– ktisis –
Incoraggiato dal mio Duca, disceso in fondo al pozzo che si apriva sotto di me dalla botola in piazza Duomo, assordato dal fragore del fiume Amenano che precipitava nascondendosi come al solito negli anfratti degl’inferi, mi venne incontro un’ombra agile e irruenta:
«Ingrati! Ecco cosa siete, no peggio: vi piace demolire i vostri altari, per gusto di irrisione, per non sentirvi legati in armonia con i vostri eroi, anche solo per liscìa, per non dare a vedere di troppo prendere sul serio i simboli della comunità.»
«Ma voi chi? Io manco di Catania sono…», provavo a dirgli, ma quello manco mi sentiva, mi fece una testa tanta:
Non avendo io studi classici a supporto, non garantisco la correttezza di nomi o eventi, ma ecco il racconto di quello che mi ricordo:
Non volevo neanche partire io, me ne stavo a seminare il mio sale sulla mia spiaggia, quando li vidi spuntare infervorati:
“Hai sentito, è tornata la nave da Cuma, la prima delle colonie, a occidente, oltre lo scilleccariddi, dicono che scorrano fiumi di miele e ambrosia. Ippocle è stato celebrato ecista, Megastene è invece tornato con le navi piene di olio e vino, fichi e grano: i vestitori delle navi si stanno leccando le unghie…. Dicono che hanno scelto la collina per la fondazione seguendo il volo dei colombi, e nell’approssimarsi a riva, hanno sentito un fragore di cembali… O Teocle, tocca a noi, dobbiamo partire, che facciamo qui, Skiathos, Peparethos, Ikos sono conquistate, la Beozia è ormai sottomessa, Atene non fiata, Corinto si prende la sua parte, non c’è più spazio per mercenari qui a Calcide in Eubea, dobbiamo muoverci, fondare la nostra colonia.”
“Ma che?, volete un ecista Ateniese per una colonia Calcidese? S’è visto mai? A quale pritaneo lo accendiamo il fuoco sacro, quello di Atene o di Calcide?
Fu a quel punto che Evarco Calcidese parlò:
“Teocle, tu sei il nostro duce, tu conosci le strategie e le astuzie, tu hai viaggiato per l’occidente, e ormai sei calcidese per elezione, fonderemo una colonia calcidese guidata da te, che ne sarai l’ecista, fondatore della colonia, a te sarà innalzato l’Heroon, in cima alla colonia al limitare di agorà e acropoli.
Lamis Megarese, rinforzò:
“Dice bene Evarco, andiamo a chiedere il mandato dei saggi della città metropoli, mandate per l’oracolo al tempio di Ade, cercate i vestitori delle navi, che scommettano su di noi, ne avranno il conto tornato…”
Io ero esule, mio malgrado. Teocle discendente di Eretteo, quel figlio di Vulcano, che lo generò dalla Madre Terra mentre inseguiva la vergine Atena, e che la Occhiazzurrina dea per pietà adottò; io Teocle Eretteide cacciato per delazione dopo aver salvato con uno stratagemma la città dall’occupazione dei Dori barbari, accusato di intelligenza col nemico, dovevo ora elemosinare accoglienza e sottostare ai marosi delle voglie dei miei ospiti, per sopravvivere e far sopravvivere in me l’ansia di gloria, l’audacia di scommessa…
“Attenzione miei cari compagni, noi oggi siamo mercenari e non pesa il fatto di essere una ciurma raccogliticcia fatta di qualche Acheo come me, e poi Ioni Calcidesi e Nassi, Dori Corinzi Megaresi, Cumani Eoli, e pure qualche Pelasgo per non farci mancare nulla. Ma la ktisis, fondare una colonia, è ben altra cosa. Quali altari innalzeremo? Zeus, Poseidon, Ade, Crono e i Titani? Tutti?”, li premunii.
