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Charlie Chaplin, Il monello, 1921

Non troverai mai arcobaleni se

continuerai a guardare in basso. 

-Charlie Chaplin-

Charlie Chaplin, Il monello, 1921

Con merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra. E non si tratta solo dell’estro ispirativo del poeta tedesco Friederick Hörderlin (1770-1843), estro sibillino per la rarefazione lirica della lingua, ma espressione comunque di un mondo interiore complesso edificato su esempi classici, Pindaro in particolare, modernamente sentiti. Si tratta della missione “divina” del poeta, male interpretata secondo sfondi psicologi e gnoseologici successivi. Così il Pittau, nel suo “Breviario di poetica”, ammette che l’incivilimento umano ha visto l’attività artistico-letteraria cominciare dopo che l’uomo ha raggiunto una certa stabilità e sicurezza di benessere materiale. In poche parole carmina non dant panem, secondo un antico detto latino, mentre sarebbe vero il contrario panes dant carmina. Al quale assunto, la poetessa portoghese Sofia De Mello corrisponde in questi termini: “l’arte non è lusso né ornamento. La storia ci mostra che l’uomo paleolitico ha dipinto le pareti delle caverne prima di sapere cuocere l’argilla, prima di sapere lavorare la terra. Ha dipinto per vivere. Perché non siamo solo animali stimolati nella lotta per la sopravvivenza.” Nè dimenticheremo il poeta inglese Arnold Matthew che, sul finire dell’800, aveva idee chiare in merito, se poniamo fede a quanto scrive: “Nella Grecia di Pindaro e di Sofocle, nell’Inghilterra di Shakespeare, il poeta viveva in una corrente d’idee che animava e nutriva in modo altissimo il potere creativo; la società nella misura più piena era come permeata da un pensiero fresco, intelligente, evidente; tale stato di cose è la vera condizione per l’esercizio del potere creativo. In questa condizione il potere creativo ritrova i suoi dati, i suoi materiali, proprio come messi lì, davanti alle mani, e tutti i libri e le letture del mondo hanno valore soprattutto quando gli siano d’aiuto.” Mettendo inoltre in relazione l’otium degli antichi Romani con l’attività disimpegnata della poesia, si chiarisce ancora di più l’equivoco che mette la poesia e la letteratura in relazione con l’età pensionabile, all’elevato livello economico e al tempo libero a disposizione. Secondo questa “filosofia” il poeta infatti avrebbe bisogno di una serenità dello spirito, per esprimersi con distacco dalla materia trattata, lontano da gravi ed urgenti preoccupazioni di carattere materiale ed esistenziale. In questo caso ad es. il nostro Hölderlin, date le sue peripezie, non avrebbe mai potuto conseguire la laurea poetica. Abbiamo comunque ripreso questi momenti, perchè si distaccano e contrappongono al nostro punto di partenza che è l’abitare poeticamente la terra, mentre esasperano la fenomenologia  del moderno esistere, esitando ad ammettere che il progetto poetico arrivi a superare materiali contingenze. Come se dalla non produzione alla produzione poetica il passo fosse breve e non presupponesse spesso un impegnato tempo di letture e meditazioni, perché non tutti possono essere compiutamente poeti a diciotto anni come Rimbaud, che oltre tutto ebbe le sue traversìe. Mi ricollego ad esempio alla prima opera della scrittrice Dolores Prato, che ha pubblicato il suo “Giù la piazza non c’è nessuno” all’età di ottantotto anni. Mentre con consapevolezza spesso il poeta tritura le parole della sua sconfitta, Hölderlin come Ripellino nei versi da Notizie dal Diluvio (1969): “Assedia anche me il coprifuoco , il deserto lunare./ Penso ai cionchi sprovvisti di grucce,/ ai vecchi e ai malati,/ agli abbandonati./ Chi li andrà più a trovare?