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Le dita della morente afferravano il bordo del giornale, la penna in uno spasmo. Ho capito, ho capito, il dottore si nascondeva dietro il solito sorriso, o ghigno, ho capito, vuoi continuare, sicuro, adesso non puoi più smettere. Sei come gli altri ora, sei come tutti ora, ghignava il dottore.
Irrompevano nella birreria, sego lucido di sudore, e grongo di malavoglia. La realtà esterna, nubi e scirocco, inciampava d’un tratto nell’antro di bottiglie, botti esalanti, rubinetti che gocciavano spume. Navi, madri addormentate, storie bugiarde, risate, puttane della notte scioglievano nell’oscurità putrida di fermenti, come non aspettassero altro, tra i banchi scavati nei vini e le birre. Scalogna s’acquattava, medusa si gettava su una sedia, sego giracchiava tra i tavoli, grongo continuava a scrutare il buio.
– Tu! – Chiamavano sego, gli facevano cenno dal tavolo dove sedevano i caporali. La realtà s’addensava nei volti invisibili dei capi seduti nell’angolo più scuro della bottega. – Domani notte, tu e i tuoi amici, tenetevi pronti! E’ un carico grosso! –
– Allora grosso guadagno! – Rilanciava sego.
I caporali non rispondevano, figure senza facce né corpo, e sego s’azzittiva. Le figure senza corpo s’alzavano dal tavolo, sparivano sull’uscio. Ma attenti, compari, c’è una spia, qualcuno fa la spia alla finanza, lo sappiamo, e lo pigliamo, lo pigliamo, e quando lo pigliamo…
– Avete capito? – Sego agli amici. Sfregava indice e pollice, domani notte! Ma era più attratto dall’azione che dal denaro.
Sì, mormorava grongo. Ma piuttosto fissava le bottiglie impolverate sullo scaffale, erano sirene, erano padroni, padroni come i caporali appena usciti dalla birreria, incanti e catene. Medusa intanto liquefaceva sulla sedia, scalogna si perdeva nel buio.
Il birraio dietro il banco si toccava con un dito la fronte, indicando di nascosto i ragazzi ai clienti. Sporgeva una testa rosata come un trancio di tonno, di quelli appesi ai ganci dei pescivendoli. Si massaggiava il capo pelato e il collo, coriacei come pelle di tonno. Faceva schiumare misture, strabuzzando occhi tondi, torbidità di pesce morto, denari ne avete, ragazzi? Senza denari non si consuma, non si beve. Oh, che dite? Non ci sono stati sbarchi questa settimana, peccato, non avete soldi in tasca, oh, mi pagate domani, dite, ma domani potreste esser morti e affogati, miei cari, domani potrei esser povero in canna, io, domani. Scuoteva la testa, ammiccava ai clienti, e quelli rispondevano dall’ombra marcia della bottega. Tu, ne hai soldi, grongo, ragazzo mio?
Ma grongo non ascoltava, girava lo sguardo all’oscurità, e ai suoi esseri, mormorava parole dallo stomaco senza coscienza. Le bottiglie, sirene, diventavano schiere, eserciti, s’ingrandivano a dismisura, si proiettavano dalle scansie, pronte a incantare e invadere la terra, a travasare e allagare la terra.
Il birraio accennava ai clienti: – Che dice, questo? Parla con la pancia. – I fermenti della bottega, che gli ribollivano in petto, d’un tratto uscivano dalla gola come un rutto e un riso.
Gli accordavano da un angolo della bottega. Buttalo fuori, è matto, lui e i suoi amici. Fuori! Ma già qualcuno provava un brivido, fuori? Si guardavano in faccia tra l’ombre. Fuori lo scirocco svaporava, e le vie erano un labirinto. Matti o no, va bene, lasciali stare. – Che t’hanno rubato la donna? –
Il birraio lanciava uno sguardo per cercare chi avesse parlato: – Mia moglie è morta. – Morta! Emetteva un altro riso o rutto di fermenti. Non era vero, sua moglie era scappata di casa. Un giorno qualcuno l’avrebbe pagata per questo. Qualcuno, chiunque, doveva pagare. Grongo? Ne avete soldi per pagare, giovani?
Adesso ghignavano tutti nella bettola. Pensavano alla moglie del birraio, l’avevano vista in città, con uomini diversi, uno non le bastava. Chissà se Rina, sua figlia, secca come una lisca, avrebbe fatto lo stesso, sempre in giro per le vie. Sangue non mente, ghignavano. Adesso ghignavano tutti.
Ce li ho, i soldi, grongo d’un tratto batte sul banco, esce soldi e coltello dalla tasca, eccoti i soldi! Sego batte anche lui un pugno su un tavolo, medusa stravolge una faccia, sorpreso, scalogna si nasconde.
