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© Federico Verani

IL NUOVO MESSIA

PARTE I

 Josh non ci poteva più mettere piede nel Kibbutz.
Josh doveva andarsene via dal Kibbutz.
Josh era stato espulso dal Kibbutz.
Mentre lo salutavo, in quel viale alberato, avevo guardato i segni sul collo.
Anche Ram guardava la stessa cosa, ma fingeva di ridere d’altro.
Non potevamo non vedere quel rosso incandescente.
Un rosso incandescente che gli usciva dal colletto della maglietta.
Un rosso incandescente gli saliva sin dietro le orecchie.
Un rosso incandescente di numerosi graffi che gli rialzavano la pelle.
Josh.
L’avevamo ritrovato noi e perciò sapevamo cos’erano quei segni.
Lo avevamo trovato di Sabato mattina, seminudo, solo, vicino al lago.
Mentre lo salutavo mi chiedevo che fine avrebbe fatto.
Mentre lo salutavo, nella sua sconfitta violenta, mi chiedevo cosa ne sarebbe stato.
Lo avevamo trovato mentre si fustigava la schiena con una canna.
E il sangue che gli scendeva sino alle gambe.
Mentre lo salutavo, con quella sua faccia da soldato bambino mi chiedevo che ne sarebbe stato.
Che ne sarebbe stato dell’Occidente intero.
Perché Josh era l’Occidente intero.

L’EPIFANIA

Josh era di Londra.
Josh non era ufficialmente ebreo.
Perchè la madre non era ebrea.
Quando parlava stringeva quasi sempre la stella di David che gli aveva dato il nonno e che teneva appesa al collo.
– Mio nonno era ebreo, mio nonno era un grande uomo e mi parlava sempre che sognava di andare in Israele, mio nonno non è mai riuscito ad andare in Israele e così ci sono venuto io, sono venuto qui a vedere la terra dei miei avi! – ti diceva col suo tono da fanatico per poi repentinamente trasformare la sua serietà con le battute più trascinanti e sorprendenti.
– Vero dirty, filthy Italian? Ti ha mandato il governo italiano a fare la spia su Israele eh!? – gridava per farci ridere.
Poi indicava il volontario tedesco e attirando tutta la suspense su di sé, urlava teatrale:
– Tu, lo stesso sei una spia! Sei una spia nazista sotto copertura ma a me non mi fotti! –  gridava al tedesco trascinando tutti nel suo delirio umoristico fatto di smorfie, imitazioni e risate.
– Non mi fottete voi due! Vi ci vedo già a scrivere nel trattore, nascosti, sulla carta igienica: MY STRUGGLE [1. Il Mein Kampf in Inglese ndr]!  – esclamava imitando la mimica hitleriana.
Josh aveva tutte le sacre stimmate dell’occidentale medio.
Le sue stimmate recitavano sanguinanti:
Nel nome del Padre: devi piacere a tutti, nessuno escluso.
Nel nome del Figlio: devi essere il migliore di tutti in ogni momento, dovrai essere al centro, il più simpatico, il più geniale.
Nel nome dello Spirito Santo: tutti ti cercheranno, ti acclameranno, ti chiederanno la mail.
E così fu crocifisso.

EVERYTHING IN ITS RIGHT PLACE – RADIOHEAD

Everything, everything, everything, everything…
In its right place
In its right place
In its right place
Right place

 

L’INIZIO DEL MINISTERIO

Josh era un vero portento naturale, un talento istrionico esplosivo.
È raro riuscire a ridere di gusto già con un amico.
Figuriamoci con persone appena conosciute.
Ancora peggio in una lingua diversa.
Quel pomeriggio, era uscito dai bagni del campo di calcio, e stava in piedi davanti a me con le mutande calate alle caviglie, la maglietta che si fermava dove iniziava a ciondolare il suo pene, con la carta igienica strozzata nelle pagine del libro The Saxon invasion che portava sempre con sé.
– Dimmi tu che cazzo hanno fatto di male i miei avi se mi sta succedendo tutto questo?!  – mi ripeteva esasperato.
– Dimmi cosa cazzo ho fatto io di male in questa cazzo di terra santa!? – continuava a gridarmi senza sapere più se ridere o se piangere di sé stesso.