Ma Chaironeo, cantastorie, mi prese alla sprovvista:
“Teocle, sai bene che i miti si trasfondono nei miti, con la stessa facilità con cui gli amori tra i giovani trasfondono i caratteri fisici delle genie. I Pelasgi sono contenti di avere la loro trinità femminile Afrodite-Era-Atena, diventata figlie e moglie di Zeus acheo, e i dori e gli ioni che Poseidon e Ade siano diventati i fratelli di Zeus, scommetto che troveremo indigeni anche in Trinacria, fossero pure Lestrigoni e Ciclopi, e caleremo i nostri miti nei loro, li fonderemo e ne faremo una koinè nuova e antica allo stesso tempo…”
Come contraddirlo. Avrei dovuto denunciarlo di blasfemia, al sacerdote di Ade in Calcide, ma potevo io ateniese trasfugo duce mercenario pirata, denunciare un cantastorie di blasfemia? Magari una delazione! Ma non lo feci.
E poi l’idea di fondare una città… Quando ero piccolo, mio padre mi portava in spiaggia a Glifada, e giocavamo a costruire palazzi di sabbia, e templi, e cortili attorniati da mura, e pozzi, e campi arati, e strade, e aggiungevamo edifici fino a farne una intera città, con le sue storie e le sue distruzioni e ricostruzioni. Non ho mai capito se giocava con me o si faceva scudo di me per giocare. Lui mi diceva che sembravo un fondatore di città, e questo mi piaceva…
La cosa doveva essere già sufficientemente preparata, ché nel giro di qualche sole, navi, equipaggio e provviste erano pronte. Fuoco di Hestia acceso al pritaneo di Calcide preparato per il viaggio nella ferula sacra, favorevoli auspici tratti dal sacerdote di Ade nelle viscere fumanti del bue, il cui sangue aveva fatto bere alla terra fin nelle fauci del Dio delle profondità, che qui a Calcide gli Ioni reputavano padrone del mondo più di Zeus.
Moro di Chaironea cantastorie e agrimensore, geometra si faceva presuntuosamente chiamare, da ragazzo aveva fatto persino studi sacerdotali: tre uomini d’equipaggio in uno. Poco ci mancò che lo buttassero alle fere-sirene, nella traversata, per non sentirlo ripetere rapsode le gesta di Ulisse: “Così ti fai raccontare da loro come prospereremo e poi ce lo vieni a cantare…
Io Teocle, per me, mi ero riproposto di vedere, trovare, provare a edificare in qualche posto, un altare ad Atena, una nuova Atene, un Altra Atene, Aka Athina, magari dopo aver accontentato i Calcidesi, per trovare pace, un riparo dalla tempesta, una nuova patria, se non fosse ossimoro patria nuova.
Poco ci mancò morissimo di sete, durante la traversata del canale di Odrantus, per una bonaccia che ci tenne inchiodati alla tavola d’acqua per dieci giorni, quando poi giungemmo allo scillaecariddi una tempesta improvvisa annunciata da terribili fere nuvolianti e canterine, ci impedì di traversare il canale come ci aveva consigliato Megastene, e ci riparammo invece a sud, su di una baia sabbiosa rinchiusa tra due promontori. Vedemmo i colombi posarsi sul promontorio a sud, oltre il quale un fiume tumultuoso portava freschissima acqua giù dal monte Etna, fucina di Vulcano, antro di Ciclopi e Lestrigoni. Proposi di fondare lì la colonia, di non provocare oltre le Moire, ma Evasto insisteva per ripartire, varcare lo scillaecariddi e conquistare l’oltremondo, per fortuna i compagni erano stanchi e fu deciso di riposare qualche tempo in quel luogo Per lo scampato pericolo fu subito innalzato un altare a Apollo Archegetes, visto che, come la freccia di un arco, ci aveva saettato in quel posto.
Invece prosperammo in qual luogo magico, tracciammo il solco delle mura, dividemmo parte pubblica dalla privata, poi, nella pubblica, quella sacra da quella politica, e cominciarono subito a costruire ripari, sale comuni, templi. Riaccendemmo il fuoco dalla ferula fumante accesa a Calcide, sull’altare appena eretto a Hestia, sacrificammo dei conigli cacciati a colpi di pietra, e ne bruciammo pelli e ossa e mangiammo il resto, grazie Prometeo per l’inganno che facesti a Zeus!, e fui proclamato Ecista della citta cui demmo il nome di Nasso, come l’isoletta delle Cicladi di fronte a Calcide. Gli abitanti indigeni, arroccati sul monte a forma di Toro, soprastante la baia, S’cul chiamavano se stessi nella loro barbarica lingua piena di vocali chiuse, se pur incolti e barbari, non erano poi così ostili né violenti e avevano tutt’e due gli occhi, anche le ragazze, e che occhi!, tanto che arrangiammo sin da subito un proficuo scambio di pesce e formaggi, vini, olii, e altri umori e amori.