“; oppure da Sinfonietta (1972): “Un giorno sarai abbandonato,/come un riccio di una strada campestre”. Una maledizione che soprattutto Rilke riprende, da fuggiasco pellegrino della vita. Vittima della leucemia, nel decaduto castello di  Mouzot, Rilke riallaccia con Hörderlin il colore del primo verso della lirica In lieblicher Bläue blühet ( In adorabile azzurro fiorisce) al misterico e determinato habitat dei versi finali …. Voll Verdienstt, doch dichterisch, wohnet der Meensch auf diser Erde. Nei quali l’emozione diventa sacrale espressione del contenuto, come ammette Giachery da critico letterario più che da poeta ma autore lo stesso di un meditato “Abitare poeticamente la terra”, essendosi ritagliato nella saggistica uno spazio di scrittura adatto a sé da passeggiarci dentro con profitto e gusto. Pur non dimenticando quanto sostenuto da Paul Valèry, secondo cui l’esercizio della critica letteraria dovrebbe essere severamente vietato a chi non possiede una grande fame di poesia. Emerico Giachery, già ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea a Tor Vergata, novantenne dalla cultura nutrita da variegati eventi e circostanze, che mi invitava a raccogliere il suo invito. Poetico invito.  “Se passa da Roma, spero venga a trovarci… Dal balcone le farei ammirare un pezzo di Colosseo e la Torre del Campidoglio. Se ha una vista eccezionale può vedere, da una finestra della Torre, il sindaco Virginia Raggi che agita il fazzoletto per salutare. Se ha buon orecchio, può sentire aleggiare nell’aria la voce di Pasquino che dice: “Di Roma il sol, coi suoi Virginei Raggi,/ illumina il villan con la sua Marra./ Giunge un Romeo, nel fondo stride un Grillo./ su ciò son già diversi Carmi-nati”. Ma queste son beghe cittadine. Poi il suo discorso sui dialettali comincia ad esplorare il dialetto siciliano pieno di sapore, e di seguito l’ortonese di Dommarco o quello aspro e montanino di Tortoreto. Sottolineando infine  il sapore meno appariscente, nell’anconetano di Scataglini. E se a questo punto capisci che cosa ci porta ad abitare poeticamente la terra, il miracolo è avvenuto non solo per una scommessa con qualcosa di sfuggente che resiste nei secoli, nonostante i virtuosismi scolastici o le impressioni cantabili, ma anche perché di quel significato qualcosa è arrivato fino a noi, mettendoci in opposizione alla fretta globalizzata del nostro tempo e a previsioni meteorologiche impreviste che ci hanno posto di fronte alla retorica del bene-male in politica.  Ma anche di fronte alla quarantena della fede e alle piazze deserte per discorsi urbi et orbi, mentre non si tratta solo di proteggerci con atti di “macelleria eucaristica”, come qualche prete solennemente ammette. Si tratta forse di un’assenza di coraggio o di un atto di orgoglio sulle inesistenti forniture sanitarie. Finora ci ha forse troppo tentato una sanità in frangetta e tacco dodici, rampante quanto basta da ritenere inopportuno un atto poetico come la fornitura degli speculi agli ambulatori, fino a mandarci in trincea senza armi. Se ci siamo allora convinti che questa aziendalizzazione non funziona è anche perché la stessa  ha creduto di non avere più  voce per cantare, dimostrandosi una perdente festival. Naturalmente ci sono nature completamente refrattarie alla poesia, come le ungarettiane pietre del Carso, per molti inoltre la poesia non è il cibo dell’anima, perchè le nostre sono più anime da bollettini, conteggi sull’andamento della peste, sulle benevoli precipitazioni e sulle smentite. Con le incerte verità che si susseguono e si contraddicono, recentemente mi è capitato di andare ad un funerale e di annotare, nei pressi dell’omelia, la sospensione della funzione per un conteggio sui partecipanti. Qualcuno si è sentito rimproverato e ha alzato i tacchi. Doveva essere un non parente, esonerato dunque dal farsi coinvolgere e rattristarsi. Asservimento politico sanitario, che mi ricorda la guerra 1915-18. Quando ero piccolo qualcuno di quei reduci m’aveva infatti raccontato che, poco prima di essere mandati all’assalto alla baionetta,  il cappellano militare veniva  a dire loro che chi muore sul campo di battaglia va in Paradiso. Anche allora la poesia aveva vati e vagiti diversi,  ma sempre di una sacralità più esibita che sentita. Mentre altri modi sono oggi necessari per vederla e corteggiarla significa viverla, perché la poesia ci invita ad abitare la terra. Secondo Eduardo Galeano infatti viviamo una realtà in cui il funerale è più importante del morto, il matrimonio più dell’amore e il corpo più dell’intelletto. Dentro di noi c’è la cultura del contenitore, che disprezza il contenuto…

