Al momento stai visualizzando Il pozzo

«Ecco qua. Questa è la casa. Proprio quella di cui la signora dell’agenzia le ha parlato…»; me lo diceva con un gesto della mano che sembrava accarezzare tutto ciò che la vista poteva abbracciare nello spettacolo, per lei meraviglioso, di una vecchia casa che, ricevuta in eredità (così mi aveva spiegato) come più un rudere che altro, adesso lei poteva sventolarla come un gioiellino davanti alla felicità di un signore cittadino che si voleva godere – gente strana questi di città – un mesetto all’incirca di requie e di riposo nascosto nelle profondità della provincia granda.
«Oh, già. Proprio così intendevo io»; nella noncuranza della risposta io volevo nascondere il batticuore, e la felicità, della scoperta. Quando nella vetrina dell’agenzia immobiliare di *** io avevo visto che si affittava (per minimo due settimane) una vecchia casa ristrutturata nel centro storico di ***, ero entrato immediatamente a chiedere informazioni con la speranza (diciamo meglio, con la fiducia) che fosse proprio quella casa che, fin da ragazzino, io avevo sempre desiderato di poter quantomeno vedere nel suo interno, dato che pensare di poterne essere io il proprietario era una questione che non poteva darsi, così allora pensavo io, neanche se fossi stato il padrone del mondo…
«Guardi che il prezzo è davvero onesto. Una casa così non la troverebbe neanche a girare in lungo e in largo tutti i dintorni. E poi è anche compreso il servizio di pulizia e il cambio della biancheria e, si capisce, tutte le altre spese. Lei deve, in definitiva, preoccuparsi solamente di provvedere al mangiare».
La voce della padrona di casa continuava a solleticarmi le orecchie mentre mi riempivo il cuore di quella immagine: una casa come quelle che si vedono nelle pubblicità della Provenza o della Toscana; ma, accidenti, nel cuore del Piemonte, nelle viscere della provincia Granda, nel mezzo del paese dei miei sogni infantili, degli anni delle illusioni e delle fantasticherie…
I due ingressi: quello più antico dalla strada inferiore e quello più recente da quella superiore; il piccolo cortile interno, con il pozzo, la palma, l’edera sui muri, i gerani nei vasi…
«E qui… non ero ancora riuscita a farle vedere… la cantina… e di qui, invece, la stanza che… il posto… dove… insomma, un’altra stanza». E chi s’è visto s’è visto; ha tirato dritto, senza neanche accorgersi che io mi ero fermato accanto al pozzo a ricordarmi del cigolio della catena, dello scuotersi del secchiello, del gemere della carrucola, insomma a immaginarmi l’effetto che quel cortile, e quel pozzo soprattutto, dovevano fare quando erano vivi, trent’anni, quarant’anni prima o ancora di più. Che confini mettere alla fantasia?

«Sì. Avevamo deciso di provare ad affittare la casa quando sembrava che ci fosse una rinascita del paese grazie al turismo intellettuale, impegnato… intelligente, come si diceva allora; il turismo che avrebbe di nuovo dato respiro all’economia di questi paraggi ormai più morti che vivi. Poi, tutti i progetti turistici sono passati, come si dice, in cavalleria e noi sempre al piano terra. Fortuna che la padrona dell’agenzia era stata compagna di scuola di mia figlia e così ha continuato a tenermi l’avviso in vetrina senza neanche farmi pagare… e così lei ha avuto modo di…»
«Già. Proprio. Ma lei, signora, ha parlato di una sua figlia, che adesso…»
«Mia figlia se n’è andata via per conto suo, e non ritorna più al suo paese». Il tono della risposta era di quelli che non si ha più il coraggio neanche di respirare.
«Piuttosto… adesso, se vuole, vediamo di aggiustarci su tutto».
Nel giro di neppure un’ora ci siamo accordati su tutto, e così me ne sono tornato a Torino con la gioia che alla fine del mese (mancava solo una diecina di giorni) sarei ritornato in quella casa per fermarmi, quasi da padrone, tre settimane, con la scusa (che poi non lo era neanche tanto, una scusa) che dovevo dare l’ultima scorsa a un libro che stavo scrivendo sui rapporti tra le eresie trinitarie all’interno dell’impero bizantino e gli ordini monastico-cavallereschi dei tempi delle crociate.