E poi i primi tempi senza moneta, senza ricchezza, solo sudore e fame da sfamare, e vita da sopravvivere… la speranza ci prestava la forza, la gratitudine era la moneta corrente, il gratuito la norma, tutti facevano quello che sapevano e tutti ricevevano quello di cui abbisognavano.
Tirammo a sorte il nome della colonia e la sorte scelse Nasso, Lamis e i dori megaresi ripresero il mare con la loro nave decisi a fondare un’atra colonia ‘veramente’ dorica. I calcidesi, che erano i più, mugugnarono e Evarco disse loro: “Ci rifaremo!”
Giovane e ambizioso, Evarco era scontento, per poco non mi mise contro la colonia, gli stava stretto il ruolo di colono, di contadino, pescatore e mercante. Voleva conquiste, altre conquiste, nel corso dei viaggi per commerciare con la metropoli Calcide aveva raccolto altri ad-vestimenti, con l’intento di fondare delle subcolonie. Ma come? Avevamo appena finito le mura e cominciavamo appena a trarre i frutti del nostro sforzo…
Nel frattempo giungevano notizie di Dori Corinzi, al seguito di Archia Eraclide, erano approdati a sud in Trinacria, e vi avevano fondato una fiorente colonia chiamata Aretusa. Avevamo anche avuta già qualche scaramuccia nella piana tra il monte Etna e i Monti Arenari verso Aretusa.
“Teocle, dobbiamo fondare una subcolonia a protezione della Piana”, disse Evarco, “sbaraglieremo Aretusani, Troilesi e Siculi e poi…
Risposi: “Piano con la guerra, che siamo in pochi e preziosi e non voglio perdere uomini. Ho già preso contatti con Lamis e i Dori Megaresi, scacciati dalla loro colonia Trotilo proprio dagli Aretusani, potremmo insieme prendere il colle del Moro, abitato da Siculi, governando insieme e tenendo testa agli Aretusani”
“Ma la gloria…”
“…la racconteranno i rapsodi a loro tempo, che ne dici mio buon Chaironea…”
Raggiungere la piana, dalla terraferma, non era proprio agevole, d’altronde via mare gli aretusei s’erano fatti pericolosi… Appena dopo i Faraglioni del Ciclope e il porto di Ulisse, vi era un grattugia di lava, in prossimità di un porticciolo ch’era un catino, dove un fiumiciattolo d’acque fresche, faceva a nascondino. Poi la piana mefitica di malaria, con quel capriccioso del fiume Symaetus che cambiava in continuazione i suo corso allagando le paludi. Una di queste ribolliva moffette, era il luogo di culto dei Fratelli Pii dai Siculi; su consiglio di Chaironea sovrapponemmo immediatamente il culto dei Palici, Castore e Polluce. Più a sud era un biviere acquitrinoso con soprastante un monte a forma di leone dove abitavano degli agricoltori Siculi pacifici e lavoratori, con cui non faticai a mettermi d’accordo, la notte prima dell’attacco.
Entrammo in Leontinoi, a spron battuto ma senza spargere una goccia di sangue, Evarco voleva prendersi il bottino di guerra col saccheggio e le violenze.
“Evarco – gli dissi – sei entrato da vincitore in questo luogo, i Siculi ti porgono le armi, noi siamo in pochi, come facciamo a infondere la necessaria linfa vitale a questa colonia, lascia che il Siculi restino a vivere in città e prospereremo insieme?”
“L’astuto Teocle ha parlato e Evarco si inchina, ancora una volta,” masticò amaro.
Mi ero appena ritirato in Nasso a mettere a tacere certe scaramucce con i Siculi del monte Tauro, che mi arriva la notizia dal cantastorie Chaironea:
“Al quadro numero uno, Evarco si mette daccordo con Lamis e con i megaresi per scalzare i Siculi da Leontinoi e prendere le loro terre. Al quadro numero due, per non far arrabbiare il duca Teocle, Evarco ha ideato uno stratagemma: aprirà di notte a Lamis le porte della città e lascerà ai Megaresi il compito di cacciare in Siculi…”
Ma che mi combina Evarco! Dovevamo mantenere i rapporti buoni con i Siculi e lui…Mi rimisi in mare per raggiungere Leontinoi, che per terra è davvero impossibile. Arrivati in città, Lamis e i megaresi avevano preso il controllo e i Siculi erano neri di rabbia, oltre che di abbronzatura, e agguerriti seppur disarmati.
