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«Ed elli a me: “Questo miseo modo tengon l’anime triste di coloro che visser sanza infamia e sanza lodo.

[…] Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa»

Inferno III, 31-51, Dante Alighieri

Un inetto è semplicemente una persona che si è arresa alla vita, qualcuno che non sia capace di relazionarsi all’esistenza, un misero, un meschino. Non è nemmeno un vinto, perché almeno il vinto ha provato a lottare ed è stato sbattuto dalla corrente sullo scoglio. L’inetto nemmeno prova ad andare contro corrente, aspetta l’urto perché sa che da quel manto duro, rugoso e nero, che è lo scoglio, non lo potrà muovere nient’altro che non sia altra corrente.

E questa è la storia di Alberto, inetto di mezza età. Era alto e smilzo, la testa era ormai priva di capelli, se non ai bordi; quei pochi che aveva, grigi, sembravano batuffoli di cotone scoloritosi per lo scorrere del tempo. Aveva gli occhi piccoli, ma sufficienti per scrutare la stessa vita che lo trasportava, lentamente, all’inevitabile conclusione. La sua voce era inconsistente, anch’essa smorta, come quei pochi capelli che gli restavano. La prima domanda che sorgeva spontanea guardando Alberto era una ed una sola: che tipo di bambino era stato?
Ogni bambino rappresenta un colore: chi il rosso, chi il giallo, chi il verde, chi l’azzurro e ancora sino ad esaurire tutto lo spettro della luce. Nessuno, però, nasce grigio. Com’è diventato così quel soggetto che adesso si para dinanzi agli occhi degli altri esseri umani?

Alberto si era laureato con il massimo dei voti, aveva raggiunto il grado di professore ed esercitava anche una professione correlata al suo titolo di studio. Eppure, avrebbe potuto essere qualsiasi cosa: un avvocato, un ingegnere, un libraio, un ristoratore. Non sarebbe cambiato nulla perché l’indole che aveva sviluppato negli anni, a causa di esperienze che non ci sono date conoscere, o forse solo perché il bambino che aveva dentro è morto troppo presto, non sarebbe potuta mutare. Il grigio può essere più chiaro, può essere più scuro, ma resterà sempre grigio. Alberto aveva indossato una maschera senza espressione alcuna, in quel film che è la sua vita, avrebbe potuto benissimo essere un attrezzo di scena. I suoi studenti non riuscivano a vederlo come un docente, nel senso stretto della parola, sia chiaro. Professore era e professore restava. Eppure, non riusciva ad essere docente. Leggere dei compendi o studiare un libro sarebbe stata la stessa cosa, se non meglio. Non trasmetteva loro nulla, probabilmente perché non aveva nulla. Entrava in aula, si sedeva, raccontava la lezione ed usciva. Spiegare non era un qualcosa di sua competenza. Gli riusciva difficile dissertare l’argomento, a volte si bloccava ed iniziare a sputare parole tra di loro sconnesse mentre cercava di riprendere il filo del suo vaniloquio. Faceva discorsi confusi che portavano i suoi alunni a porre in dubbio il suo stesso titolo. Del resto, gli stessi sapevano che a volte i voti erano solamente indicativi. Se un essere amorfo come il prof. Alberto si era riuscito a laureare con il massimo dei voti, c’era speranza per tutti, dicevano.

Ma la sua vita non finiva qui. La sua vita era tornare a casa, fare la spesa, comprare il pesce o la carne. Chissà se Alberto faceva queste scelte di testa propria o lasciava che anche qui fossero altri a decidere per lui. Una volta è la vita, un’altra è tua moglie. E sua moglie, forse, avrebbe potuto esser anche una marionetta, qualcuno senza volto. Baciare Alberto era come visitare la steppa degli Urali, freddo e desolante, incapace ad amare, aveva trovato semplicemente una valida compagnia. Il problema non era lui. Era quella povera donna a cui era stato promesso sposo, finché morte non li avesse separati. Lei, probabilmente, era una vinta. C’aveva provato in tutti modi a lottare contro la corrente e, alla fine, schiacciata sullo scoglio, si era accontentata di quello che il mare le aveva portato. Non tutti riescono ad arrivare dall’altra parte, c’è chi muore prima e, a volte, soltanto dentro. Era una delle leggi del pianeta Terra: tutti sullo stesso luogo, nessuno uguale, ciascuno con il proprio inferno dentro.

E’ certo che di Alberto nessuno avrebbe sentito la mancanza il giorno della sua morte. Lui aveva accettato sin dall’inizio la parola fine. La paura era un sentimento che gli era sconosciuto, ma aver paura faceva sentir vivi, cosa che lui non si non si era mai sentito. Tuttavia, non era nemmeno morto. Ogni mattina si guardava allo specchio, indossava la giacca o la felpa di pile e andava a lavorare.

Un giorno uscendo di casa, Alberto notò che la gente sembrava non vederlo. Lui, però, ameba attenta, cercava di evitarli. Accadde poi che non riuscì ad evitarne uno, ma – chissà come mai – questi non se ne accorse: gli era letteralmente passato attraverso. Lui rappresentava la stessa vita da cui si faceva trapassare. Entrava al bar e non poteva prendere il caffè, nessuno lo vedeva o sentiva. A lavoro nessuno rispondeva al citofono. A casa, sua moglie nemmeno gli apriva la porta: bussava, bussava, ma niente da fare. Nemmeno i suoi studenti erano capaci di coglierne i movimenti.  Era diventato perfettamente invisibile. E la sua passeggiata continuò fino a quando le prime luci del mattino gli imposero di aprire gli occhi, Quando Alberto si svegliò, bevve un sorso d’acqua e si girò dall’altra parte del cuscino. “Ah, era solo un sogno”. E si riaddormentò. Non s’era nemmeno spaventato.

Chissà se qualcuno si sarebbe accorto della sua morte. Un’anima che va, una che viene. In questa giostra che è la vita, chi non lascia il segno, ma si fa segnare, è solo un’altra salma da sotterrare.

Francesco Raguni