Il birraio si commuove subito, posa, posalo, il coltello. Ritira lesto il denaro dal banco, va bene, va bene, potete pagare, siete bravi, voi giovani. Prende le bottiglie, affogatevi. Ne porgeva una. La tendeva con la mano, una pinna da spettacolo d’acquario, la tirava indietro per gioco, ma senza strafare. – Che facce! Brutto scirocco, vero? – Ma io ho il rimedio, eccovelo, fresco, spumeggiante come il mare di dicembre, birra fatta in casa come comanda. Le sirene, le bottiglie, le sirene vetrificate lo spalleggiavano naturalmente, gorgogliando schiume, facendo fremere tappi. Fuori il fischio dei traghetti taglia la notte come una ferita, i cani abbaiano angosce tra nebbie di scirocco, fuori i passi di qualcuno rotolano in fretta sulle vie, in fuga da chissà che, ma qui ci siamo noi, le sirene. – Ora andatevene, ragazzi! – Mormorava il birraio fra dolcezza e violenza. Il coltello, rimetti in tasca il coltello, l’uomo si ritirava nell’ombra delle sue bottiglie. Sì, lo so, fuori lo scirocco appiccica, le zanzare, lo so, fuori il silenzio muore tra i randagi e i fischi dei bastimenti, andate via, adesso, mormorava con grazia.
I ragazzi arraffavano le bottiglie, uscivano di corsa. Le sirene restavano uniche vincitrici su tutti, anche sulla testa di pesce del birraio, anche sulle narici ebeti e le labbra piene di panzane degli avventori.
I ragazzi già rantolano fuori per la birra e lo scirocco. Si raggomitolano come feti nell’angolo di viuzze, nel puzzo d’urina stratificato, carezzando bottiglie ormai vuote. Finiscono la notte tra il fischio d’un traghetto e lo scoppio delle bottiglie lanciate ai muri.
Sono stanco, voglio dormire, biascica medusa. Lontano s’intravede un chiarore, forse d’alba, brancolano argani e alberi di navi. Anch’io sono stanco, echeggia scalogna. Sego fa la faccia sconvolta di poco prima, lui non è mai stanco. Grongo borbotta ancora parole con la pancia sciacquata di birre. Le sirene del mare? Sego ride, poi tossicchia, una luce preoccupata gli balena nell’occhio. Di che parli? Navi senza porto? Acque impantanate? Carcasse di bastimenti piene di topi? Marinai d’approdi senza sole, di lingue sconosciute, ubriachi di oceani e alcol, padri e madri senza figli? – Sei già ubriaco, grongo? – Anch’io voglio essere ubriaco, grongo.
– Le sirene! –
– Cosa? –
– Le sirene! – Fianchi di velluto come bottiglie bisunte, voce incantatrice come gorgoglio di birre in fermento.
Una musica di fisarmonica si solleva, lontana. Che dici, grongo? Sego vuol ridere. Le sirene, sono le sirene? E’ la loro musica? Ha ragione il greco, a sentire la musica delle sirene si muore. Sego vuol ridere.
La fisarmonica s’ottunde in lontananza, Vanda e le puttane ci si sono messe a cantare sopra. – Venite, ragazzi. – Chiama Vanda dalla notte di vapori. Travestiti e puttane del porto mugolano canticchiando. Fanno segni sventolando le gonne. S’asciugano le facce sudate di trucco. Restate qui, chiamano, anche se sanno che i ragazzi non hanno soldi e puzzano di birra.
Un’altra volta, medusa si tocca nei pantaloni, un’altra volta, se rimangono gli altri. Grongo invece tira avanti. Sego lo segue, fa un gesto alle puttane, a rimandare, scaccia l’occhio a chi non può vedere. Scalogna trotta dietro.
Vi aspettiamo, sghignazzano le puttane. Vanda soffoca una nota, come un saluto, dietro di loro. La musica si fa più lontana. La fisarmonica piagnucola, trascina le note nella nebbiolina, sempre più fioca.
Le sirene? E’ la musica delle sirene quella fisarmonica? E’ la loro voce quelle risatine dal petto delle puttane, dalle mammelle finte dei travestiti? Anche grongo ride adesso.
Camminano accanto gli amici, senza parlare. Uno prova a riprendere la canzone della fisarmonica. Uno orina nell’angolo. Uno si lamenta, vuole una donna, scalogna bestemmia perché s’è sporcato le scarpe che gli ha comprato sua madre, la vedova. Camminano nel porto muto d’un tratto, tra la nebbia calda e i silos, fiocamente illuminati. La luna sopra s’affligge da tumori di nubi, la finestra del dottore accende un profilo d’uomo, forse attirato dalla fisarmonica, appare una mano che forse alza un libro, forse carezza una pagina, sparisce. Da quelche parte ci sarà ancora il vecchio greco con la testa tra ginocchia ossute a fantasticare d’altri tempi, d’altri mondi. Un marinaio barcolla dall’ombra. – Vieni qua. amico. – Lo rincorre medusa, ha il viso informe tra luminosità svaporate. – Ti portiamo dalle puttane? Ce ne paghi una? – L’altro sparisce.