 

Con merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa  terra. Anche se la poesia presuppone a volte un esito di sconfitte. Gli eroi infatti scelti da Hölderlin , Iperione ed Empedocle, sono eroi vinti, così lo stesso poeta che per più di trent’anni trovò rifugio nella follia. Quando nel 1822 circa il diciottenne Wihelm Waibliger comincia a frequentarlo, Hölderlin vive ormai da oltre vent’anni recluso nella “Torre”, sulla riva del fiume Neckar. Ma il giovane studioso, nelle sue occasionali visite, riuscì tuttavia a penetrarne il delirio parlando con lui di poesia, di musica e degli anni trascorsi a Tubinga e a Weimar. Il libro “Friedrick Hölderlin. Vita, poesia e follia” fu scritto da Waibliger in Italia fra il 1827 e il 1828. Per rintracciare Hölderlin, attraverso la filosofia di Heidegger, faremo poi riferimento ai tre libri pubblicati dallo stesso in tempi diversi.

Innanzi tutto “Essere e tempo” (1927), un’opera tra le più significative del ‘900, nella quale Heidegger ripropone il problema dell’essere, interpretandolo come un Esserci (Dasein) e  articolandolo in due modalità intrinseche: la situazione emotiva e la comprensione. Il senso dell’Esserci consisterebbe poi nella cura (preoccupazione di occuparsi di qualcosa), in relazione con la temporalità. Secondo il filosofo tedesco infine si può vivere autenticamente solo se si pensa alle esperienze più decisive della vita umana: l’angoscia e la morte. In questo contesto un indubbio valore mantengono la poesia e le arti in genere, perché il loro linguaggio non è riconducibile ai tradizionali modelli metafisici, mentre custodiscono ancora qualche traccia della verità greca, permettendo di entrare nella “casa dell’essere”.

La poesia di Hölderlin  (1944) rappresenta un ulteriore sviluppo del rapporto tra linguaggio e poesia, già delineato nella conferenza L’origine dell’opera d’arte. Nel saggio sulla poesia di Hölderlin, in particolare vengono approfonditi cinque momenti-guida, che Haidegger estrapola dalle opere di Hölderlin: il poetare come occupazione innocente e il linguaggio in quanto pericoloso bene, il colloquio coi Celesti, per arrivare ad una soglia di verità imprescindibili, perchè “ciò che resta lo istituiscono i poeti”, mentre “pieno di merito, ma poeticamente abita/ l’uomo su questa terra”.

Infine Saggi e discorsi del 1950, raccolgono conferenze e seminari del filosofo tedesco, accomunati da una certa immediatezza in rapporto con la realtà, interessando la scienza ma anche il rapporto pensiero-poesia e alcuni concetti della filosofia greca.  Tra i quali saggi, un posto a parte merita “Poeticamente abita l’uomo”.