Affinché nessuno mi rompesse le tasche più di quanto fosse necessario, me ne arrivai di notte, più o meno alle undici, con l’ultimo treno e mi gettai nella casa con una sensazione di soddisfazione e di pace che erano parecchi mesi (per non dire anni) che non provavo più. Solamente a mio fratello avevo detto dove andavo, ma chiedendogli il grande piacere di non disturbarmi per nessuna ragione al mondo. Senza telefono e col cellulare con me ma spento, senza contatti con gli amici o con gli allievi o i colleghi: tre settimane di paradiso, solo col mio lavoro, i miei pensieri, i miei ricordi, i miei sogni. Tutto bello, tutto perfetto, tutto a posto, peccato però che nel mezzo della notte mi svegliai di soprassalto per lo scricchiolare della catena del pozzo o, almeno, credo che fosse quello. Un rumore inizialmente molle, esile, tranquillo, poi sempre più forte, luccicante, rintronante fino al punto che mi ha tagliato a metà la coscienza e mi si è piantato nel mezzo del cervello come una figura quasi umana: una figura d’uomo, grande, alto, vestito di un’armatura, come un cavaliere, che faceva gemere una spada su di un’incudine. Ed io mi svegliai, mi accorsi di dove mi trovavo, mi alzai a guardare fuori: dalla finestra della stanza da letto si dominava il cortile piccolo; un soffio di vento faceva muovere le foglie, unico rumore della notte, insieme ai cani delle cascine sulle colline. Il vento, la carrucola, la catena, lo scricchiolio… niente di niente: buona notte.
Per quanto io sia arrivato di notte, ed abbia cercato di passare inosservato, di far capire che non volevo né disturbare né (soprattutto) essere disturbato, la mattina successiva, saranno state forse le nove, una scampanellata mi ha bloccato mentre stavo andando a sedermi nel cortile a leggere un libro che avevo preso in biblioteca e che mi serviva appunto per completare il mio lavoro.
«La padrona di casa non sarà stata nella pelle di spargere la notizia di averla affittata; e tutto il perché e il per come di chi sono e di che cosa faccio e… (fortuna che non mi sono lasciato andare a raccontarle del mio passato e dei miei ricordi legati a questo paese e a questa casa, altrimenti…)», andando ad aprire la porta borbottavo tra di me, ma smisi vedendo davanti a me un prete, giovane, dall’aria sveglia, con un clergyman blu e un lobbia bianco in testa.
«Salve, dottore, sono il parroco del paese. Mi scusi se mi permetto, ma da quando la signora mi ha detto di lei! Ieri sera ho visto le luci accese ma non ho osato. Ma stamattina, per prima cosa, ho voluto…»
«Grazie di essersi disturbato, ma adesso avrei un impegno di lavoro e…»
«Non vorrà dirmi che per i suoi studi vuole appoggiarsi all’archivio capitolare mentre la nostra parrocchia ha un archivio di prim’ordine».
«No, no, mi scusi, ma io volevo dire che….»
«Lo sa, dottore, che la nostra parrocchia conserva l’antico archivio dell’ordine dei cavalieri di Edessa, gli edessiti, quei monaci-cavalieri che, dopo essere stati mandati via dalla Terra Santa, si sono riparati qui da noi e poi la nostra chiesa ha ereditato i loro archivi, quando l’ordine è stato soppresso e il Vescovo di allora diede proprio alla nostra parrocchia che, per quanto piccola, è una delle più antiche di tutta la diocesi, il privilegio di conservarne l’archivio. Vedrà, dottore, vedrà che tesori che salteranno fuori».
«Non ne dubito, ma adesso, veramente, devo prepararmi per uscire. Grazie dell’informazione: non mancherò di approfittarne e piacere della conoscenza».
«Sicuro, sicuro. Scusi ancora. Arrivederci e la aspetto. Venga a trovarmi quando vuole: nel pomeriggio ci sono pressoché sempre, dopo cena sempre. Di nuovo».
Ce l’ho fatta a chiudergli la porta in faccia senza fare troppo la figura del maleducato. La signora mi ha già fatto la piazza in tutto il paese, se va bene, e questi quattro buzzurri si stanno già precipitando a fare pubblicità alle loro glorie locali. Fortuna che speravo di stare tranquillo.
Anche con la rabbia in corpo ho preso il mio libro e me ne sono andato in cortile a leggere.
Lo splendore del verde dell’edera, quel verde, scuro quel tanto che basta a darti la sensazione di uno stordimento che ti getta nel mezzo della tenerezza di un abbraccio che ti prende e ti culla, appena toccato dal rosso dei gerani che dal balcone e dai vasi sistemati in terra ti guardano con il loro profumo di ragazza selvaggia… un’altra scampanellata e io vado ad aprire con una stizza che la metà basterebbe.
«Buongiorno, signore, sono qui per la pulizia e per bagnare i fiori e cambiare la biancheria…» Mi ero completamente dimenticato del fatto che la padrona me l’aveva detto che verso le dieci tutte le mattine sarebbe venuta la signora delle pulizie.
Lasciata la signora alle sue faccende, mi sono di nuovo sistemato sulla sedia sdraio vicino al pozzo a leggere il mio libro. Mah. I cavalieri edessiti… chi li ha mai sentiti? Davvero che se non è vera è ben inventata. Benché siano ormai parecchi anni che mi interesso di questi studi io non li ho mai… un cigolio della catena, uguale a quello di questa notte passata mi risveglia da questi pensieri strampalati. Non c’è vento, neanche un soffio; eppure il cigolio era chiaro, evidente. Mi alzo e mi avvicino al pozzo, la catena è ferma, il primo istinto che mi viene è quello di guardare dentro al pozzo, desiderio di anni andati, di ricordi infantili, quando un pozzo poteva essere l’entrata per un mondo incantato. I muri coperti di muffa, l’oscurità dell’acqua laggiù laggiù lontano, il muoversi del riflesso del sole sul piano liscio dell’acqua ferma e sempre uguale, non fosse dell’ingarbugliarsi di quel raggio luccicante che sembra perfino far innalzare la superficie dell’acqua. Presa una ghiaia dal selciato del cortile e gettatala giù dritta, giù giù fino all’acqua in basso: scroscio, ribollire, gorgogliare e… strano, mi sembra che si alzi dal fondo del pozzo e che mi arrivi alle orecchie una sorta di mormorio, come se centinaia e centinaia di voci parlassero tutte insieme col sottofondo di una musica affascinante ma sempre identica, un motivo orientale, arabo o piuttosto greco, chissà… devo togliermi dall’orlo, poiché il brillare dell’acqua e questo bisbigliare magico rischiano di darmi un capogiro e poi. Eh, no! Di nuovo il campanello! Meno male che sono venuto qui per stare tranquillo, ma adesso mi sentono, chiunque sia.
«Buongiorno, dottore, sono passata a vedere se va tutto bene». Col suo sorriso più bello e più professionale intravedo dallo spioncino la biffa della signora dell’agenzia immobiliare, che si getta immediatamente dentro e poi verso il cortile, senza aspettare che io, aperta completamente la porta, la inviti a entrare.
«La padrona di casa è una mia cara amica e così mi ha chiesto, visto che lei ne ha approfittato per andare due settimane al mare da sua sorella, mi ha chiesto se, a volte, avessi tempo per passare a vedere se va tutto bene».
«Grazie. Molto gentile. Va tutto bene. È già perfino arrivata la signora delle pulizie e, ancora prima, il parroco»
«Ah, sì. Don Chiaffredo».
«… ed io avevo da lavorare su di un libro…»
«… ma io vado via immediatamente. A proposito, abbia pazienza, ma non si è ancora trovata la chiave… di quella… della… della stanza che…»
«Di quale stanza vuole dire? quella che dà sul cortile, a piano terra?» Mi ero ricordato di come, mentre mi faceva visitare la casa, la padrona fosse stravolta parlandomi di quella stanza.
«Sì. È chiusa a chiave e la padrona, per quanto abbia fatto, non ha ancora trovato la chiave. Sa, è la stanza di Gina…» aggiunse, abbassando progressivamente la voce fino al punto che il nome lo bisbigliò solamente.
«Ah, la figlia della signora, quella che è andata via, per conto suo, immagino…» Volevo farle capire che conoscevo la storia, di modo che non me la raccontasse di nuovo, e soprattutto si togliesse dalle scatole.
«Così la racconta sua madre, povera donna. In effetti Gina è morta cinque anni fa… e ne aveva solamente venti… cosa vuole, il destino».
«Proprio così: nessuno si salva dal suo destino». Non sapevo più cosa dire, se non spingerla via, ma non osavo.
«E sua madre che non vuole farsene una ragione, e preferisce pensare che sia andata fuori di casa. Così un giorno o l’altro potrebbe tornare».
La faccenda sembrava avviarsi per una strada piuttosto lunga, quando, all’improvviso, senza nessuna premessa:
«Bene, se tutto è a posto, mi scusi e buongiorno, dottore». E prende la porta, senza niente altro, lasciandomi lì perplesso.
Proprio una con le rotelle poco a posto mi dovevo trovare io, come padrona di casa. Neanche se avessi avuto attaccata una specie di calamita per attirarmi tutti i più strampalati. Per quanto… per quanto, il prezzo che mi aveva chiesto fosse più che onesto. La casa poi è bella (senza contare inoltre ciò che rappresenta per me); il posto, il cortile, il pozzo, le stanze, quella stanza… un brivido di ribrezzo: è passata magna Catlin-a avrebbe detto mia nonna. In definitiva: lasciamo pure che i matti facciano i matti, basta solo che mi lascino vivere. E con questo io chiudo la questione.
Con tutta questa bella sfilata di visite (anche se la signora delle pulizie in un’oretta aveva finito tutto il suo lavoro) non avevo concluso nulla e la mattinata era già bell’e andata. Ora di pranzo, un riposino, una passeggiata nei boschi (fuori tiro dagli occhi dei paesani, che già così avevano sicuramente buoni argomenti di conversazione su di me) e poi un paio d’ore di lavoro intensissimo, tanto per stimolarmi l’appetito per la cena.