– E’ per domani notte… – Pensa a voce alta grongo. Le sue parole suonano strane nel silenzio.
Ci si mette pure scalogna. – Domani ci sarà mare. – Vento e mare, era scritto nel cielo della sera. Scalogna è più pallido del solito, sulla sua faccia su cui il sole pare non riesca ad arrivare.
– Se lo dici tu! – Medusa fa una smorfia aprendo uno dei suoi occhi socchiusi. Domani notte si balla in mare, maledizione.
Lo scirocco sedimenta, anche il silenzio. I cigolii d’argani senza pace si sono spenti nel mormorio del mare. Sego fa un passo di danza, se si balla in mare domani notte, io sono pronto. Che ne pensi, grongo? Guarda chi c’è, grongo. Al crocevia dove il grassone cucina ogni sera sotto la luce fumosa d’una lampada di fortuna, su un banchetto traballante, tra un brillio di coltelli e denti d’oro, s’è fermata un’auto. Il grassone sciorina un saluto, le pieghe del corpo straripano dallo sgabello, le guance s’afflosciano del tutto nel grasso del collo, saluti, saluti. Dall’auto scende gente affamata, luccicante di bracciali, le tasche gonfie d’armi e portafogli. C’è l’albanese tra loro. Lo vedi, grongo?
Sono qui, alza un braccio grongo.
– E’ matto, e farà la fine dei matti. – L’albanese evita di guardare, si lustra l’anello sulla camicia, ingozzandosi nel vapore della bancarella, attorniato dagli scagnozzi. Mangia facendosi scolare sul mento, sul collo, sul petto nudo, ingioiellato d’oro. E’ sorpreso dall’urlo di disperazione di un treno, da luci di finestrini che sfavillano in sequenza sui muri delle case. La luminaria somiglia alla festa del santo in un paese lontano, l’albanese fiuta persino un incanto, lo stesso fumo di semi nei bracieri. Arriccia il naso annusando la festa inesistente. Il santo fa miracoli. Si tocca la croce d’oro sul petto. Lo farà, il miracolo. – C’è un carico domani, m’hanno detto. Qualcosa succederà. – Mormora a bocca piena l’albanese stretto tra i suoi.
Grongo lancia un’occhiata torva, e scivola via. Dove vai, grongo? Gli amici lo inseguono inutilmente. E’ sparito, grongo è fatto così. Lo chiamano, è inutile, lo sanno. Sego sprofonda le mani nelle tasche, è ora di tornare a casa.
Grongo non si acciuffa, s’è infilato fra autocarri abbandonati, motori arrugginiti, gru e cavi del porto. Una fontanella polverizza gocce d’acqua, rimbalzano cristalli, stelle di terra. Grongo guarda. Stelle che mancano al cielo stanotte. Jemira, Jemira tra il riquadro della sua finestra, hai gli orecchini, hai l’anellino, hai le calze di seta? Jemira è acqua, è stella. Non ci sono stelle, stanotte.
Vanda invece c’è sempre nel buio. C’è un’altra puttana con lei, non ha soldi, che te ne fai di questo? Non ha soldi, insulta la puttana, e si rassetta per il solito carnevale della notte, vieni via, Vanda.
– Sì, non ha soldi. – Vanda beve alla fontana. Non si canta e suona più nel porto. Adesso bisogna guadagnarsi da vivere. L’altra puttana borbotta presa dagli umori malvagi di pagliaccio costretto a fare spettacolo, vieni via, strattona Vanda. La donna però non si smuove, quel ragazzo ha lo stesso sguardo di sua madre muta. – Ti sei fatto un nemico, ragazzo. Lo sai? E’ uno che t’ammazza alle spalle. – Lui ci campa bene sulla morte degli altri, lui e gli altri, la donna storce le labbra gravide di trucco. Non volano più canzoni e fisarmoniche, nel porto c’è solo il rimescolio di vapori e scirocco, sussurro di mare come donne senza amore, o lamenti di morti annegati, e gente tradita. Ti ammazzano, grongo. Forse è dolce morire, forse è dolce avere morti da piangere, Vanda fa un gestaccio, non si sa a chi. Ti ammazzano e ti buttano in mare, la donna si rassetta la parrucca. Il mare lava e specchia i suoi morti, puttane, contrabbandieri, uomini annegati, è una tomba il mare. Però, le puttane, le buttano in mare già cadaveri, non muoiono abbracciate all’acqua, la donna s’aggiusta una ciocca di capelli, che spunta triste e dispettosa dalla parrucca scolorita.