Usai un contro-stratagemma: proclamai i festeggiamenti per la vittoria, ché non si va armati alle feste, e quando i Megaresi arrivarono disarmati, feci emettere un proclama che li obbligava a lasciare la città. Così dovettero scappare dalla città senz’armi, ma pregai i Siculi di non perseguitarli. Si rifugiarono nella penisola di Tapsos, facile da difendere, col suo istmo sottile e le coste alte e frastagliate. Dovetti mettere io pace tra Siculi e Megaresi, pregando re Hyblone di concedere loro un po’ di terra, il promontorio in faccia a Tapsos, posto splendido e salubre, dove costruirono una colonia Siculo-Megarese, che chiamarono Megara Hyblea.
Nel frattempo Evarco era riparato a Nasso e incitava gli Ioni Calcidesi contro di me.
“Al quadro numero undici – mi raccontava quel pettegolo di Chaironea – Evarco rivolterà contro Teocle i Nassi Calcidesi suoi compagni”
Dovetti ancora una volta trovare uno stratagemma (quadro numero dodici?): offrii a Evarco la guida della colonia di Nasso, mentre io sarei andato a fondare una subcolonia in quel posto tra la grattugia e il catino d’acqua, dove c’era un ameno fiume che giocava a nascondino, detto Amenano, e un lago dove fioriva l’Anice, e perciò detto dell’aniceto, e in mezzo una collina dove ebbi la visione di una fanciulla, una vergine, presso un ulivo, che mi sembrò – e non sono un credulone – mi parve proprio Atena.
In quel posto io Teocle volevo finalmente fondare la mia Altra Atene, Kai Athina, o Kata Aitna come preferirono i compagni non Achei, o A’H’T’N’ figlia di Aton, l’elefantina, come la chiamavano i Siculi Fenici Egizii le cui capanne segnavano le pendici del monte della vergine verso il mare. Finalmete la mia ktisis.
******
L’avevo vista, la vergine, la fanciulla, mentre appoggiata ad un contorto e cavo ulivo, guardava l’azzurro mare, coi sui non meno azzurri occhi, e debbo confessare che pensieri ludibri mi turbinarono tra i capelli. Tornavo dalla battaglia di stratagemmi di Leonzio, stanco e un po’ afflitto, dal peso della Polis, di questa tela di Penelope, di questo masso di Sisifo, che è la ricerca dell’armonia nel popolo tumultuoso, ero un po’ in arretrato di dolci consessi, e la primavera in questi luoghi può essere atroce…
Quando mi appalesai tuttavia, mi resi subito conto che la fanciulla non era, a dispetto della dolcezza della postura e della profondità celestiale degli occhi, né arrendevole né digiuna di arti marziali. D’altro canto io, Teocle, duca fondatore di città avevo sempre preferito, in amore e in guerra, il modo di negozio, e non ero incline ad abusare di forza. Fatto sta che appena mi risolvetti titubante a aprir negozio, la fanciulla, con gesto soave e potente allo stesso tempo, caricò della tensione del suo corpo affusolato il suo bastone, che notai nodoso appena prima di sentirlo sulla mia gota, subito sanguinante e tumefatta. Il tempo di riavermi e la fanciulla era già scomparsa, alla vista o tra le frasche poco importa.
Mi soccorse il buon infido Chaironea, che aveva sentito il trambusto, il quale, non senza una nota ludica nel suo parlare, mi declamò, rapsodo, il tentativo vano di Efesto nell’aggredire la sorella Atena, che se ne liberava con destrezza, lasciato il povero Efesto fecondare la madre terra e generare Eretteo mio antenato. Quando gli dissi che conoscevo a memoria la storia, partì a cantarmene un’altra che raccontava di un certo Crl il Martlet che tornava dalla battaglia di Pwtj, mito che non conoscevo ancora.