Buona lo era davvero, quella frittata di erbette che mi ero preparata per cena, a tal punto che l’avevo mangiata con gli occhi prima ancora che con la bocca. Tuttavia una vocina dentro di me me lo aveva sussurrato di non mangiarla tutta, ma – d’altra parte – quanto tempo era che non ne mangiavo un’altra così? e allora, diamoci dentro.
E così, ecco che la pago quant’è giusto ed è l’una di notte e sono ancora qui che passeggio: divano – letto – poltrona – divano/stanza da letto – cucina – bagno – stanza da letto. Non è che stia proprio malissimo, ma neppure bene e, accidenti, sono sì sveglio ma non ce faccio né a leggere né a scrivere e così, insomma, si spreca solo tempo… la catena… cigola. Non solo, ma mi sembra che anche il secchiello dondoli nella notte. Dalla finestra non si vede molto: tutto nel cortile sembra tranquillo. Mi sono buttato un maglione addosso (benché sia giugno la notte è ancora fresca) e adesso vado a vedere da vicino. Il pozzo si alza nell’angolo del cortile come un castello in una valle, e i muri che gli sono vicini sembrano i fianchi di tante montagne che si allungano verso la bocca del pozzo, che sbadiglia tutto il freddo e l’umidità che arriva dal profondo della terra, dalle viscere del tempo e dei ricordi di chissà quale mosaico di pensieri stregati.
Mi avvicino al bordo del pozzo, coperto dalla luce della luna piena, una luce che annega nell’acqua ferma e tranquilla, giù giù, lontano lontano; un’acqua che si frange solo quando ci buttiamo una pietruzza dentro: ploch e poi di nuovo quel formicolio di onde e di cerchi e quel ronzare di voci, di musica: una mescolanza, direi, di greco e d’arabo, allo stesso modo di questa mattina. Alzo gli occhi prima che nausea e capogiro mi facciano crollare in mezzo ai gerani e all’edera. Mi sveglio nel mio letto che il sole è già alto: le otto; oggi prendo tutti in contropiede e vado a trovare il parroco e il suo famoso archivio.