E’ vero, non c’è più fisarmonica, ma grongo sente lo stesso la melodia nell’aria. Jemira, forse Jemira è sola adesso, forse s’affaccia alla finestra. Le sirene, recita la sua pancia. Ora la fontanella zampilla un firmamento, e i motori dei moli in sottofondo s’accendono di nuovo per incanto, borbottano di paesi inesistenti. Buio e scirocco misurano sole e fresco del mattino che verrà, il vapore d’una notte senza stelle aspetta le stelle. Grongo annusa il profumo volgare delle puttane, si bea del formicolio che gli intorbida le gambe. Le sirene, dice la sua seconda voce. Fra poco al primo chiarore vecchi e ragazzi butteranno gli ami dai moli, le puttane sfaccendate si avvicineranno e aspetteranno il pesce che abbocca, chine sullo scuro dell’acqua.
Vanda scruta l’ombra di vapori: – Le sirene? Le vedo, le vedo e le sento, grongo. –

Sirene
Una notte sfumava nell’ottusità di sangue, tra nuvole a mare.
Preparano le barche nella cala nascosta dall’ombra delle rocce, e controllano il funzionamento d’un paranco per issare la merce sulla sommità rocciosa. Si fanno segnali a fischi. Sopra sono già pronti a chiamare gli autocarri e le macchine corazzate, appena il carico sbarchi. Gli altri contrabbandieri giù sulla cala invece scrutano il mare per scorgere il peschereccio che accosterà a fari spenti, restando al largo per non farsi vedere dalle vedette della finanza. Il faro ovatta tratti d’acqua, intermittente, una luce fantastica fra la nebbiolina, una luce appannata a non dar noia al traffico degli uomini, luce a segnare il punto sporgente del costone. Dietro quel picco si mascherano il porto e le luci della città, ancora più irreali nel vapore, grongo lo sa e non lo sa. Sego s’asciuga l’unto, sbircia l’amico, gli dà di gomito.
– Mia madre m’ha stirato la maglia. Me l’ha messa su con le sue mani, e me l’ha aggiustata addosso. Dice che è umido a mare. – Si lamenta scalogna. Si stringe tra le braccia perché sente l’umidità della brezza, se l’ha detto sua madre.
– Che figlio! – Che figlio ubbidiente ha quella vedova, medusa reclina una testa pesante sulla spalla, ha per faccia una macchia uguale alle nuvole sul mare, gelatinose e senza forma.
– Me l’ha messa su a forza, la maglia! – Scalogna sgranocchia da un sacchetto.
Poverino! T’ha dato anche da mangiare. – Mangi sempre, scalogna! Scalogna, non lasciarla sola, tua madre. Non vive, la povera vedova! – Dice qualcuno.
– Mia madre non è vedova. – S’imbroncia scalogna. Mio padre è in galera, l’hanno beccato i finanzieri, è il mestiere di caricare contrabbando .
– Tuo padre è scalogna come te, e tua madre è vedova! – Dice un altro. Tua madre è a lutto, vedova, come il birraio vedovo! La morte è una bella invenzione.
– Smettetela, lì, non è una gita. – A mezza voce, uno dei caporali.
Ora è grongo a ridacchiare insultante, lo sguardo alla poltiglia sanguinosa che s’addensa all’orizzonte. Il caporale gli lancia un’occhiata dall’ombra. – Tenete la cima della barca, maledizione! – Bestemmia il caporale in sordina rivoltandosi i pantaloni sui polpacci.
Aspettano tutti.
– Occhi aperti. –
Il mare però è ancora deserto e scuro. Tranne il barlume di sangue dell’orizzonte, e il faro a intermittenza. Nel silenzio ogni rumore oltre il fruscio del mare è un boato, il volo d’un uccello, il crepitio d’un remo, il sibilo d’una cima tesa d’un tratto. Aspettano. Grongo è diventato più attento nel silenzio, quasi ad ascoltare suoni da fondali, da oscurità, a vedere immagini sue dal cielo di sangue svaporato in lontananza.
– Lì! – Soffoca l’esclamazione qualcuno, credendo d’intravedere la sagoma del peschereccio nella nebbia.
– No. – uno dei caporali. L’uomo fischietta in sordina. – Cos’è, siamo nervosi, stanotte? –
– Voglia di fare. – Fra i denti, sego.
L’altro fischietta sprezzante.