Quando udii il canto della civetta provenire dall’ulivo della vergine, la pelle si atteggiò a quella dei capponi che faceva mia nonna, riconobbi, d’accordo con il mio contastorie sacerdote agrimensore, che quello sarebbe stato un luogo ideale per fondare una città: promontorio, acque fresche ed abbondanti, un catino di porto per le navi, grattugia di lava per difendersi, premonizioni…
Così, quando lasciai a Evarco il comando di Nasso e mi risolvetti alla fondazione di un nuova colonia fu su quella collina che andai, con gli uomini più fidati e il mio agrimensore, sedicente geometra, quasi sacerdote, provvisto di filo, piombo e regolo del tre-quattro-e-cinque, per tracciare rette, angoli altrettanto retti e altre rettitudini, sul declivio del monte da quel momento chiamato Vergine, verso il mare, verso oriente. Buoi e aratro tracciarono i solchi. Regolammo, con perizia e preveggenza degna di Prometeo, il piano delle costruzioni, separando la pubblica parte dalla privata, la sacra dalla politica. Pensai a quante volte si sarebbe tornato sul piano di regolazione delle costruzioni nei secoli futuri; Chaironea, il solito malpensante, mi disse pre-vedeva, più per conoscenza del demos che per magia, prevedeva lunghi lustri di incapacità di tracciare, regolare, pre-ordinare, in questa città. Non volli credergli.
In cima alla collina, innalzammo un ara a Hestia dove accendemmo il fuoco sacro dalla ferula accesa a Nasso, lì celebrammo la cerimonia di ktisis dove fui proclamato Ecista, e demmo il nome, col potere che ci proveniva da Mnemosine creatrice dei nomi, col potere che il nome dà a chi nomina sull’oggetto nominato, finalmente demmo il nome a me caro, che avevo in serbo fina dalla cacciata in esilio da Atene, forse anche da quando costruivo colonie di sabbia a Glifada con mio padre, il nome di una nuova patria, in barba all’ossimoro, da dedicare alla fanciulla saggia e guerriera che avevo visto, o di cui avevo avuto la visione, sul monte dove ci trovavamo, Catino come il porto naturale che vi si trovava, grattugia come le lave che la attorniavano, presso l’Etna, Kata Aitna, nuova Atene, una altra Atene, anche Atene, Kai Athina, Kathina.
Cominciammo l’età dell’oro della colonia, ricerca della fanciulle da marito nei tuguri vicini, fuiute, in parte con una qualche dose di compiacenza delle stesse, ché i marinai greci erano per lo più proprio dei bei giovanotti, dei Kouros appena scolpiti. E poi erano proprio dei buoni partiti, questi marinai greci, con le loro capacità mercantili sconosciute ai locali: le stoffe, i gioielli, il vasellame, cha arrivava in abbondanza in cambio di grano, vino e olio, dalla metropoli.
Pian piano sorsero altri altari: ai Palìci, a Persefone, ad Afrodite, a Bacco, e a Giove lungo le pendici del monte della Vergine. E attorno agli altari edicole, e templi, in legno, mattoni, e fregi fissili. Io stesso volli innalzare l’altare a Atena, cui parteciparono innumerevoli i siculi locali, rinvenendoci il necessario dei loro riti, complice l’affabulatore Chaironea, abile ad intrecciare i nostri miti alle loro storie.
Una processione infinita fece il giro delle mura, la seconda luna dopo il solstizio d’inverno, portando un simulacro locale, di fattura fenicia egizia, forse legato a Iside figlia di Aton, abbellito di gioielli elleni, trasportata a braccia su di una portantina a forma di nave, fatta dai nostri mastri d’ascia, tutti vestiti di bianco con turbante nero, molti con ceppi di pino accesi, nel buio della notte, a fare tremolare la statua e i fiori che l’addobbavano, ed era emozionante sentirgli rispondere in coro unanime «E’ certo!» all’esortazione: «Siete tutti devoti alla ktisis?», mentre si flagellavano penitenti.
Mi ricordavano le processioni da Eleusi, quando giungevano alla Porta Santa del Ceramico, accingendosi a salire verso l’Acropoli… o mia patria perduta… che avrei presto ritrovato, me malgrado.
