«Un uomo non muore mai se c’è qualcuno che lo ricorda»
Ugo Foscolo
“Che caldo che fa oggi” pensò Giovanni. Effettivamente faceva davvero caldo, la temperatura minima prevista era pari a 34 gradi. Ciò, comunque, non gli avrebbe impedito di andare al cimitero. Era domenica e Giovanni aveva appena fatto colazione al bar con un gustoso cornetto farcito alla crema e un cappuccino pieno di una buona schiuma. Successivamente, aveva comprato due rose rosse dal fioraio adiacente alla piazza centrale del paese, “tagliate corte!” aveva chiesto alla persona che lo aveva servito. Erano due fiori splendidi, d’un rosso vivo destinato a spegnersi in mezzo a chi già da tempo era stato costretto a dire “basta, io mi fermo qui”.
Nel percorso dalla piazza al cimitero tanti pensieri affollavano la sua testa, uno in particolare però non voleva saperne di andare via: il pensiero della morte. Di recente aveva iniziato a pensare a quando sarebbero morti i suoi genitori e gli altri suoi parenti, non aveva nessun fratello o sorella, avrebbe dovuto affrontare tutto da solo. Certo, c’erano anche i suoi amici, ma se fossero morti anche loro? “Solo” si ripeteva sulla strada. “Solo”. “Solo”. “Solo…”. Il suo incubo peggiore era proprio la solitudine, in particolare a quella che si vive nel dolore. Proprio la dimensione del lutto rappresentava per lui quanto di più relativo possibile. La morte della stessa persona non poteva essere vissuta in egual maniera da altre due, ognuna l’avrebbe affrontata a modo suo. All’apparenza, guardando tutti piangere, si può pensare il contrario, ma è quando cala la notte e la luce va via che si materializzano i vuoti lasciati ed il vero dolore, unico per ognuno di noi, emerge da ogni angolo della stanza e non sempre va via, e quando lo fa quasi mai sceglie di non fare ritorno la notte successiva. Ripensò a qualche anno fa, nessuno lo aveva capito, nessuno lo avrebbe potuto fare quando sarebbe toccato ad altri suoi cari. Non per cattiveria o assenza di empatia, semplicemente andava così. È come il moto delle onde del mare, non puoi far nulla per fermarlo. Così era la morte, accadeva. A volte gli capitava di chiudere gli occhi e dare una nuova temporanea vita a chi ormai non ne aveva più. Ripercorreva ogni passaggio del ricordo che gli veniva in mente, dal luogo in cui era accaduto alle condizioni meteo di quel giorno. Gli sembrava di poter sentire ancora la voce di quelle persone che ormai erano solo pietre e silenzio. A volte si commuoveva, altre no. Ogni tanto capitava pure di sognarle. Il sogno giungeva come un regalo inaspettato ed evanescente della notte, destinato a sparire non appena la sveglia sarebbe suonata. Chiudere gli occhi una volta per incontrare nuovamente chi li aveva chiusi per sempre. Giovanni, dopo quest’ultimo pensiero, sorrise con amarezza.
Intanto continuava a camminare, adesso qualche nuvola aveva coperto il sole. Camminare a piedi non era più così pesante. Aveva anche smesso di sudare. Guardava le macchine e i motorini passare, quel giorno non aveva visto nemmeno una bicicletta. Nonostante le nuvole era certo che non avrebbe piovuto. “Meglio così” pensò, non aveva portato con sé ombrello alcuno, essendo ancora agosto. Le piogge settembrine quest’anno non sembrava che non avessero anticipato il loro ingresso in scena. Un altro pensiero, comunque, attanagliava la mente di Giovanni: lasciare una traccia del suo passaggio in questo mondo, oltre alla sua lapide con tanto di frase commemorativa. Prima o poi sarebbe toccato anche a lui far soffrire gli altri per un viaggio di sola andata verso legno, marmo, terra e buio. Della vita di uno sconosciuto ormai defunto si può sapere qualcosa partendo proprio dall’incisione sulla sua lapide, magari poi qualche foto, il racconto di un amico e nulla più. “Come si fa a rinchiudere un’intera vita in poche parole?” Non riusciva a darsi pace nemmeno di questo, non capiva come si potesse racchiudere tutto in degli slogan commemorativi quando alcuni scrittori hanno avuto bisogno di libri sani per descrivere un solo momento o stato d’animo. Su questo comunque non aveva dubbi: sulla sua lapide lui avrebbe voluto scritta la sua frase preferita di “Preghiera in gennaio“, “per quelli che han vissuto con la coscienza pura, l’inferno esiste solo per chi ne ha paura“. Era ossessionato dall’essere ricordato, “perché?” si chiedeva, considerando che una volta morto non avrebbe potuto toccare con mano il peso di quanto avrebbe lasciato. Ultimamente ci pensava così tanto che qualsiasi idea gli sembrava inutile e priva di dignità. Naturalmente, il rischio di vivere nell’ansia di cosa gli altri avrebbero