– Eccoli! – Soffiano un’altra volta. Un refolo di vento turbina nel violetto della notte, porta voci smozzicate. Ci siamo! Nel vapore s’accende, si spegne una lucetta a mare. – Il segnale… è il segnale! –
– Sono loro. Alle barche! –
– Presto. –
– Senza rumore, senza rumore! –
Si mettono ai remi senza fiatare, su barche diverse, nel fruscio di un’onda, nel buio, ma a poco a poco lo sforzo li fa ansimare tutti. E’ forte oggi il mare, non sembrava. Maledizione! La corrente, vento di scirocco, non sembrava. Le onde fanno barcollare i natanti, scricchiolare le assi. Strana corrente, alla spiaggia non arriva, e qui tira con una forza. Mare traditore.
Ci si metteva anche la luna contro gli uomini, perché a tratti sbucava, maledetta e chiara tra nebbie, ricamando l’aria, e la spuma di merletti d’avorio, vestendo a festa barche e uomini, malefica festa, e a tratti lasciava un’oscurità pericolosa. – Non si vede, il segnale, potrebbero farlo ancora! –
-Remate! –
Maledizione, è forte. I remi singhiozzano. – Remate, ma senza rumore, maledizione. – Ma è forte, maledizione, l’acqua è forte!
– Non ce la facciamo ad accostarli. Il mare comanda, stanotte. –
– Comanda il mare. –
– Attenti! Attenti, gli scogli affioranti! –
– Non si riesce ad accostare. –
– Ce la facciamo, o no? – Quello che non rema a prua ha il ghigno allucinato da una luna improvvisa. Sì, che ce la fate, vi pago per farcela.
Le barche ballano sul mare. Attenti! Ci venite addosso!
– Urtiamo! – Con un soffio, scalogna.
– Non lo dire. – Medusa con uno sghignazzo, il verso gli muore in bocca.
– Urtiamo! Il remo! Spingete con il remo! –
– L’ho perso, il remo! –
– Che me ne faccio di questi stupidi? Le braccia, usatele, le braccia, se non il cervello! –
– E’ forte! –
– Urtiamo, urtiamo! –
– Maledizione, ma che vi pago a fare? –
Le barche balzano in avanti nel buio, tornano indietro in un risucchio di luna improvvisa. Non si riesce, è forte! E’ inutile remare.
Chi è a prua prende l’onda in faccia, improvvisa dalla nebbia. Bestemmia. Chi è al timone perde la presa, lo riafferra con la mano già storta. La luna a tratti illumina perfetta l’acqua che da quieta si rizza e contorce selvatica come un pesce all’amo, che non vuole arrendersi. I natanti s’allontanano, s’avvicinano. Riappare la lucetta, il segnale del peschereccio, si scorge e scompare, ora vicina, troppo vicina, ora pericolosamente vicina, ora lontana.
– Maledizione! Maledizione! –
– Guarda come s’alza l’acqua! –
– State attenti voi nell’altra barca. –
– Siete voi, siete voi! –
– Ci venite addosso! – Lo scricchiolio dei legni, e lo sciacquio dell’acqua sovrastano. A volte arriva in faccia il vento gonfio di mare, a volte l’acqua di un’onda, a volte si sente il sussurro di parole dal ponte del peschereccio, il segnale, il segnale.
– La vedetta! Quelle sono le luci della vedetta! La finanza! –
– Ci mancava! –
– E ora? –
– Torniamo indietro. –
– No! – Uno dei caporali.
Torniamo. Non ci si riesce. Il vento porta un sussulto dal peschereccio invisibile. Non si riesce neppure a tornare. Il fischio della vedetta taglia l’aria.
– Scappiamo. –
– Come? –
– I remi? Se li è portati il mare! –
S’alza d’un tratto il fianco del peschereccio davanti alle barche degli uomini. Si sente uno sfascio di legni, bestemmie. Grongo vola in acqua, tra i legni delle barche che urtano, sfondano la pancia e la schiena degli uomini. Piove il carico di contrabbando dalla nebbia sulle teste di chi è in balia dell’acqua. Buttiamo tutto in mare, la finanza!
– Via, via! Tutto a mare! – Arriva alle orecchie di grongo, già piene d’acqua.
Il vento soffia, una corrente prende casse e uomini. Grongo vi nuota. Ci sono altri uomini tra l’ombra e la luna. Una testa, un braccio, una mano soltanto, sciabolate di luna e acqua. Scalogna, scalogna, forse è lui. E quello chi è? Grongo è sommerso, balzato fuori d’acqua, risommerso, l’acqua ribolle, anche per il carico gettato fuori bordo.
– Fuori, fuori! –
L’onda si solleva, si riversa.
– Affogo. – Forse è la voce di scalogna.
– Il faro… la riva. – un’altra voce.
