Salva con nome
di Antonella Anedda (Mondadori)
La poesia di Antonella Anedda sembra rallentare le cose. L’andatura orizzontale del verso, distesa, affine alla prosa, è quella di chi vuole dilatare il paesaggio mnemonico. Una pianura che lascia scrutare e ripensare la prospettiva (con la mano del poeta che incide memoriali visivi – le foto e i versi all’interno del nuovo libro sono emblemi di storie private e universali -), e la tentazione dell’autrice di cancellarla mentre la mostra. Se “l’arte è una questione di luce” (Sergio Givone), questa nuova raccolta, Salva con nome, è attraversata da svariate luci-punti di vista, colorazioni stinte di un tempo-mondo materiale violento per natura, attutito nella sua forza d’impatto emotivo psichico da una scrittura nutrita di silenzi lunghi, ruminazioni pacifiche (non pacificate), una religiosità laica sine deus, destituita di speranza e animata da una specie di gioia assurda e calma, d’esistere. Certo c’è una devozione vera, quella alla poesia e alla bellezza, non riducibile, né comprensibile (“e tutta la bellezza incomprensibile che ci ostiniamo a raccontare”, pag.114), che convive con quel desiderio iconoclasta di dissoluzione dell’identità e del passato, il nome, “la prima prova che siamo in balia degli altri”, la memoria, che precipita nella stufa (pag.17), alla quale gli esseri umani si aggrappano come al corrimano di una nave durante un naufragio. Mondi inferi e voci di un coro (vedi la sezione Fuochi), che pare prendere parola dal regno dei morti solo per un brevissimo lasso di tempo, come le mummie leopardiane: “Siamo mortali, mortalmente spaventati / tremiamo come volpi e cani / diventando la muta di noi stessi. / Basta un sogno sbagliato / e la luce rode dove non c’è riparo […] Il vento sa d’immondizia, ma è una tregua. / Lo stesso vento nella bellezza è una rovina. / La saggezza ci confonde come cera”.
Il tremore, la paura, attraversano molti dei testi presenti, la paura restituisce all’uomo quell’idea di futuro che non riesce quasi più a immaginare senza tetraggine, segnato da lutti o malattie e la sapienza non soccorre: “Lo spirito – dice Eckhart – è una montagna di piombo incurante del vento leggero. Amo quel vento. Non sono quella montagna.”. Il vento ricorre, sarà il mascheramento dell’anima visto che la radice greca della parola anima comprende sia il significato di “soffio” che di “vento” appunto? (“prova a dire il soffio delle cose”, pag.100, o, a pag.21, nella sezione Pneumologia, “il cuore soffiato dal vento nei polmoni”). La Anedda osserva tutto con gli occhi di chi ha la consuetudine con l’arte e il dettaglio (La vita dei dettagli, edito da Donzelli è il libro saggio che precede questo, composto da descrizioni d’opere e visioni poetiche, pittoriche), ma non dà nulla per scontato: “Non è scontato il passo col respiro”. Se c’è un’indignazione in questa poesia, potremmo dirla metafisica, una rivolta contro “la forma di ogni separazione” (cfr. la perturbante Spettri, pag.13, e le poesie Malas mutas e Acquedotto, dove tornano in mente scene di decadenza imperiale culminate, ad esempio, nell’orribile fine spettata a Eliogabalo). Descrizioni che diventano visioni, quadri (Cucina 2005 o, a pag.15, questi versi: “Il traghetto vira. Solo l’onda / dopo il taglio, rimargina la scia”), “coaguli di cose”, “Cose che si colgono con la coda dell’occhio”, tutte dettate dal dominio incontrastato della luce, pregnante leitmotiv dell’intera partitura poetica, che in questo libro assume innumerevoli valenze e sfumature semantiche (“Se la luce salta / si spegne la cascata”, scriverà l’autrice raffigurandoci un dipinto della madre). Dialoghi, pezzi di immagini, memorie, soliloqui evanescenti (come quello tra il poeta e un suo “doppio” a pag.67) che chiedono, per conto della Anedda, la nudità assoluta (cfr. Spazio dell’invecchiare), la riconciliazione definitiva di un tempo ultimo, quando, un giorno, forse, “l’unica corrispondenza sarà l’aria”.