«Desideravo, aspettavo, immaginavo proprio questa sua visita, dottore – il parroco mi guarda soddisfatto, con un’aria di “lo sapevo che non ce l’avrebbe fatta a resistere” – solo che la mattina, come forse le ho detto ieri, io sono molto impegnato e non so se… senta, facciamo così: prima di uscire, perché oggi devo andare in curia (sono anche cancelliere vescovile, lo sa?), dicevo, prima di uscire ho ancora un po’ di tempo per spiegarle una briciola di storia. Così, poi, posso lasciare nelle sue mani l’archivio di cui le parlavo ieri (tanto in lei io ho la più completa fiducia) da leggere e da guardare. Quando avrà finito, in casa c’è mia zia, a cui lei può lasciare la chiave e poi tornare domani o dopodomani. Insomma, lei qui è a casa sua».
«La ringrazio di cuore, ma io davvero non so se posso».
«Può, può. Nessuna scusa. Pensi solo se mi lascio scappare uno studioso come lei di argomenti tanto interessanti anche per la nostra piccola storia locale. No, dottore, non faccia il modesto… che tanto io so tutto, o quasi, su di lei».
«Di fronte a queste parole non posso certo rifiutare la sua proposta».
«Bravo! Adesso si sieda comodo, che io vado solamente a prendere un mio quaderno dove mi sono segnato alcune notizie, alcune riflessioni mie personali tra lo storico e il teologico. Non scappi, mi raccomando».
Sedutomi su di una poltrona davanti alla scrivania, di fronte ad un’altra che doveva essere la sua, aspettai non più di cinque minuti che don Chiaffredo ritornasse. Accarezzando, quasi a togliergli la polvere del tempo, la copertina di un vecchio quaderno di scuola, incominciò a spiegarmi la storia dell’ordine dei monaci-cavalieri di Edessa, gli edessiti o, come anche li chiamavano, i cavalieri dello Spirito Santo.
«Fondato ad Edessa, in Siria, da tre cavalieri piemontesi partiti per la Crociata in Terra Santa, l’ordine era cresciuto, tanto come numero di aderenti che come impegno in favore dei poveri e dei feriti in guerra e dei malati, fino a che, morti due dei tre fondatori e nato un dissidio tra il terzo (giunto ad essere «maestro» dell’ordine) ed alcuni cavalieri crociati che lo rimproverarono di aver seguito i suoi interessi personali più che non la regola, questo cavaliere e quei pochi monaci restatigli fedeli ritornarono in Piemonte, con tutte le migliori intenzioni di continuare la loro missione, se non tra i Crociati e i miscredenti, almeno in mezzo ai contadini di queste nostre terre. Così si affidarono alla lealtà del Vescovo di Torino (la diocesi di *** non esisteva ancora), che diede loro in dono una casa di proprietà della diocesi, una casa che da parecchi anni era in stato di abbandono. Poi però, per farla breve, gli atti di accusa contro il maestro e i monaci arrivarono alle orecchie anche del Vescovo. I nemici dell’ordine diventarono sempre più numerosi e, soprattutto, sempre più forti e importanti. Alla fine si disse che – addirittura – il maestro e i suoi collaboratori più stretti avevano, in Terra Santa, combinato parecchi omicidi, di cui uno, il più terribile, quello di una ragazza gettata nel pozzo del loro convento…»
«Nel pozzo!?»
«Sì, ma, a dire la verità, né di questo omicidio né degli altri non sono mai stati dichiarati colpevoli. Si trattava, in fin dei conti, di voci… di (si direbbe adesso) “leggende metropolitane”. Alla fine, comunque, hanno chiesto un generico perdono delle loro colpe (benché nessuno sapesse con chiarezza quali esse fossero); l’ordine fu soppresso; i monaci, una volta perdonati, vennero sparsi un po’ in tutti gli altri ordini, tranne il maestro fondatore, che restò, da solo, come una specie di eremita, in una piccola pieve qui da noi a curare i malati e coloro che si ferivano, poiché in Terra Santa aveva imparato a fare il medico e il chirurgo. Così ha conservato tutti i documenti di quello che era stato il suo ordine che, alla sua morte, passarono in custodia al Vescovo, che poi li lasciò depositati qui, nella parrocchia del nostro paese».
«Ma come mai nessuno ne sapeva nulla, di tutto ciò?»
«Cosa vuole. La storia di quest’ordine assomigliava un po’ troppo a quella dei Templari, che però, più famosi più ricchi più in odio alla gerarchia, si sono accaparrati tutto l’interesse degli storici, mentre i nostri edessiti, un po’ perché non sono stati condannati a morte, un po’ perché, vivendo in provincia, hanno avuto meno pubblicità, sono stati dimenticati, fino a che il parroco che mi ha preceduto incominciò a girovagare nell’archivio, a scoprire qualcosa, ma poi, trasferito in un’altra parrocchia, ha dovuto interrompere il lavoro di ricerca. Me ne ha parlato, tuttavia, ed io adesso ho avuto la fortuna di incontrare lei e…»
«E di quei delitti? E di quella ragazza del pozzo?»
«Qualcosa, di sicuro, troverà nell’archivio. Io ho solo avuto il tempo di leggere la cronaca che un parroco del ’600, don Pipino, scrisse ai suoi tempi, una sorta di relazione sulle carte dell’archivio da presentare al suo Vescovo, di cui però non se ne è fatto nulla: la relazione quindi è rimasta qui in parrocchia. Ma adesso è veramente tardi ed io devo avviarmi. Aspetti che le apro… le faccio vedere e dico a mia zia che…» Così dicendo sì alzò e si mosse verso la porta alle sue spalle. Ed io dietro.

Quello che il parroco chiama «archivio» sono una diecina di pergamene vecchie e di poca o nessuna importanza e alcune copie (del ’600/’700) di qualche documento, in genere relazioni a proposito di cure prestate a dei malati o a dei feriti dal «maestro» dell’ordine: tutta roba che potrebbe interessare forse ad uno studioso di medicina medievale più che ad uno storico del cristianesimo. In più c’è quella relazione, anche questa scritta in latino, di cui mi diceva il parroco. In due ore o poco più l’ho letta tutta: dice all’incirca quello che mi ha già raccontato don Chiaffredo e, comunque, a proposito di ciò che più mi potrebbe interessare, i delitti e la morte di quella ragazza, non si dice molto che serva, tranne che, a riguardo appunto di questa morte, si racconta che qualcuno aveva accusato il maestro dell’ordine di averla fatta gettare nel pozzo (ma questo lo sapevo già), ma che, tanto, quella ragazza “scomparsa” erat vulgo nota ut stria uel mascha… e quindi, anche se davvero l’avevano gettata giù, avevano compiuto comunque solo un’opera meritoria.
Chiuso il quaderno e chiamata la zia per lasciarle i saluti per il parroco e per ringraziarlo di tutto, mi sono diretto verso casa. Tutto qui: certi signorotti di campagna della provincia Granda durante il medioevo erano andati a cercare fortuna guadagnandosi qualche rendita in Terra Santa. Andato in malora l’intento iniziale, si erano gettati – come si direbbe adesso – nel sociale ed avevano così fondato un ordine di monaci-cavalieri. Combinato qualche pasticcio (non andiamo comunque più a fondo) e fatta “scomparire” una puttanella di quelle terre (probabilmente incinta di uno di loro), erano ritornati a casa, dove avevano rischiato di fare la fine dei Templari, tranne che – meno ricchi di quelli là – se l’erano tolta chiedendo perdono e facendo la figura dei bravi monaci, e chiusa così. Poi la storia li aveva travolti, lasciando forse solo pochi ricordi orali popolari di qualche figura di guaritore di basso livello che aggiustava le ossa a un contadino caduto da un pesco o che curava coloro che avevano la febbre quartana.
No, no, proprio niente che valesse la pena. Potevo in piena tranquillità ritornare al mio libro sui rapporti tra gli eretici bizantini e gli ordini dei monaci-cavalieri. Ma quelli veri.