– Aiutatemi! –
Grongo è sollevato da un’onda, e subito inabissato in profondità da una corrente. Rimane legato mani e piedi dall’acqua, i polmoni scoppiano. Il tempo s’allunga, scoppia. Troppo tempo. Basta. Muoio, voglio morire, non ce la faccio. Viene la tentazione di respirare, e finire. Scoppio, muoio. Grongo s’abbandona, ma in quel momento riemerge d’improvviso all’aria. Cos’è? E’ una grotta, grongo lo indovina nel buio perfetto. Respira, tossisce. Sono vivo. L’ha gridato tante volte sulle strade del porto. L’acqua dentro la grotta ristagna, c’è una quiete, è un altro mondo del mare in ebollizione. Nell’oscuro di quel mondo echeggiano solo i rimbombi del vento di fuori, e nient’altro. Vivo, sono qui, grongo s’afferra a tastoni alla roccia di quell’altro mondo ferendosi, sono qui, sono vivo.

Il dottore la ricordava, quella notte strana tra venti di scirocco e quieti improvvise, tra nuvole calde e schiarite di luna, la notte in cui era andato a male il carico ai contrabbandieri. Stese le gambe anchilosate. Ricordava, fantasticava.
Quella notte il vento arrivava con spruzzi d’acqua e scirocco sulla finestra. Quella notte Jemira era sola. Nessuno esce in certe notti strane. Jemira sussultava perché dal vetro della finestra la notte era vuota, e d’un tratto sibilava tra vento e acqua come un tradimento. Sulla via non c’era nessuno, non si vedeva nessuno dalla finestra, nel buio zuppo di vapori, nessun rumore nelle altre stanze della casupola, nelle stanzette delle compagne di mestiere.
Jemira tenta, mormora tra sé, mormora per vincere il silenzio o il vento di scirocco. Stesa sul letto, nel nodo d’afa, Jemira mormora come una vecchia in chiesa, come una preghiera, ma sono parole sudaticce e confuse. Sulla finestrella le gocce prendono contorni offuscati, immagini annebbiate, è un vetro più votato a specchiare, ma sfocato, che a trasparire. C’è lei, la sua immagine su quel vetro, la sua immagine d’un altro tempo e paese, gli occhi più grandi e neri nel riflesso, il viso meno pallido, il rosso delle labbra più naturale. E c’è un giovane che lavora a torso nudo fra i mattoni e il cemento del cantiere. Lui la guarda chino, lavorando, canticchiando, è il più giovane degli operai. Lei ne distoglie a stento lo sguardo. Lui s’arrampica, carica un sacco, tende i muscoli al sole, e lei s’attarda mentre porta da mangiare a suo padre, ai suoi fratelli del cantiere. Il giovane le fa cenno senza farsi vedere, ma lei fa finta di non accorgersi. Lui ride con gli altri operai, forse ride di lei, e lei spia di sottecchi. Jemira spia, e manda avanti il futuro con la mente, è dolce quel futuro, come una primavera, caldo come un’estate, evanescente come la primavera. Però il futuro è sempre un altro. E non ha mai dolcezze né calore. Ecco, il giovane la blocca, la schiaccia contro un muro, in un angolo di calcinacci, nessuno vede. Il cesto le cade, una bottiglia di vino si rompe, s’allarga una macchia sul cemento. Odore di gesso, poi di sudore. Nessuna parola né prima né dopo. Il futuro non ha mai dolcezze, e intelligenze di parole. Lei ingoia il gesso, e un dolore nel ventre. Il futuro è così. Però quante parole dopo, rabbiose. Parole, domande. Suo padre, sua madre, i fratelli. Sei incinta! Chi è stato? Puttana! Che hai fatto? Una sola volta? Lei confessa tra le botte, balbetta con la bocca impastata di sangue, e i maschi della famiglia già corrono a cercarlo. No, non è questo il futuro, grida Jemira dentro di sé. E’ sposato, puttana! Sono tornati, parlano tra loro. Corrono di nuovo fuori. E le donne della famiglia, devi abortire. Uno sporco ambulatorio. Anche lì domande, parole, sempre più ambigue, più intime, quasi a scavarla prima di scavarla davvero nel ventre. No, non è il futuro, questo. Dovrebbe dirlo. Invece l’odore di disinfettante le tappa la bocca, una luce chirurgica asfisssia, si preparano a scavarle finalmente il corpo. Lei s’addormenta finalmente, è felice di non capire più nulla, di non confondere più il tempo, di non sentirne il silenzio o le parole. Il giorno dopo s’alza a stento dal letto di casa, va in bagno, fra l’odore di sapone e orina, s’appoggia al lavabo, s’appoggia al muro, esce sulla strada, cammina lungo i muri, non sa che fa, è vicina al cantiere, è felice perché il tempo è tornato né dolce né caldo, né aereo, c’è il sole, e ci sono i parenti con il giovane, parlano, litigano, fra i muri senza intonaco e il sole. Lei sorride, si ravvia i capelli, geme una sola volta per un dolore dell’addome, loro si disperdono nella via, nel labirinto del cantiere. Sembrano d’accordo, lei sorride lontana. Diventano gentili a casa nei giorni seguenti, come mai. I dolori continuano ma lei non si lamenta, e sorride. Forse le è venuta una febbre, ma lei non si lamenta. Ha pure ripreso i lavori di casa, pure a fatica. E’ felice. Niente più botte, e niente parole. Finché non la portano da una donna, una sconosciuta. La lasciano lì, senza spiegazioni, ancora senza parole, con una gentilezza, salutando, lei sorride dolorante, calda di febbri. I parenti s’allontanano, si fermano a circolo sulla via, c’è anche il giovane, si ficcano le mani in tasca, tirano fuori i portafogli, levano le mani di tasca, le rimettono, litigano ancora, spariscono dietro un angolo, ognuno per suo conto, con un passo leggero. Sono stati gentili con lei. Anche la sconosciuta lo è, le accarezza la guancia, ora fai un viaggio, sei fortunata, tu, te ne vai di qui. Jemira sorride dolente, febbricitante.
