Ma il comunismo non doveva liberare l’uomo dal lavoro? Nella devastante realtà del gulag sovietico, gemello del lager nazista, alla tortura e alla schiavitù del lavoro invece lo condanna. E di fame, fatica e freddo siberiano lo fa morire.
Gustaw Herling, scrittore ebreo-polacco vi trascorre due anni, e in Un mondo a parte è il primo a raccontare questa schiavitù dell’uomo in un campo di lavoro dell’estremo nord della Russia europea. Poi vennero Solgenitsin con Arcipelago Gulag e Varlam Salamov con i Racconti di Kolyma.
Nomade per costrizione, dopo la Seconda guerra mondiale a cui dal 1942 partecipa combattendo in Medioriente nei ranghi del Secondo Corpo d’Armata della Polonia, Herling non rientra più nel suo paese. Finito nel blocco comunista. Gira per l’Europa e nel 1955 si stabilisce a Napoli, dove undici anni prima ha trascorso “un soggiorno di guerra” ospite di Benedetto Croce. A cui poi invierà come omaggio la prima edizione (in inglese) di Un mondo a parte.
La Storia d’Europa nel secolo decimonono del filosofo napoletano era un’opera la cui lettura aveva educato Herling alla crociana “religione della libertà”. E del filosofo sposerà l’ultima figlia, Lidia Croce, custode del patrimonio librario del padre. Un matrimonio (il secondo per entrambi) da cui nacquero Andrea Benedetto e Marta Herling, che ha rilasciato al giornale Avvenire un’intervista su suo padre l’anno prima del centenario della nascita.
“Un mondo a parte, – dice Marta Herling – prima ancora delle annotazioni del ’42, era stato composto nella mente, una frase per volta, come atto di sopravvivenza alla prigionia. Di notte, nel silenzio della baracca, mio padre fissava nella memoria gli episodi salienti della giornata, assumendo su di sé il compito del cronachista… Gli era chiaro che, una volta riconquistata la libertà, era suo dovere prendere la parola anche a nome dei compagni rimasti nel gulag”.
Herling ha poco più di trent’anni quando scrive questo libro che lo aiuta a uscire vivo dalla Casa dei Morti. E lo scrive – dice Marta – “senza mai un cedimento, senza mai un’incertezza”. Bertrand Russell scrive nell’introduzione che, tra i libri che ha letto sulle vittime dei campi di lavoro sovietici, Un mondo a parte è “il più impressionante e quello scritto meglio”. E anche il più sincero, “in qualsiasi punto”. Per Ignazio Silone, che lo recensì, è insieme una testimonianza e un’opera letteraria.
In Italia, Herling si sentì condannato alla solitudine, destino degli intransigenti. Diceva quello che i comunisti italiani non volevano sentire – e cioè che nessuna differenza c’era tra il gulag e il lager. Il Mondo di Pannunzio, il Corriere della Sera di Spadolini e Il Giornale di Montanelli diedero spazio ai suoi articoli, ma per Paese Sera lo scrittore dissidente andava espulso dall’Italia. Anche in Francia, dove il suo libro è uscito nel 1985, lo scrittore polacco-napoletano non godeva di grandi simpatie: nonostante il sostegno di Camus. In Italia Un mondo a parte fu pubblicato nel 1958 da Laterza e nel 1965 da Rizzoli, ma non fu un affare per gli editori: l’ostilità del Pci condannò il libro al disinteresse generale. Herling confidava questa sua solitudine intellettuale a Silone, che non stava certo meglio di lui: “Di che ti lamenti? Anche io qui sono un esule” gli rispondeva lo scrittore abruzzese, autore di Fontamara. Soltanto dal 1994, Un mondo a parte poté godere della giusta considerazione. Quando negare l’evidente disumanità della deportazione, e del gulag in specie, non serviva più a nessuno.
Tra i racconti di Herling ce n’è uno che fa riferimento al suo soggiorno in tempo di guerra a casa di Benedetto Croce e che s’intitola La casa aperta. Dal canto proprio, il filosofo della libertà aveva menzionato il futuro genero nel suo diario Quando l’Italia era divisa in due. La monarchia e il governo Badoglio erano scesi al Sud, e la casa di Croce era molto frequentata da quanti avevano scelto l’Italia antifascista. Andavano a trovarlo politici, funzionari dello Stato, ufficiali americani, giovani militari; e i corrispondenti di guerra per intervistarlo. Tutti gli chiedevano lumi sulla situazione italiana. Sulle cose da fare in un momento così difficile. E non mancavano quelli che l’avrebbero voluto alla Presidenza del Consiglio.
Il filosofo aveva le idee chiare. L’Italia doveva schierare le proprie forze armate sparse nel mezzogiorno a fianco degli Alleati e convincere Vittorio Emanuele III ad abdicare. Solo così poteva ottenere due obiettivi: un buon trattamento al futuro tavolo della pace e salvare la monarchia, che a un conservatore come lui non dispiaceva affatto. Ma questo suo disegno era ostacolato dagli Alleati e da Churchill in particolare che, per le ragioni da far valere contro l’Italia proprio al tavolo della pace, non la volevano alleata bensì “cobelligerante”. Temevano inoltre che l’abdicazione del Re avrebbe avuto la conseguenza di destabilizzare il paese e aprire la strada ai comunisti.
Sergio Romano, parlando del libro di Fabio Fernando Rizi (Benedetto Croce e la nascita della Repubblica Italiana), ricorda i vari momenti della vita in cui il filosofo napoletano fu anche politico: dalle posizioni neutraliste del 1915 al manifesto antifascista del 1925 fino al suo voto contrario in Senato sul Concordato. Ma dopo l’Otto Settembre lo divenne essenzialmente. E all’Assemblea Costituente contestò il trattato di pace firmato a Parigi. Ritenendolo, non senza fondate ragioni, umiliante per l’Italia.
Negli ultimi anni di vita si vedeva don Benedetto uscire di casa, con il bastoncino, per recarsi spesso nelle librerie antiquarie. Era molto amato. E quando morì, nel 1952, quasi tutta Napoli partecipò al suo funerale. L’anno prima era stato pubblicato a Londra Un mondo a parte, il libro che Gustaw Herling, suo genero, aveva pensato e composto nella mente durante la detenzione nel gulag. E che l’avrebbe aiutato a uscirne vivo.
(Gaetano Cellura)