Secondo Vattimo la discussione su Heidegger deve tenere conto di due momenti: la relazione essere-tempo e il carattere poetico di tutte le arti. Innanzi tutto l’essere, risolto   in chiave esistenzialista, secondo una cultura sviluppatasi nella Germania degli anni ’20, in cui il concetto di esistenza diventa modo di essere dell’uomo, in opposizione ai sistemi filosofici che risolvono l’individuale nell’universale. L’Essere infatti viene da Heidegger distinto dall’ente e quindi in polemica con la metafisica, che concepisce l’essere sul modello degli enti, cioè delle cose. Anche la spazialità sarebbe ricondotta alla temporalità dell’esistenza e nell’opera L’arte e lo spazio l’esistenza viene descritta in termini spaziali e non viceversa, individuando “l’accadere delle verità come un fare spazio, in quanto ciò ci riconduce alla dimensione dell’abitare”. Tutto questo se ci manteniamo nell’asse Hörderlin-Heidegger, ma abitare poeticamente la terra  diventa anche un testo di saggi (2008) curato da Portoghesi, che ha insegnato alla Sapienza ed è stato il primo direttore del settore architettura della Biennale di Venezia, il quale confessa come progettista di avere un debito verso l’insegnamento della storia e di cercare un’architettura urbana in rapporto al luogo, rispettando la memoria personale e collettiva. L’analisi esistenziale di Heidegger, riconducendo ogni manufatto alla dimensione dell’essere temporale dell’uomo, comporta un concetto diverso dell’abitare come anche dell’esistere. Ed è un prendere sul serio il poetico, rapportando il poetare più che a un volo fantastico, abbandonando la terra per il cielo, al ricondurre l’uomo sulla terra, restituendolo all’essenza dell’abitare. Quanto sostenuto dal filosofo tedesco Heidegger, ci permette perciò di interpretare la “fuga degli dei”, in  relazione all’essenza dell’abitare e della poesia ossia al guardare in alto, che è comunque un misurare-disporre. Il poetare, secondo Heidegger, rende l’abitare un abitare. E poichè “abitare poeticamente” significa essere toccati dall’essenza delle cose, secondo Vattimo i versi del poeta tedesco definiscono la grazia dell’uomo. La poesia come rischio però fino ad un certo punto, perchè come dice Hörderlin “Dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva”. Ma anche guardando con sospetto il poetare, in quanto attività ludica lontana dalla decisionalità, la impoeticità del mondo moderno non potrebbe smentire la parola del poeta, perché un abitare potrà essere impoetico ma nella sua essenza invece è poetico, anzi la poeticità è un occhio in più di conoscenza. Fino a quando durerà il poetare autentico? Secondo Hölderlin Fino a che l’amicizia,/ L’amicizia schietta dura ancora nel cuore,/ Non fa male l’uomo a misurarsi/ con la divinità… Ma abitare al giorno d’oggi significa innanzi tutto possedere, mentre l’abitare di Hörderlin vuol dire esserci ed è anche costruire perché noi perveniamo ad una abitazione col costruire e l’uomo si comporta come creatore del linguaggio, mentre in realtà il linguaggio rimane il signore dell’uomo e ci indica l’essenza di una cosa. La poesia perciò viene negata, dispersa in vano sentimentalismo o catalogata in appariscenze letterarie, spesso collegata all’attualità del momento, soggetta a mode e ad una mutevole opinione pubblica. Il guardare in alto supera la distanza tra noi e il cielo e ne misura la dimensione. L’uomo pertanto in questa dimensione può vivere e abitare la terra, anche se abitare poeticamente il mondo  deve tenere conto di una società capitalistica, in cui l’io Kantiano è sostituito dall’io monetario. La verità è che l’uomo si è isterilito nella prassi dell’esistere, volendosi conservare a qualunque costo in un mondo ottuso, dedito a sterili progetti. Ma abitare poeticamente significa essere toccati dall’essenza delle cose, significa rendersi conto che siamo circondati da oggetti vani a cui assegnare nomi, vuol dire liberarsi di cariche-medaglie che la società ci ha appuntato. Invece la poesia rivela il senso di questo non-senso che ci toglie l’essere e la verità, perchè deve condurci a scegliere interpretando la falsa realtà che siamo costretti a vivere. In questo caso un catalogo di bon-ton poetico procederebbe per accumulazioni. E anche se noi daremo il nostro suggerimento, poi ognuno aggiungerà il suo.