L’aveva fatto, il viaggio, in uno scafo stipato di gente, su un ponte fra nafte e sudori, fra aria salata. Lo scafo traballa, senza vento e senza mare, scricchiola. Il presente, il futuro sono tornati uguali, il tempo è uno solo, ora lo sa, ha imparato. Qualcuno vomita accanto a lei, spalla a spalla con lei, c’è pure un neonato. Respiri, nafta, sudori e aria amara. Nessuno parla, c’è il mare che parla, sbatte sulla barcaccia, è il tocco del tempo tornato, e uguale. Ogni tanto lei solleva la testa per respirare più aria che sudore, anche salata. Poi la riabbassa, ha imparato ormai, il tempo le ha insegnato. Quando la barcaccia arriva, gettano tutti in acqua, acqua alta fino al collo davanti a una spiaggia deserta. Lei nuota, cammina. L’aspettano a riva. La spiaggia non è deserta, dietro una duna di roccia, aspettano con il camion. La spingono, la issano sul camion. Poi la lasciano a un uomo del suo stesso paese, è il suo padrone, le dicono. Lui osserva la mercanzia appena arrivata, è immerso in una vasca da bagno in mezzo a uno stanzone semibuio, si strofina il collo con una mano insaponata, la collana luccica tra il sapone, fa un segno. Qualcuno afferra la ragazza, la stende a terra, tremante di febbre, uno la tiene, non ce n’è bisogno, uno le fa male al ventre, poi c’è un altro, e un altro, la tengono ma non ce n’è bisogno, il padrone sghignazza guardando, strofinandosi il collo e il petto. Poi la portano via, la chiudono a chiave, non ce ne sarebbe bisogno, lei ha imparato qual’è il tempo, la sua parola e il suo silenzio.
Jemira mormora tra sé nella sua stanza, in quella notte strana, quasi abbia la febbre come allora, e sono parole fuori del tempo. Ma non ne ha di febbre. La febbre è passata allora, come passa tutto. Anche l’odore insopportabile di muffa della stanza, i sudori, i respiri, le parole, il dolore nel ventre. Non si sente più nulla.
Ma un giorno arriva grongo. E lui sconvolge il tempo. E anche la parola. Così pensa Jemira, e già cancella il suo pensiero. Lo pensa e cancella il suo pensiero. Lui dice, t’ho vista, alla finestra. Mi hai pagata. Sì, ma ho pagato per parlarti, ho pagato per sognare. Le finestre servono a specchiare e non a trasparire, pensa Jemira, mi hai pagata. Ti ho vista e non potevo più distogliere gli occhi, continua lui insistente. Sbrigati, dice lei ruvida, spogliati se vuoi spogliarti! No, non ho pagato per te, dice l’altro, semmai per me, per me, dice lui, è stato attirato, incantato come i pesci dalle lampare. Lei non sa se sorridere, se può sorridere in un altro tempo, la stanza si popola di luci e creature marine. Lei sorride, già nuda. Così, dice lui, è stato così, una luce nel fondo del mare, e una donna che vi nuota fra onde di capelli. Sbrigati, ripete lei, ma lo dice senza forza. No, ripete lui. Hai pagato, sbrigati! Lei gli batte i pugni sul petto, ma senza forza, e battendo i pugni le mani si aprono, formano carezze. Lui è immobile, come non rimane nessuno con una puttana, e continua a parlarle, come non fa nessuno con una puttana.