Adesso, quando suona il campanello non me la prendo neppure: tanto è assolutamente inutile. Così, oggi nel pomeriggio non ho neanche protestato tra me e me e sono andato ad aprire: il campanello a un certo punto mi tiene perfino compagnia.
«Salve, dottore, mia zia mi ha riferito i suoi saluti e mi ha detto che lei se ne è andato via abbastanza presto. Trovato qualcosa che meriti?»
Nel vedere il clergyman blu di don Chiaffredo e il suo lobbia bianco, accompagnato da un sorriso che più colmo di felicità e di fiducia non poteva essere, ho perfino provato un po’ di vergogna per quello che avevo pensato, oggi, del suo archivio e dei suoi monaci-cavalieri della mutua. Così, quasi per farmi perdonare, l’ho invitato a entrare con un entusiasmo persino eccessivo.
«No, grazie, purtroppo non ho tempo per fermarmi. Sono passato più che altro per invitarla a venire a vedere la chiesa dello Spirito Santo, che è qui a basso, appena sotto casa sua. È del ’600, anche se io credo che abbiano usato dei materiali più vecchi, ma, soprattutto, è interessante perché dicono che stia sopra le fondamenta della chiesa che il maestro degli edessiti aveva fatto costruire, assolutamente uguale nella forma, pentagonale, a quella che essi avevano ad Edessa. L’avrà ben letta, la pergamena che….»
«Certo, certo, che diamine, figurarsi se mi scappava questo particolare. Ma andiamo pure a vedere questa chiesa».

«La vede, dottore, questa colonna? È sicuramente la cosa più antica della chiesa: è di pietra e non di marmo e… guardi bene qui in alto: quel simbolo che io credo fosse l’emblema degli edessiti: una torre!»
«Già, già. Io non sono di certo uno storico dell’arte ma mi sentirei di sostenere quello che mi ha detto lei, don Chiaffredo. Solamente che, tuttavia…»
«Mi scusi?»
«Niente, niente. Ma mi sembrava d’aver intravisto una lettera incisa sulla pietra; invece è solo un buco». Usciti dalla chiesa pensai bene di fargli io un po’ di interrogatorio.
«Brava donna, la mia padrona di casa. Peccato solo per la disgrazia della figlia».
«Proprio così. Così giovane e partire così, senza un perché».
«E… mi scusi: di malattia o di incidente?»
«Cosa vuole dire?»
«La morte… è morta per una malattia o…»
«Ma che morte e morte! Gina è scappata di casa cinque anni fa. In questo momento chissà dove è, e con chi! È comunque vero che potrebbe anche essere morta in questi ultimi tempi. È sempre stata una ragazza un po’, come a dire, leggerina, disinibita, che non riesce a sopportare un giogo di qualsiasi tipo».
«Strano. Eppure qualcuno mi ha detto che…»
«Probabilmente sua madre stessa. D’altra parte, lo si capisce; la madre, piuttosto che dover ammettere che la figlia è scappata via per non dover più sopportare lei, la propria madre, preferisce pensare che sia morta. Sono tante responsabilità in meno, verso il paese e verso se stessa».
«E il padre?»
«Ah, il padre! Buono anche quello lì! Se ne è andato con un’altra circa quindici anni fa. Gina avrà avuto, che ne so, cinque o sei anni».
Il parroco mi ha poi accompagnato fin sulla porta di casa e mi ha salutato, con la speranza che io tornassi da lui appena possibile per studiare ancora il suo archivio e le sue carte. È stato un pomeriggio davvero fruttuoso: è vero che la figura della mia padrona di casa diventa sempre meno chiara, ma in cambio ho visto, chiaro e netto, e ancora adesso non capisco perché non l’ho detto a don Chiaffredo, che l’emblema sulla colonna non era una torre, come sosteneva lui, ma un pozzo, uguale nella forma a quello che c’è nel cortile.

Stamattina la signora delle pulizie non ha neppure suonato il campanello, poiché le ho detto che tutte le scampanellate di questi ultimi giorni mi avevano stravolto il desiderio che avevo di starmene tranquillo e di poter lavorare al mio libro. Così ci siamo accordati che lei entri con le sue chiavi, faccia le sue faccende secondo un ordine topografico ben preciso (prima una stanza, poi un’altra e poi avanti così sempre nello stesso ordine) di modo che non abbiamo neppure la preoccupazione di incontrarci. Oggi però mi sembra che la faccia un po’ troppo lunga, visto che gli altri giorni alle undici ha già finito le faccende e lasciata la casa: adesso è quasi mezzogiorno e la sento ancora trafficare. Così esco nel cortile e, facendo finta di nulla, me ne vado gironzolando come se volessi annusare tutte le specie di fiori che ci sono, quando resto lì tutto sorpreso.
«Si vede che ha trovato la chiave di quella stanza famosa, finalmente» penso, visto che la porta è accostata, messa vicina in modo che non si noti subito che è aperta; guardando però con un minimo di attenzione si vede che è stata aperta e, oltretutto, si sente qualcuno muoversi nella stanza. Non ho tanta voglia di vedere la signora, ma – d’altra parte – desidero anche gettare un occhio su questa stanza che sembrava destare tanta preoccupazione nella padrona, il giorno in cui mi ha mostrato per la prima volta la casa.
«Alla fine l’avete trovata, la chiave…» Entro nella stanza, ma non ho neanche il tempo di accorgermi d’esserci dentro che vedo nessuno, assolutamente, e infine la vista, appena adattatasi alla mezza luce della stanza, riesce a notare una figura femminile che, quasi piegata su di un cassetto della credenza, sta frugandoci dentro, proprio come se cercasse qualcosa di nascosto. Ma, soprattutto, questa figura femminile non è la signora delle pulizie. Si gira di scatto sentendomi parlare e così vedo che è una ragazza giovane, alta, slanciata.
«Chi è lei e cosa sta…»
«Chi vuoi che sia, sono io. Sono Gina. Ho saputo da mia zia che mia madre è andata da lei al mare e così ne ho approfittato per fare una scappata a casa a cercare… a cercare…delle cose mie. Scusa tanto, non volevo proprio né disturbarti né toccare delle cose tue. Adesso, appena avrò trovato quello che voglio, vado via immediatamente».
«Ma, non era meglio se me lo diceva, se mi chiedeva…» Non ho mai potuto sopportare quelle persone che ti danno del tu senza chiedertelo, e così io continuo a darle del lei.
«Forse… ma io pensavo di disturbare troppo e poi… che noia dover sempre dare delle spiegazioni, dover raccontare il perché e il percome. Comunque, io sono una persona onesta; avevo le chiavi e sono entrata».
Il suo tono e le sue parole sono quelle di una bambina che è convinta di avere ragione e se ne impipa delle ragioni degli altri.
«E va bene, si prenda quello che cerca. E poi se ne torni pure a… a proposito, ma lei è viva o è morta?»
«Come sarebbe a dire?»
«Già, perché qui chi la racconta in una maniera, chi in un’altra… insomma, lei è… chi dice che lei è morta, chi invece… e chi ne capisce più qualcosa?»
Mentre le parlavo lei si era avvicinata e così potevo guardarla meglio. Anche dall’aspetto non si poteva davvero capire se era viva o no: pallida e magra, spettinata… mi è arrivata ad un passo ed io sento avvicinarsi lo stesso profumo dei gerani e del pozzo, anzi, mi sembra quasi di sentire nelle orecchie addirittura il medesimo sussurrare di voci e di musica che si era alzato dal fondo dell’acqua del pozzo quando gli avevo gettato dentro quella pietruzza.
«Tu, cosa ne dici? ti sembro viva o no?» Mi mette la mano sul braccio e mi sussurra nell’orecchio.