Marinus van Reimerswaele, Cambiavalute, 1540 olio su tavola

1- Abitare poeticamente significa stupirsi, accendersi di fronte all’inesplicabile perché, come ammette Keats, il poeta è la meno poetica delle creature: non ha identità, ma di continuo foggia e riempie qualche altro corpo… “Quando sono in una stanza fra la gente… allora non riesco ad essere più me stesso, ma la personalità di ciascuno dei presenti comincia a soffocarmi….”. Questo alla radice, perché siamo oberati da virtuosismi opposti e da un lato l’uomo moderno opera dentro una negatività positivistica che tralascia lo stupore di fronte alla realtà dell’uomo che è irripetibile, dall’altra c’è una scienza da passerella, che definisce poesia sogno e inefficienza. E questi aspetti realizzano l’infelicità non la verità, l’arroganza ma non la consapevolezza, la presunzione di spadroneggiare nell’incertezza dell’esistere, per cui la verità, mentre è solo un orpello e un falso idolo, ostenta al mondo la propria versione ma non la sua essenza. Ma proprio questa apparente sconfitta, questa non presenza della poesia la impone perentoriamente. Perchè bisogna tornare alle sorgenti della vita senza sporcare l’acqua, perchè poetare significa trovare forma e colore mentre la realtà ci abitua alla banalità delle parole, significa trovare vie d’uscita svegliandole dal profondo. Dobbiamo riconoscere cioè che la dissoluzione dell’identità culturale porta il poeta a non fare del mondo la propria casa. Allora il poeta deve liberarsi della cultura enciclopedica, concedersi soltanto l’arma della saggezza, un cuore predisposto all’ascolto e una mente incline al dissenso, perché il resto è oscurità. E non si tratta di rivelare prospettive e nuove classificazioni all’uomo di scienza o al filosofo, perché si tratta di esprimere la bellezza.