Infatti quell’irrequieto di Evarco, sempre pronto a prendere le navi per commerciare con la metropoli aveva tramato con i miei compatrioti nemici politici, ad Atene, procurando di farmi richiamare in patria, apparando la trappola in cui non riuscii a non cadere:
«Grande condottiero Teocle, fondatore di città e stratega eccelso, veniamo a te col capo cosparso di cenere, per il torto che ti fu fatto, esiliandoti da Atene nostra Patria, per il sospetto ormai svanito di accordo con gli allora nemici dori. Oggi li sappiamo per buoni alleati, e ci è palese lo stratagemma di pace che facesti, volto a ridurre morti e distruzioni, e non a tramare col nemico contro la patria. Mai più di questo ora, la Patria richiede i tuoi alti servigi, contro i nemici Corinti che insediano il posto preminente che la città di Atena merita tra gli achei. »
Potevo rifiutarmi? Mi dispiaceva alquanto lasciare la colonia di Katina che prosperava visibilmente, in giustizia e abbondanza, che già le abitazioni si estendevano ben oltre il solco sacro, giù verso la foce di Amenano, porto-catino, da cui salpai con la mia nave in lacrime, di gioia per la vecchia patria che ritrovavo, di dolore per la nuova, che non avrei più rivisto.
Trovai la mia Atene in preda agli scontri politici più stupidi, quelli che distruggono molto più di quando fanno guadagnare: vite, ricchezze, fiducia. Mi buttai a capofitto nella risoluzione delle diatribe per trovarmi preso avvinghiato, ingarbugliato, incapace di trovare il bandolo, incapace, novello Penelope, di ricamare più che di disfare il ricamo. Assaggiai persino il carcere e ancora l’esilio. Relegavo nel fondo del mio animo, il pensiero per Katina, per l’apparizione della vergine… Decisamente, non c’è nulla di peggio della lontananza per rinfocolare un amore.
Quale stupore quando mi trovai di fronte il buon rapsodo-sacerdote Chaironea, di ritorno dalle colonie, raccontarmi, tra tragico e buffonesco:
– Non puoi immaginare cosa si dice di te a Katina, mio caro Teocle… Evarco, cacciato da Nasso per contrasti con i locali del monte Tauro e riparato a Katina, ha fatto in modo che non si riesca a trovare il simulacro della Atena-H’A’T’N’, e non riesce, poverino, a fermare le voci, chissà messe in giro da chi, che raccontano di aver visto Teocle caricare il simulacro dal caricatoio Achilleo e portarselo ad Atene. Spinto da sogno premonitore, dice di aver organizzato una spedizione per recuperare i resti del simulacro, che difatti è stato rinvenuto e riportato miracolosamente a Katina, con tanto di festeggiamenti e furore di popolo, che per l’occasione, il popolo ha deciso di tributargli il titolo di Ecista, non meritandolo quel Teocle ladro di santi, anzi Tucle nel dialetto pieno di vocali chiuse dei luoghi, riscolpendo addirittura la scritta sull’Heroon.
E pensare che non era manco d’accordo sul culto di Atena, e adesso… Ma anche lui sarà dimenticato, come usurpatore (che gli conviene) e come Ecista (anche pure il significato!): da quel momento la città ha partorito e presto consumato i suoi miti, come Urano i sui figli, risultando città di imprese e di dissipazione, di slanci e sotterfugi, di risurrezioni e liscìa…
*****
– Ma perché mi racconta queste cose, a me, che non sono allettrato, che non sono manco di Catania?» provai a dire, in un attimo di riposo di quel fiume in piena ch’era stato lo sfogo della figura che avevo dinnanzi, «e poi chi se ne importa più di queste scerre antiche, lo dite voi stesso: tutto dimenticato, oggi tutto è veloce e lieve, nessuna voglia di scavare, di sudare, di scoprire…»
– Perché voi siete un contastorie, mio buon Chaironea, avete attraversato i secoli, magari avete bevuto al fiume dell’immortalità, come dicono fece Omero, e ora avete l’onere di scavare, sudare, scoprire…»
– Ma… io… veramente… tengo famiglia… non è che posso dondoliarmi con queste amenità? E poi che c’entro io con il vostro Chaironea? Mi pare che sbagliaste persona…» e dallo stress, caddi come corpo morto cade.
Maurizio Cairone