ricordato di lui, facendo della sua stessa ambizione la sua condanna, era dietro l’angolo. Doveva svegliarsi da questa paralisi. A parole, però, tutto sembra facile. Sentiva di aver sprecato alcuni degli anni passati in studi che, col senno di poi, non avevano fatto altro che aumentare il suo senso di mediocrità e normalità. In passato si era sentito speciale, ma ora si chiedeva se invece si fosse trattato – e tutt’ora si trattasse – di semplice desiderio d’esser speciale. Non riusciva davvero a darsi pace e a togliersi dalla testa la prospettiva d’una vita vissuta nell’anonimato d’un’ordinaria routine. Svegliati, fai colazione, lavora, pranza, lavora, cena, dormi, ma non scordarti di trovare del tempo per crearti una famiglia e per i tuoi amici così che un giorno qualcuno possa ricordarti per l’affetto che hai saputo dargli in vita. Per carità, ci teneva ad avere una carriera capace di consentirgli una vita dignitosa e dei legami affettivi capaci di farlo sentire meno solo, ma questo non gli bastava. Aveva fame. Riusciva a dire a stento a sé stesso per che cosa avrebbe voluto esser conosciuto e ricordato. Adesso, stringeva con energia i gambi delle rose. Sentiva un penso enorme sulla bocca dello stomaco, sentiva lo sterno talmente compresso che quasi non riusciva a respirare. Contò fino a tre, sottovoce. “Uno… due… tre”. Provò a calmarsi, ma invano. Intanto era arrivato all’angolo del cimitero. Due passi a destra e sarebbe entrato.
Adesso le nuvole coprivano totalmente il cielo, ch’era diventato praticamente nero. In lontananza udì un tuono. “Cazzo, pioverà sicuro”. Forse le piogge di settembre erano semplicemente in ritardo rispetto al loro solito tempo d’anticipo. Entrando dentro il santo campo, non perse occasione di guardare con non troppa distrazione le lapidi che si ponevano alla sua sinistra e alla sua destra. Sembravano arbusti ai margini di una via che non portava da nessuna parte, se non ad altri arbusti. Una lapide in particolare catturò la sua attenzione, era dedicata ad un uomo defunto una decina di anni prima. Qualcuno gli aveva da poco portato dei fiori, sembravano appena colti. La scritta riportava “Lavoratore ed uomo esemplare”. Provò così ad immaginare come avrebbe potuto essere la vita di quella persona, provò ad inventare un racconto nella sua testa. Mentre pensava, guardò accanto. “Madre affettuosa, sempre presente”. Strinse ancora più forte i fiori che aveva comprato, rischiando quasi di spezzarli. Loro soffrivano per la sua morsa e lui per la morsa della morte che le lapidi esercitavano sul suo petto. Voleva distrarsi, ma non riusciva a non provare ad immaginare la vita di quelle persone. Il risultato però era abbastanza deludente, dato che non riusciva ad immaginare nulla, se non altre persone affrante per la perdita dei loro cari. Era un circolo vizioso, tutto sembrava confuso. All’improvviso si udì un secondo tuono, poi seguirono delle gocce d’acqua, poi il temporale. Giovanni iniziò a correre verso la cappella di famiglia: era quasi arrivato, entrò di corsa, spingendo con forza la porta. Era tutto bagnato, nonostante lo sprint per provare ad evitare la burrasca. Si sedette sull’unica sedia disponibile, tanto per ora non se ne parlava di uscire. Il rumore della pioggia gli impediva di pensare e così si mise a parlare. Sentì un rumore diverso da quello della pioggia. “Ehi! Quanto tempo… come state? Giorno di pioggia, l’estate sta finendo. Non me l’aspettavo. Ultimamente sono pieno di ansie, paura, angosce; dormo male la notte e non riesco a chiudere gli occhi prima delle quattro. Penso ad una canzone che non sento da un po’. “La notte non consiglia, c’ho l’angoscia fuori dalla porta che origlia”. Sono ossessionato dal sapere cosa ci sarà e come sarà dopo aver finito di studiare, poi dopo aver finito di lavorare, infine dopo aver finito di vivere. Dopo i giocattoli c’erano le elementari, poi le medie, il liceo, l’università, ma dopo l’università non ci sono di nuovo i giocattoli. Mi mancano i giocattoli, mi mancano tanto. Penso che ci potrei ancora giocare, costruire delle storie. Mi piace inventare le storie. Mi piace anche parlare da solo ora che ci penso”. Sospirò.
Sistemò le rose al loro posto ed uscì, pioveva ancora, ma nettamente più piano. Adesso si poteva camminare, anzi era quasi piacevole fare qualche passo sotto l’acqua, gli ricordava un film di Woody Allen. Guardò alla sua sinistra, il giardiniere aveva fatto cadere dei vasi, “ecco cos’era quel rumore di prima” pensò. Gli venne un sorriso carico di amarezza e nostalgia su per il volto, guardò le nuvole: stava per uscire di nuovo il sole.
Francesco Raguni