Jemira sospira adesso nell’afa della notte, e si tiene il ventre da cui una vita è stata strappata, come se le fosse strappata un’altra volta quella notte. Jemira sospira la notte del carico andato in malora nella notte strana. D’un tratto sente un tramestio di passi sulla viuzza, un mescolio di voci tra sferzate di pioggia. Balza in piedi dal letto. C’è un carico, e i contrabbandieri sono in mare. Anche lui, grongo, anche lui è in mare, lei lo sa. Si slancia alla finestra, la spalanca sul buio: – Che succede? – Quale tempo le rimane?
– Che è successo? –
Nessuno risponde dalla strada. Una folata di pioggia in faccia.
– Che succede? Dove andate? –
– Vanno alla baia. – Sbraita finalmente un uomo, senza fermarsi. Il vento porta via le parole.
– Di notte? Con la pioggia? –
– La finanza… Forse una spia… Il mare stanotte… – Pezzi di frasi. Il resto, se lo portano le raffiche bollenti di vento. Qualcuno alza la testa verso lei scivolando in fretta.
– Che è successo? Mi dite che è successo? –
– Il mare… Il carico… –
Lei s’affaccia in bilico: – Che è successo? –
Non rispondono.
– Lo sapete, che è successo? – Ma tutti scivolano via. – Tu, tu! –
– Non sono tornati. –
– Chi non è tornato? –
– Non lo sappiamo. –
Lui…?
– Il mare… il mare… la finanza. – Le parole grondano, s’affievoliscono nel vapore della notte. I passi battono concitati sulla via, si perdono nella nebbia. Fino al silenzio sferzato di pioggia.
Presto, presto! La vestaglia! La porta! Jemira è già sulla strada. Quale tempo, quale futuro?
– Che fai? Dove vai? Non puoi uscire! – L’uomo che sorveglia le puttane, sempre ubriaco, le afferra il braccio, vi rimane appeso, ubriaco. Tu vuoi morire! Vuoi fare morire me?
– Lasciami! – Jemira si libera, l’ubriaco ruzzola per terra.
– L’albanese ti ammazza. –
Quale tempo, quale futuro? Per morire?
Torna qui, puttana!
– Sei pazza! – Qualcuno tenta di rincorrerla. Ma lei è veloce. Al diavolo, peggio per te, pazza, ci pensa l’albanese!
La baia formicola di gente. Sventagliano i fari della vedetta dal mare. Il vento s’è calmato del tutto, i vapori di scirocco si sono sciolti, e la luna illumina il picco sopra l’arenile, bianchissimo. Di sopra hanno fatto sparire in fretta le macchine corazzate e il paranco. Davanti, il mare s’è calmato per incanto, come se tutto sia compiuto, e non ci sia più altro da compiere, il mare si stende fino alla luna senza un’increspatura, perfetto. Anche il faro vi sventaglia fino al peschereccio al largo, e alla vedetta della finanza.
– Che è stato? –
– Forse… –
– Dicono… –
– Capita a chi rischia. –
– Maledetta finanza. –
– E gli uomini? – Jemira si fa spazio.
– Che fai qui? –
– Quando ti acchiappa l’albanese…! –
– E gli uomini? – Chiede lei, e la domanda le muore fra le labbra ormai torpide di preghiere o no della notte.
– Lo vedi, il mare, lo vedi? Un’ora fa pareva dovesse mangiarsi la spiaggia. E adesso è calmo, troppo. Come una tomba. –
Così è il mare, mormorano.
No, sussulta lei. Però, dovrebbbe saperlo, che non si nega il tempo.
– Prendetela! Va in acqua! –
Uno degli uomini dell’albanese la trattiene, lei si divincola, ma un altro l’abbranca per il braccio ridendo.
– Non le torcete un capello! – il dottore.
Sicuro, sicuro, gli sgherri la tengono.
Il dottore butta il sigaro, minaccioso. I suoi bianchi capelli splendono alla luna, strana aureola come strana la notte.
Sicuro, gli uomini dell’albanese hanno un’incertezza. L’albanese arriva sulla baia, è l’ultimo ad arrivare. Si pulisce le unghie scrutando la rovina della notte, è andata come doveva andare. Due piccioni con una fava, contro chi comanda, e contro chi non ubbidisce. Non fate male, alla puttana! Sghignazza.
Jemira s’accascia stanca fra le braccia degli uomini, no, no. Non si dibatte più, ma ancora nega piano con il capo, eppure non si nega, lo sa. Nega sempre più piano. Più piano.
La spiaggia e il mare sono ormai deserti mentre portano via Jemira. Solo il dottore è rimasto. Guarda da solo il mare calmo, si volta per andar via, la luce dell’ambulatorio è rimasta accesa tra le casupole. L’espressione solita del suo viso quella notte è davvero una smorfia.

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.