«Hai voglia di parlarne… voglio dire… come mai in quattro e quattr’otto hai preso e te ne sei andata, così, all’improvviso». Stavo accarezzandole il collo e le spalle ed erano già alcuni minuti che riflettevo se chiederglielo, o no.
«Non ti sembra sufficiente aver visto questo paese e conosciuto anche solo un campione dei suoi abitanti? Non ti sembra una ragione sufficiente per scappare nel posto più lontano possibile da tutto questo?» La sua risposta era tranquilla, come la sua spalla che sembrava solo avere un brivido ad ogni parola che le sue labbra strusciavano contro la mia mano.
«Sì. Non mi sembra forse una bella copia di Parigi o di New York, ma, insomma… magari spostarti in un’altra città, ma proprio scappare via così…»
«Già. La figlia di una ragazza madre. Mio padre che ci aveva lasciate senza dire né a né ba. Tu sei torinese e non ne capisci neanche un po’ di cosa vuol dire vivere qui. A proposito: non ti disturba se mi fermo un paio di giorni? Non ti darò nessun disturbo. Mi basta poco o niente da mangiare e posso dormire qui, nella mia stanza».
«E perché non da me?»
«Non vorrei che tu credessi che voglio pagarti per il disturbo…»
«Vorrà dire che ti presenterò il conto… basta solo che la signora delle pulizie non ti veda».

La luna entrava nella stanza, perché le tendine non erano sufficienti a spingerla via ed io mi ero dimenticato di chiudere le gelosie. Sebbene siano alcuni anni che mia moglie non c’è più non ho mai smesso l’abitudine, se mi sveglio nella notte, di allungare il braccio verso l’altra parte del letto. Così ho fatto ed ho toccato il vuoto, il freddo di un lenzuolo appena sfiorato dalla figura di seta di quella ragazza, ancora a malapena stropicciato dai suoi fianchi.
Potevo anche starmene coricato ed aspettare o l’arrivo del sonno o che lei ritornasse, ma, tutto sommato, mi sembrò meglio alzarmi per andare a vedere cosa stesse combinando, visto che, pur con tutta la confidenza che c’era ormai tra noi due, lei era comunque un tipo abbastanza strambo e, forse, da meritare la mia fiducia solo fino ad un certo punto. Così sono andato a vedere in cucina, nel bagno, nel salottino, poi ho pensato che probabilmente era veramente andata a dormire, da sola, nella sua stanza, affinché davvero non sembrasse pagarmi il disturbo con la sua compagnia. E allora mi sono incamminato verso la scala, ma, arrivato alla finestra che dal corridoio dà sul cortile, ho gettato lo sguardo fuori e la vidi, con la sua camicia da notte bianca, una specie di strascico attaccato alla luce della luna, quasi che in questo modo la luna stessa scendesse sulla terra servendosi della sua figura, che veramente poteva rappresentare l’immagine di Selene e del suo alone.
Ma cosa ci faceva laggiù? Solo a prendere il fresco? In effetti lei era una ragazza strana, ma d’altra parte la notte non era sicuramente così calda e afosa da giustificare l’uscire a prendere il fresco. Dalla finestra volevo seguirla mentre sembrava ondeggiare nel cortile, avvicinandosi all’angolo del pozzo. In un attimo un lampo mi attraversò il cervello ed una luce chiara mi trapassò la mente: un caso di sonnambulismo.
Certo. L’unica spiegazione, vedendola camminare in quella maniera, doveva essere questa. Mi gettai all’istante giù per le scale: l’avevo vista troppo vicina all’orlo del pozzo e perciò mi precipitavo verso il cortile senza tuttavia riflettere sul fatto che svegliarla all’improvviso poteva essere altrettanto rischioso che lasciarla arrivare fino al pozzo. Arrivato in un attimo nel cortile, mi tranquillizzai, seppur con l’affanno addosso, e mi avvicinai a lei pian piano, pensando al modo migliore per cercare di fermarla e, senza svegliarla, riportarla nuovamente, con calma, adagio, nel letto. La sentivo bofonchiare delle parole, forse senza nessun senso, quando le arrivai vicino e lei, d’improvviso, si girò verso di me e, accidenti, non era Gina.