2- Altro momento in sintonia col poetare, è quello di ritrovare le voci del tempo come ha fatto Emerico Giachery. Proustiano finchè si vuole, ma “Voci del tempo ritrovato” ha una voce limpida di ricerca che ringrazia Dio, con riconoscenza e con compiacimento, come un atleta che ha raggiunto un traguardo significativo e magari può scherzarci un pò sull’età e sui tempi: “Avrei ancora l’età giusta per diventare Presidente della Repubblica. O magari Papa… Ma è poco probabile che io diventi l’uno o l’altro. Dovrò accontentarmi di meno appariscenti occupazioni e rinunciare a prendere appunti per il saluto  di Capodanno agli Italiani o per una possibile Enciclica”. In questo senso mi sembrano determinanti le ispirate pagine del suo “Voci del tempo ritrovato”, quando ci viene anche indicata la nostra strada con l’invito a percorrerla, cominciando dal minimo, da un semplice atto di simpatia, da un sorriso, da un dono modesto  e da un gesto di perdono. Anche la rinuncia a un pregiudizio “è un contributo non trascurabile a rendere più abitabile il mondo”. Ma in ogni caso bisogna ammettere una lungimirante spiritualità, la stessa che fa dire al Priore di Bose: si tratta per tutti di essere fedeli alla terra, fedeli all’uomo… E’ della giovinezza dell’anima che parla Giachery, la quale può realizzarci piuttosto che le “liete voglie sante”, che insinuano una zaffata di retorica pietistica nel più alto e generoso degli Inni sacri manzoniani ed è l’amor vitae che si fa benevolenza, gratitudine, impegno a capire il diverso e il presente. Le aperture non devono mancare: apertura all’Essere, allo Spirito e al Divenire, apertura verso gli altri, verso le grandi idee, verso la bellezza, verso le speranze e gli orizzonti di luce. E scegliere paesaggi aperti. Cercare pensieri positivi e non parlare dall’alto piedistallo della propria saggezza, non fare diventare i ricordi saccenteria ma solo fotogrammi del vissuto così nelle “ Epifanie di temps retrouvè come Proust ci ha insegnato”. Per abitare poeticamente la terra bisognerebbe avere sgranocchiato biscotti in forma di lettere dell’alfabeto. Dopo anni, se ne potrebbe risentire il sapore e riconoscere ciascuna delle lettere prima di portarle alle labbra. Una ricerca di poesia questa, alla quale ha contribuito la scuola, nel caso di Giachery gli approcci della scuola elementare Diaz di Roma, Gentiliana e Pascoliana.  Ma il destino di allora non è lo stesso di ora, represso da un permissivismo e da una analfabetizzazione galoppante, nonostante o forse proprio per una informatizzazione esasperata, e una comunicazione monosillabica di affetti. La scuola d’allora per certi versi dignitosa anche se classista, se considerata sotto un profilo socio-politico. Ma non è nemmeno da disprezzare quanto il biologo Montalenti ha dimostrato, concedendo alle materie scientifiche una particolare incidenza formativa anche sul linguaggio. Amo, amerò sempre le corrispondenze tra poesia e vita ammette Giachery. Ed è pure un segno cosmico quello che Kant ha definito il cielo stellato sopra di noi, cielo che pure Verga fa apparire nel dolente mondo di Aci Trezza regalandoci i Tre re (Orione) e la Puddara (Pleiadi), che corrisponde alla Chioccetta del Pascoli, uno dei pochi dotato di liricità cosmica insieme a Leopardi. Ma anche senza stelle il Cielo del Principe Andrej, nella  terza parte del primo libro di Guerra e Pace, parla al cuore dell’uomo… Come mai prima non mi accorgevo di questo cielo così alto? E come sono felice di averlo riconosciuto…. Sì tutto è vano, tutto è inganno, fuorchè questo cielo sconfinato. Nei suoi quaderni internazionali di poesia Enrico Falqui può permettersi di sperare nel soccorso della poesia, perché il mondo nasce e rinasce in fantasia e poesia, secondo un avvicendamento vichiano. Così anche Sergio Solmi, commilitone di Montale nella prima guerra mondiale, ammette di avere creduto, con i giovani di allora, a poche cose e fra queste certamente alla poesia.

3- Ma comunque i versi di Hölderlin inquadrano in profondità e allargano il termine di poesia. Poesia come solitaria alchimia, nel caso di Rilke, che accompagna la sua leucemia, fagocitandone a poco a poco la vita e trasformando la morte stessa in essenza poetica. Perché i versi sono esperienze e bisogna viverli prima di scriverli. E trascriviamo dai “Quaderni di Malte”…Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si schiudono all’alba. Occorre poter ripensare a sentieri dispersi in contrade sconosciute; a incontri inattesi; a partenze da lungo tempo presentite imminenti; a lontani tempi d’infanzia ravvolti tutt’ora nel mistero; a nostro padre e a nostra madre, che eravamo costretti a ferire, quando ci porgevano una gioia incompresa da noi perché fatta per altri; alle malattie di puerizia, che così  stranamente si manifestavano con tante e così profonde metamorfosi; a giorni trascorsi in stanze  silenziose e raccolte; a mattini sulla riva del mare; a tutti gli oceani; a notti di viaggio che scorrevano altissime via con tutte le stelle… Parole destinate a chi scrive versi, ma non solo…  anche a chi non li scrive e vuole affidarsi alla fruibilità poetica della vita.

