Cosa dire che non ti abbia già detto ieri? In verità, ci sarebbero alcune cose, forse parecchie, anzi una marea. Le parole molte volte lasciano il tempo che trovano, ma questo non è un buon motivo per risparmiarle. È sempre stata una mia prerogativa quella di parlare, il non tacere mai, ma ovviamente converrai non sia il caso di scriverle, perché certe cose si dicono e basta, la loro poesia si perde senza il suono di una voce a pronunciarle. Ed è proprio per questo motivo che potresti non sentirle mai. Il condizionale è un tempo strano, non ha il sapore del troncamento, ma neanche quello della certezza. Assume semplicemente il sapore che gli diamo in base alle nostre aspettative o timori. I timori forse lo condizionano maggiormente. Condizionale condizionato. Ci pensi? Perdona i miei giochi grammaticali del pomeriggio.
Tornando a ieri, cosa dire, appunto? Niente forse. Perché sono stato davvero bene. Si sia capito o no. Posizioni di apertura o chiusura (involontarie queste ultime) a parte. Discorsi devianti o intriganti, la sostanza è questa: mi farebbe piacere uscire ancora insieme. Magari dopo capirai che anche per te è così, dopo. Ma l’attesa non è tempo perduto, perché è giusto che i sentimenti e le convinzioni maturino spontaneamente. E allora ti donerò un fiore di stoffa o di cartapesta, un fiore che non marcisce, ma che non può provare l’emozione di sbocciare perché è nato sbocciato e non sbocciando.
Se fossi un’ape racconterei le mie “Memorie di un alveare” o “Memorie da prati incontaminati” o le giornate di ali di farfalla che si libravano in aria per poi toccare polline di felicità di fiori dell’amore. Ma se guardiamo in alto cosa vediamo, se non nuvole di plastica bruciata, nuvole grigie sopra le teste nostre e loro? Non sono più “candide distese di zucchero filato (che) galleggiano nel cielo davanti ai verdi monti e come nebbia a volte li nascondono dagli occhi di chi guarda”: questo scrissi in una canzone una ventina di anni fa, perché questo vedevo un tempo lassù, in alto. E vedevo molto di più di quanto veda adesso: c’erano frotte di uomini armati, uccelli cadenti, stelle in picchiata. C’erano.
Tornando ai miei “se fossi”, ti direi che se fossi un ragno scriverei un “Diario a otto zampe”. Ma sono solo un essere umano che a malapena deambula su due arti. È un difetto, ne sono consapevole e lo ammetto. Mentre la cosa bizzarra è che la gente tutta cerca di evidenziare i difetti altrui per consolarsi della propria inadeguatezza sociale. Io agisco esattamente all’opposto. Con il passato che mi ritrovo alle spalle, sulle spalle e su di una schiena curve dal peso di una vita non molto felice, ti parlerei con più effetto di “Memorie della mia casa disabitata”, all’interno delle quali ci sarebbe spazio per componimenti strambi: una “Ode alla muffa”, una “Ode al muro sgretolato”, una più scontata “Ode alla polvere”, compensata da una più originale “Ode al calcare in bagno”. Potrei scrivere una “Ode al mio compleanno”, di una torta senza candele, di una sola e simbolica candela, perché da qualche anno a questa parte non ricordo più quanti anni compio, né credo di volerlo sapere e mi auguro che quel giorno rimanga sempre la miglior occasione per non ricordare.
Prima o poi, gli altri se ne vanno. Vado anch’io. Diversamente, per il momento. Ma vado.
Francesco Foti