Quello che capitò dopo non lo so con certezza. Mi trovavo in una stanza che sembrava una prigione, con un tavolaccio e due sgabelli, e due figure, vestite con un mantello che le copriva tutte e con un cappuccio in testa, che parlavano tra di loro sottovoce; a un certo punto uno di loro disse: «Non so se abbiamo fatto bene a fare quello che abbiamo fatto. Ma tanto, ormai…»
Poi la scena è cambiata ed io mi sono trovato spostato in una specie di salone, grande, smisurato, dove c’erano diecine e diecine di persone, uomini donne bambini, vestiti in un modo che si sarebbe detto medio-orientale, e tutto intorno ancora quella musica che mi era sembrata salire dal pozzo. E tutte queste persone salmodiavano o pregavano o parlavano, non saprei dire, ma tutte insieme facevano un cinguettare che a volte accompagnava, a volte invece si sovrapponeva alla musica. Io cercavo di capirne qualcosa: mi sembrava, non so nemmeno io bene, di essere fuori da quel quadro ma contemporaneamente di esserne anche una parte, un ingranaggio, un meccanismo. Ad un certo punto qualcuno gridò «Colpevoli», qualcun altro «Innocenti»; e una voce di donna «Assassini, assassini».
L’immagine all’improvviso scomparve e la scena cambiò nuovamente: adesso era una chiesa, una chiesa assolutamente medioevale, non si capiva se romanica o gotica, ma certamente non posteriore al secolo XII o giù di lì. Nel mezzo della navata centrale un cavaliere, anche lui con un mantello a coprirlo completamente e un elmo sulla testa, che sembrava incidere con uno scalpello qualcosa su di una colonna mentre diceva, con una voce grave e lenta, «nota ut stria uel mascha», e subito dopo altre parole che non capii bene, tranne «puteum».
A questo punto mi svegliai, nel mio letto, e Gina era in piedi sulla porta, già tutta vestita, che mi guardava sorridente, dicendomi:
«Ma cosa ti è capitato stanotte? ero perfino preoccupata tanto sembravi stare male: tutto sudato, parlavi nel sonno, sembrava addirittura che piangessi o singhiozzassi. Ma cosa avevi?»
«Niente. Un incubo, un brutto sogno. Niente altro. Un brutto sogno».
«Me lo immaginavo. Quello che faceva davvero impressione era sentire con che voce borbottavi. Una voce sfalsata, non era la tua. E le parole che dicevi, almeno quelle che si capivano; sempre le stesse: pozzo, cavalieri, monaci, colonna…»
«Mah. Va a sapere, era talmente brutto questo sogno che ho cercato di dimenticarlo completamente». Che bugia, ma un non-so-che di paura mi ha fermato davanti a quello che poteva essere il senso di abbandono e di fiducia nel grembo di questa ragazza, così limpida nel parlare come diffidente nel suo volermi essere amica.
«E pensare che da bambina il pozzo che c’è qui nel cortile mi ha sempre attirata – ma come faceva a leggermi nei pensieri e a vedere che stavo guardando con la mia anima proprio il pozzo – a tal punto che mia nonna mi diceva che le sorgenti d’acqua da cui noi uomini abbiamo fabbricato i nostri pozzi sono un sistema di vene della terra, proprio come quello di un essere umano. E questa sorgente, nel nostro cortile, deve essere legata a chissà quante altre, in tutto il mondo. L’acqua corre sotto la terra e si mescola, alla fine, tutta insieme, proprio come il nostro sangue, e non smette mai di muoversi e di unire insieme, nel suo spirito di linfa della terra, persone e cose anche lontanissime l’una dall’altra, nello spazio e pure nel tempo. D’altronde, non c’erano dei filosofi che dicevano che l’acqua…»
«Sta’ un po’ zitta, per piacere. Lasciami stare un momento per conto mio, tanto da riuscire a svegliarmi per bene e a dimenticare…»
«Ma non hai detto che avevi già bell’e dimenticato tutto?» E se ne è andata via dalla stanza con la sua aria beffarda.

Gina si è chiusa nella sua stanza ed io mi sono messo a scrivere qui, in un salotto che offre tutte le sfumature dello stile antico della provincia piemontese: le vecchie foto, i quadri, i soprammobili, i gingilli, le cianfrusaglie… ho cercato di concentrarmi su di un capitolo abbastanza importante del mio libro, di cui ho già scritto la maggior parte ma di cui ancora mi mancano le conclusioni. Il cervello mi va in giro tra le vicende di questi giorni, al punto che, invece di scrivere un elenco di nomi di teologi della corte di Bisanzio del secolo XII, ho buttato giù una sorta di riassunto di ciò che è successo in questi ultimi tempi. E tutto, tutto sembra davvero spingermi verso il pozzo.
La signora delle pulizie sta innaffiando i fiori nel cortile; non potrei neanche andare a sedermi sulla panca che c’è proprio laggiù. Una scampanellata mi sveglia dal vagabondare nei miei pensieri.
«Salve, don Chiaffredo. Pensavo proprio che fosse lei. Venga in casa, oppure ha un’altra chiesa da farmi visitare?» Non so nemmeno io se il mio tono voglia essere serio o di presa in giro.
«Buondì a lei. No, oggi non ho chiese da farle vedere, ma forse qualcosa di ben più interessante. Possiamo sederci un attimo?»
«Qui, nel salotto. Stavo giusto mettendo insieme le idee per un capitolo del mio libro, che purtroppo non ce la faccio a concludere come vorrei. E allora?»
«Allora, l’altro giorno, dopo che lei ha visto l’archivio, ho pensato bene di riprendere in mano le note del parroco che era qui prima di me. Ebbene, ho trovato un richiamo ad una pergamena che non è nel nostro archivio, ma in quello capitolare (se ne ricorda che gliene avevo parlato?), e allora sono andato a vederla e da lì ho notato che tutta questa parte del borgo, che è poi la più antica di tutto il paese, appena sotto il castello, era stata – come a dire – data in gestione ai monaci edessiti: la chiesa (quella che le ho fatto vedere l’altro giorno, anche se rifatta completamente), un edificio come ospedale, un altro come foresteria, un altro come abitazione; insomma un complesso abbastanza grande e importante, almeno per quei tempi, a tal punto che solo gli avvenimenti sfortunati che sono successi in seguito hanno provocato il fatto che tutto (o quasi) fosse eliminato, cancellato… o meglio, per usare un’espressione moderna, riciclato».
«E lei dunque penserebbe che questa casa…»
«Proprio così. Ho delle buone ragioni per credere, visto quello che dice la pergamena, che la casa dei monaci-cavalieri fosse proprio questa qui, o comunque una molto vicina. Ci sono delle annotazioni, ci sono dei segni, dei riferimenti che mi spingono a credere che quantomeno il pianoterra di questa casa dovesse essere la casa dei monaci-cavalieri. Poi, nei secoli successivi, la casa è stata soprelevata; i nuovi padroni hanno costruito il piano superiore, ma il cortile e il piano inferiore dovrebbero non solo risalire a quei tempi, ma quasi sicuramente essere proprio quella casa che le ho detto».
«E con questo?». Non vorrei davvero essere maleducato, ma l’insistenza con cui lui voleva assicurarmi di aver trovato chissà cosa nei riguardi della casa mi dava, dico la verità, un po’ di fastidio.
«Mah, niente. Comunque, lei che è uno storico… il pensare di abitare dove molti secoli fa ha – come a dire – soffiato il vento della storia…» Mi faceva quasi pena vedere come voleva sostenere il soffio della storia nel suo paese.
«Sì, sì, lei ha ragione, mio caro don Chiaffredo, ma mi deve scusare; sono un po’ stanco in questi giorni. Cosa vuole: sono venuto qui per riposarmi e poi lavoro come un asino».
«È vero. Si vede dagli occhi che lei è un po’ patito. Mi scusi. Le tolgo immediatamente il disturbo. Quando vuole, venga pure a trovarmi, senza complimenti».
E così se ne è andato ed io mi sono avvicinato alla porta di Gina. Bussato. Niente assolutamente.
«Io vado fino nel magazzino a fare un giro. Se vuoi venire anche tu…» E scesi quei pochi scalini che portano dove c’è quello stanzone che la signora aveva appunto battezzato «il magazzino».