 4- Ai poeti però non si devono richiedere esempi di vita, perchè si potrebbero rivelare incapaci ad offrircele. Ai poeti bisogna richiedere pagine che trascendono e redimono l’uomo, illuminazioni di verità, universi da tradurre nella vita di tutti i giorni. E questa prospettiva deve riguardare i mansueti. Beati i mansueti, perché i prepotenti appartengono a un’altra razza. Già da questo puoi distinguere chi abita poeticamente la terra e per questo i bambini sono i primi abitatori poetici della terra, quando si permette loro di vivere pienamente l’infanzia. Uno stupore quello dell’infanzia che secondo Pascoli si avvicina alla poesia, tanto che Saint-Exupery dedica Il Principe Felice all’infanzia di Leon Werth. E se riflettiamo   sull’ abitare un nuovo destino, risaltano ancora una volta le parole di Horderlin:  “ma l’uomo abita in capanne, e si ricopre di veste pudica, perché è più raccolto in sè e più attento anche a serbare lo spirito come la sacerdotessa il fuoco celeste; questo è il suo genio”.

5- La poesia della casa, nella vita dell’uomo,  non può fare a meno dei lari domestici. Secondo l’illustre epistemologo francese Bachelard, la casa moltiplica consigli di continuità… E’ il primo mondo dell’essere umano. E come questi domestici numi anche la poesia illumina il nostro abitare poeticamente sulla terra, così nei quadri dei pittori del 600 olandese, Veermer tra tutti e in epoca successiva  gli interni di  Pierre  Bonnard. Secondo Hilmann “L’anima del luogo deve essere scoperta allo stesso modo dell’anima di una persona”. All’anima della casa la nostra permanenza contribuisce in maniera essenziale, perché diventa parte di noi e noi diventiamo parte dell’anima della casa. Abitare la casa è perciò una dimensione possibile dell’abitare poeticamente la terra e richiede una pietas, un’attenzione oggetto della riflessione filosofica nel secondo Novecento, ad es. in Simone Weil. Nella tradizione giapponese gli oggetti della casa vengono trattati come creature vive e lo stesso Hilmann insiste sul fatto che, presso gli antichi Egizi, ogni oggetto parlava degli Dei, dal cofanetto dei cosmetici  al fiume o al deserto. Non necessariamente poi la casa dell’anima corrisponde a quella natìa, ma deve invece coincidere con l’essere simbolico che è l’uomo ed è perciò la casa con l’anima che si oppone alla casa del nostro consumismo. Oggi è tabù usare la parola sacralita’, per molti sintomo di retorica. Ma ammette Giachery: la Casa più sacra che io conosco è la Casa del Nespolo, di cui  Padron ‘Ntoni è sacerdote e salmista, secondo la memorabile definizione di Luigi Russo. Di questo fare anima ne è consapevole lo stesso psicologo analista junghiano che ammette: “La vita in se stessa è religiosa. Non c’è separazione fra il secolare e il religioso”. E come dice Giachery: la nozione di poesia coincide con la pietas, con l’attenzione contemplativa, con la benevolenza, con la capacità di stupirsi, di entusiasmarsi, di ringraziare, di capire, con la cortesia e nobiltà d’animo, con l’amore per ciò che è spiritualmente alto, sia nella gioia sia in quella malinconia che a Croce pareva il volto stesso della bellezza. Ma Hilmann va oltre ammettendo che i fondamenti della nostra mente non sono né ideologici, né biologici né linguistici, ma poetici. Ed è la materia poetica- metafore, simboli, parole- il mistero fondamentale della vita umana. Ci resta però un interrogativo, perché questo tendere e capire non basta ad arginare il senso di frana. Leggiamo da “Voci del tempo ritrovato”…Non chiudiamole mai le finestre interiori. Improvvisi, a volte, ecco momenti di grazia. Debbono trovarci spalancati ad accoglierli.

