farla subito, altrimenti la gente muore di fame» era solito ripetere. «A leggere i libri c’è sempre tempo!»

Ma aveva una libreria straordinariamente fornita e aggiornata, tenuta in bell’ordine, quasi per puntiglio.

«Vedi tutti questi libri?» finì col dire a Stefano, sapendo quanto questi, per scelta e per gusto di lettura, ci tenesse. «Sono tutti libri avuti in prestito!».

«Ah, padre Sansone!» lo minacciava Stefano scherzando. «Così ritarderà il suo ingresso in Paradiso!».

«E perché mai? Forse che me li devo portare con me? Peserebbero troppo!»

La sua bontà diventava indulgenza quando in confessionale assolveva i peccati. Una volta, come aveva raccontato lui stesso, in vista della Pasqua era venuto a confessarsi un vecchio contadino, e lui da buon confessore gli aveva passato in rassegna i dieci comandamenti e gli obblighi dei fedeli e gli aveva chiesto: «Avete mangiato carne di venerdì?», e il contadino: «Signore, manco a Pasqua!». Da allora, mortificatissimo, non aveva avuto più animo di fare domande del genere a nessuno.

 

Ormai il pranzo era pronto: tagliatelle con il ragù di carne; falso magro con patate al forno; caponata di melanzane, peperoni, zucchine, pomodori, olive nere e olive verdi, cipolla e capperi; formaggi e formaggelle; macedonia di frutta al maraschino; caffè e amaro dei frati; vino locale liquoroso. Insomma, un trionfo di piatti preparati a puntino, ma in porzioni gigantesche che gli ospiti non riuscivano a consumare del tutto, benché padre Sansone continuasse a incitare: «Ancora una forchettata, ancora un pezzetto, ancora un assaggio, ancora un sorsetto, ancora un bocconcino, ancora, ancora, ancora…».

Ma si accorsero subito che si dava da fare per gli ospiti senza che li accompagnasse nell’impresa di smantellare tutto quel ben di Dio. Fu la figlia di Stefano a esclamare per prima:

«Ma lei, padre Sansone, non sta mangiando niente!».

E la moglie:

«Padre Sansone oggi si è limitato a fare il cuoco…».

Sì, è vero, Stefano se lo ricordava più florido, più grasso, più rubicondo, ma non è che fosse cambiato moltissimo da allora. Solo che, per qualche sopravvenuto acciacco, oggi doveva sorvegliare la dieta e limitarsi a qualche assaggino.

Padre Sansone li guardava con occhi amorevoli mentre onoravano la sua tavola, così ricca e gustosa.

 

Nell’atto di accomiatarsi ringraziandolo e promettendogli che si sarebbero rivisti l’anno successivo per le nuove ferie – ed erano sul punto di montare in automobile per poi raggiungere Messina e imbarcarsi sulla nave traghetto per Villa San Giovanni – padre Sansone tirò fuori dal frigorifero un bel pacchetto ricoperto di carta stagnola. Doveva essere una teglia con dentro qualche dono mangereccio per il loro viaggio.

«Apritelo quando avrete fame.»

Gli ospiti, dopo quella gran mangiata, si misero in viaggio lentamente.

Poi, superato il momento difficile della digestione, portata a termine durante la traversata dello Stretto, e abbordata l’autostrada per Salerno, pronti a risalire l’intera Penisola fino a Milano, le forze a Stefano si spiegarono interamente durante la guida per tutto il pomeriggio e per tutta la serata. Quando, durante la sosta in un motel, a sera inoltrata, a tutti venne fame e aprirono l’involto, lanciarono un grido di ghiotta meraviglia. Padre Sansone era stato ancora una volta grandioso: nella teglia si accampava un’enorme, straordinaria, ricca frittata, non meno di dieci uova, con lardo, pancetta, formaggio, cipollotti, prezzemolo e una leggera spolverata di buccia di limone che profumava di cotta gradevolezza il tutto, spandendo intorno un senso acuto di gioia e pure di rimpianto.

Angelo Maugeri