Non c’ero mai sceso, laggiù, tranne quando la padrona mi aveva mostrato la casa. Infatti, cosa me ne importava di una stanza, grande e alta, che una volta doveva essere servita, probabilmente, d’abitazione, ma che da quando si era costruito (come aveva sottolineato don Chiaffredo) il piano superiore, era stata ridotta a cantina o a magazzino o a tutte le due funzioni insieme?
Guardai i muri alla luce un po’ smorta che tentava di illuminare gli angoli di questa stanza: il fatto che attirava maggiormente l’attenzione, e al quale tuttavia io non avevo fatto granché caso quando c’ero entrato con la signora, erano alcune colonne di mattoni che creavano una specie di portichetto, dividendo la stanza in una parte più grande e in un’altra più piccola, quasi un’altra stanzetta sul lato destro. Spinto dal fatto che nella chiesa avevo visto l’emblema del pozzo proprio su di una colonna, mi avvicinai alla prima di queste, pensando di trovarci inciso chissà che.
«Dovevi forse pensare al pozzo: è quella la chiave di tutto». Mi giro un po’ stupito di sentire questa voce che mi colpisce come una coltellata nella schiena. È Gina che mi è arrivata dietro le spalle senza che io mi accorgessi di lei. Mi si era avvicinata, e così sotto la luce pallida risaltava ancor più la sua faccia stravolta, quasi senza più un’espressione umana: non sembrava neppure lei – eppure era lei – e neppure la voce sembrava più la sua – eppure era la sua.
«Vieni con me. Vieni vicino al pozzo – e intanto mi afferra il braccio – ti faccio vedere…»
Mi trascina, ed io, con il ribrezzo che si prova davanti ad un serpente, mi lascio trasportare da lei, seguendola; così attraversiamo il cortile, mentre lei borbotta parole senza senso. Arrivati al pozzo quasi mi butta sull’orlo – non ho più nessuna forza, nessuna volontà – e grida quasi:
«Tutti uguali, voialtri, tutti uguali; proprio come quel tuo amico che mi aveva fatte tutte quelle promesse. Io forse non vivevo tanto bene, questo è vero, a fare la serva in quella famiglia di mercanti, ma almeno non avevo nessun pensiero. E lui, con quella sua voce di usignolo che mi soffiava speranze e fiducia: “Se vieni a dormire con me…”; ebbene, dopo aver dormito con lui cosa ne ho guadagnato? Ha iniziato ad evitarmi, far finta di neppure conoscermi. E sul più bello? La diceria che io fossi una strega e che avessi ammaliato i suoi cavalieri. E non osava nemmeno più guardarmi negli occhi».
Io osai, invece, ed erano due occhi neri come l’acqua del pozzo, al punto che le misi una mano su quegli occhi e un’altra sulla bocca, perché stesse zitta, che non rischiasse di svegliare tutto il convento e i monaci, e così le sue parole si spargessero per tutta la città. Ha cercato di saltare via, ma io adesso avevo nuovamente tutta la mia volontà, e tutte le mie forze. Così che non ho avuto nessuna difficoltà a prenderla in braccio e a gettarla giù giù, lontano lontano, in quell’acqua sempre identica, se non per gli spruzzi e il gorgogliare, che durò però pochi minuti, mentre io, ricordando le sue parole, pensavo se mai fosse vero che la sua anima avrebbe compiuto il percorso sotterraneo di quelle acque profonde, fino ad arrivare chissà dove, in quale posto, oltre i confini, del mondo.

Leone Inaudi

Nato nel territorio dell’antico Marchesato di Saluzzo da una famiglia originaria della valle Maira, ma cresciuto ed educato a Torino nei ruggenti ’60, predilige la narrativa breve in italiano, in cui si presentano sempre tematiche e prendono forma figure legate in modo strettissimo alla sua terra. Tornato nei luoghi della sua nascita ed infanzia, per vivere è giornalista e collaboratore di alcune piccole (ma attive) case editrici. Non ha ancora pubblicato nulla su carta.