Charlie Chaplin, Tempi moderni, 1936

Tanto ancora ci sarebbe da dire sulla rotta di questa nostra nave che, come dice Seneca, non sa a quale porto vuole approdare o sul rapporto tra alfabetismo e analfabetismo, che secondo Montale è costante. Perché al giorno d’oggi gli analfabeti sanno leggere, come ha detto Eco, prima invece gli imbecilli parlavano solo al bar, dove subito venivano zittiti. Mai come ora tuttavia è fruibile il mutismo di Chaplin, tanto che lo stesso Einstein glielo confidò amichevolmente: “ciò che ammiro di te è che non dici una parola, ma tutto il mondo ti capisce”. Fruizione di un’arte che è soprattutto poesia dei tempi moderni, perchè Chaplin si chiede che cosa siamo diventati. Capisce che la macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà. La scienza ci ha trasformato in cinici, l’avidità ci ha reso duri e cattivi. Più che macchinari, ci seve umanità. Più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità, la vita è violenza e tutto è perduto. Una constatazione amichevole, ma anche uno sfogo d’artista. Tanti si sfogano anche oggi: politologi, sociologi, virologi, opinionisti… e  l’amaro che resta è per una terra gestita da malfattori. Ma l’aveva anche detto un poeta di duemila anni fa, come si legge in un papiro: “Non ci sono più giusti. La terra è abbandonata ai malfattori”. Dobbiamo comunque affrontare la vita con un sano umorismo quotidiano, utile ad accrescere anche un milligrammo di gioia, utile a superare pregiudizi, alimentare benevolenze, accendere attenzioni. Un umorismo alla Carlyle che sgorga dal cuore più che dal cervello … la cui essenza è amore, la cui soluzione non è nella risata, ma nel quieto sorriso che viene da maggiori profondità. Umorismo che si fa unica cosa con l’umiltà, mentre ci circondano profeti e santi arcigni e saccenti. Abitare poeticamente la terra inoltre presuppone un lavoro spirituale, non solo intellettuale. E spirituale è un vocabolo inviso a una moltitudine non necessariamente materialistica, ma è una misura da non addetti ai lavori, una comunicativa che va oltre alle categorie discrezionali da onniscienza internet come fa capire Rosario Assunto prof. di estetica ad Urbino nel 1956: “sempre altro dice la poesia, ad ascoltarla e a leggerla; proprio perché eccede rispetto alla comunicazione, e per questo acquista quel senso…, che ci solleva al di sopra della nostra umana caducità”. Perché il poeta offre una intensità di emozioni sulla verità del suo tempo ed educa la nostra a volte inquietante condizione. E ci trasporta in una entità sopraindividuale, come dice Montale, trasmissibile da iniziato a iniziato. O come arriva ad ammettere in un suo saggio Luciano Anceschi: …e la poesia si fa principio di una nuova astratta fiducia, che riscatta la vita e riscopre ciò che può essere conservato… E secondo il giudizio di Stephen Spender nell’inferno amaro e disperato della vita contemporanea, là dove, nella luce della poesia, Baudelaire indica tutto ciò che può essere condannato, Eliot, forse con più umiltà, indica tutto ciò che può essere salvato… Anche se distaccati, ci accomuni tuttavia una costanza di intenti ed  ampio è l’obiettivo del poeta, che vede il mondo davanti a sè cercare un filo di speranza. In questa prospettiva ci accompagni allora il consiglio di Piero Scanziani, scrittore svizzero già candidato al Nobel per la letteratura: salendo sul ponte che scavalca il fiume del tempo, volgetevi sempre dalla parte della sorgente e mai dalla parte della foce…

C’è chi accende un lumino, perché sente che è doveroso e bello accenderlo, anche se poi una raffica ostile, o soltanto indifferente e ottusa, lo spegnerà. Appartengo a questa categoria di persone.

Emerico Giachery-

Salvatore Bommarito