Vuoto verde acqua
“Accompagnò l’atto meccanico di aprire la porta ad un lieve tremito d’attesa… Nell’ingresso la colpì dolorosamente quel vuoto dei muri bucati, pieno della sua mancata felicità.”
Le parole stavano sul quaderno: tracce travagliate di una storia che Chiara non aveva saputo continuare, dal giorno del suo primo ritorno in quella casa, come se bastassero due righe crocifisse sul foglio a inchiodare il suo dolore… Eppure non era proprio “dolore”, quella misteriosa struggente corrispondenza tra i fori del muro (dal quale erano stati tolti i mobili durante il trasloco), e la ferita dentro Chiara. In lei si sommavano continui, faticosi, travasi di vuoti pieni, pieni vuoti…, che ora quel muro dalla lieve tinta verde acqua (secondo il gusto di Chiara) e quell’ingresso vuoto riverberavano.
Trovare un riflesso nelle cose alla gioia e al dolore, era un’arte che si tramandava di madre in figlia nella famiglia di Chiara: non c’era oggetto, per quanto insignificante, che non potesse intrattenere con quelle donne un’intera discussione sul senso della vita.
Era stata Chiara a volersene andare da quella casa, era stata lei a volere fortemente, quasi spietatamente, i buchi nel muro per portarsi tutto quel primo nido immaginato e costruito da un’altra parte… Ma ora stranamente sentiva un filo di compassione con le stanze spoglie, quasi un bisogno di assoluzione per non essere stata felice come avrebbe voluto (dovuto?) essere.
Ecco, la “mancata felicità” non è dolore, infelicità, è un vuoto nel pieno della vita. Era stato per Chiara lo sbiadirsi di quei colori che lei si portava dentro da bambina, insieme alla passione di dipingere un pezzo di mondo.
La mancata felicità era la folata nell’ora del ritorno.
Azzurro ritorno
“Prima semplicemente non sapevo che uno dei primi passi del mio diventare donna sarebbe stato questo desiderio di vivere tornando. Grazie perché nei momenti bui ho ascoltato la conchiglia di un’infanzia luminosa…
E ho scoperto che quella prima eco di colore
è anche il porto della mia maturità.”
Chiara annoda i fili della sua passione di viaggiatrice e della sua ricerca di senso: c’era un luogo dove lei si sentiva in accordo con le cose, sentiva di poter essere appieno se stessa, e non perché c’era nata, ma perché lì erano stati curati i suoi sogni. Lì il respiro d’una scoperta, giocosa o amara, placava l’inquietudine, ma non il desiderio, della ricerca, e i pensieri di Chiara erano cresciuti nell’abbraccio lieve intenso di stupori, amori, colori.
Chiara ha finito di scrivere il biglietto per la madre e alza la testa: il traghetto si avvicina sempre più alla sponda messinese.
L’emozione del ritorno si rinserra azzurra nel cuore.
In Sicilia con cura
Sarebbe impossibile concepire l’idea stessa di un “ritorno” se non fosse già chiaro che esso è una sfumatura del viaggio verso la meta, una pennellata data alla rovescia nell’orizzonte interiore che guida la ricerca esistenziale di ciascuno. E quindi nel viaggio stesso e nell’immagine della meta, nel grembo della ricerca, nasce il senso del ritorno non come ruminare nostalgico, ma come nutrimento di speranza. Speranza di una continua, naturale riscoperta, declinazione possibile di quello che intimamente appartiene a ognuno, legando passato e futuro.
“Vorrei, figlia, non si spezzasse mai la catena dell’entusiasmo che ci fa guardare il mondo come luogo dipinto e da dipingere; tornare sul mare è come trovare ogni giorno di nuovo i tuoi occhi azzurri che chiedono sempre e comunque verità come fantasia, e vita come poesia.”
Luna di primavera
“Per essere grande, sii intero: non esagerare
e non escludere niente di te.
Sii tutto in ogni cosa. Metti tanto quanto sei
nel minimo che fai,
come la luna in ogni lago tutta
risplende, perché in alto vive.”
F. Pessoa
Lui era il suo specchio; davanti a lui lei era stata vera e nuda che più non si poteva; lui le aveva in un riflesso lasciato addosso tutta la primavera del mondo in una notte d’inverno. Tante volte, mentre soppesava la forza delle sue ombre e dei suoi tocchi di luce, si era chiesta come potesse vivere senza di lui, aggrappandosi con tutta la sua passione a un filo di ragnatela.
Ora nel silenzio per tutti era ritornata la primavera e, mentre il sole la sorprendeva, lei aveva trovato la risposta: non viveva senza di lui, lui c’era sempre.
Poi le sue parole erano tornate ad abbracciarla ancora una volta, e tanto bastava. Non gli chiese di spaccare in quattro il capello della verità nell’entusiasmo, non cercò di divorare l’assenza; soprattutto non osò chiedergli se vivendo si fosse dimenticato pure di lei. Anche lei voleva esserci sempre.
Bastava, nella consapevolezza delle loro vite parallele (per le quali non sarebbe servito chiamare a raccolta tutte le geometrie non euclidee), sapere che lui c’era sempre: l’uomo e l’orizzonte dentro di lei che non faceva terminare la speranza di essere se stessa.
La luce del giorno
“L’amore che ho per te
lo cresce la luce del giorno
più di ogni mia parola.”
Lui si prendeva cura di Chiara giorno e notte, da quando lei l’aveva scaraventato davanti allo specchio, che per lui era stato più un baratro, e gli aveva detto: “Cadere o capire”. E lui aveva capito, e aveva amato. Talvolta a Chiara sembrava ancora di sentire nel suo desiderio la forza dell’amore confondersi con la paura del precipizio; ancora ansia e dolcezza si mescolavano nel suo sguardo a cercare risposte negli occhi o nei fogli di Chiara. Non era certo facile stare con lei, condividere i voli e i vuoti, la voglia d’amore come di parole e silenzio, e tutto quell’incessante viaggiare di mente e cuore che tanto aggiungeva, ma forse anche tanto toglieva, alla vita di tutti i giorni.
Ma Chiara sapeva anche tornare: rinnovare in ogni piega di luce del giorno le promesse piu’ profonde del cuore; le promesse che erano venute coraggiosamente naturali col desiderio di mescolare i colori sulla tela di loro due.