© Federico Verani

– Dimmi che cazzo me ne faccio io della mia discendenza ebraica?! -.
Ma mentre raccontava, seminudo e armato di carta igienica, io non riuscivo a smettere di ridere sdraiato per terra.
Non ho mai riso tanto in vita mia di una storia così tragica.
Mentre ridevo con le lacrime agli occhi, incapace di rialzarmi, mi chiedevo come avrei mai potuto raccontare tutto questo facendo ridere qualcuno allo stesso modo.
Ma era Josh che mi faceva ridere.
Era un’intera civiltà dell’entertainment chiusa dentro un soldato bambino.
– E se adesso hai finito di rompermi il cazzo, posso andare a pulirmi il culo in santa pace!? – mi gridò quando concluse.
Era Josh.
– Rispondimi fucking filthy dirty italian!? -.
Era Josh.
Avrebbe ammazzato la madre pur di essere al centro dell’attenzione.
Era Josh.
E nessuno sa che fine abbia fatto.
E nemmeno che fine farà l’Occidente.

Everything, everything, everything, everything…
In its right place
In its right place
In its right place
Right place

Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon

 

PAROLE E OPERE

La prima volta che è l’abbiamo visto, noi volontari eravamo appena tornati dai campi.
Stanchi, accaldati, assonnati.
Abbiamo sgranato gli occhi vedendoli arrivare.
Lui, un incrocio stradale tra Matt Damon nel ruolo del nerd e Mark Whalberg nel ruolo da duro.
Lei una pantera -bellissima- nata da un padre nigeriano incrociato con una donna gallese.
Abbiamo visto arrivare lui con la maglietta trendy e la sua ragazza con una cravatta al collo.
Il peggior modo per presentarsi in un kibbutz rurale.
Il peggior momento per essere accolti da noi, dato che ci avevano già stipato tutti in una casa per massimo due persone.
Tutto per far spazio ai quadri militari venuti per via degli sgomberi delle colonie ebraiche dalla striscia di Gaza cui eravamo attaccati (la politica del disengagement voluta da Ariel Sharon nel 2005).
Al vederli abbiamo subito protestato perché non c’era posto, non c’era più spazio per nessuno in quella casa.
Così lei fu sistemata nella nostra casa mentre lui finì nella casa dei giochi: una casupola di legno senza bagni e senza letti dove un tempo si andava a leggere, a parlare, a riunirsi.
Ma in quel momento era una vera tristezza di posto.
Ma ancora più triste era per noi non trovare mai l’acqua calda perché la sua ragazza consumava da sola l’acqua per 7 persone.

Everything, everything, everything…
In its right place
In its right place
Right place

Josh era ricco.
Ma lo faceva capire agli altri.
Josh era bello.
Ma la sua goffa forza gli toglieva grazia sensuale.
Josh era divertente.
Ma le sue risate, le sue battute, non avevano mai pause, mai una sosta.
Josh era colto e curioso.
Ma la sua voce diventava una costante pesante e persistente.
Imponeva i suoi discorsi a forza fino a diventare invadente.
Era anche permaloso.
Era l’occidente.
In una terra tribale, rurale, aspra, dove la vera intelligenza è sapientemente dosata come l’acqua nel deserto, lui diventava un pachiderma umano: esoso, vistoso, deriso.
Solo chi ha vissuto in qualche sud del mondo sa cosa significhi apparire troppo e voler essere sempre il primo e il migliore laddove invece vigono leggi non scritte dai poco visibili.
Chi sopravvive nel deserto è chi rimane nascosto.
Dal sole, dalle prede, dai predatori.
Josh voleva farsi re.
Josh fu crocifisso.
Da tutti.
Ma adesso era davanti a me, seminudo e sarcasticamente esasperato, che mi raccontava la sua via crucis.

LA VIA CRUCIS DI JOSH

Josh partì in Israele con pochissimi soldi e il cuore pieno di aspettative, premonizioni e significati.
Non il nonno, un Mosè che non arrivò mai alla terra promessa, e nemmeno il padre, un ricco manager disinteressato alle origini che lo trattava come un perdente.
Lui, Josh, doveva essere la riconciliazione con Israele e il superamento della figura padre.
Israele per lui sarebbe stata la rivincita e il riscatto agli occhi del padre.
Lui doveva terminare un viaggio che era una sorta di pellegrinaggio iniziatico e trionfale.
Un viaggio iniziato da piccolo, quando da brutto e debole anatroccolo vessato dai bulli, divenne uno sveglio e smart londinese con la ragazza più desiderata dell’Università.
– Quando scopi con lei è come non scopare. Non lasciamo tracce – diceva.
– Perché? – gli chiedevano.
– Perchè si succhia anche quelle – confidava orgoglioso.
Quindi il giovane Josh in Israele avrebbe dovuto trovare le radici e la forza per il futuro, avrebbe terminato un lungo iter di conoscenza e maturazione.
Ora Josh sarebbe tornato a Londra con il marchio dell’età adulta, della prova definitiva superata.
Avrebbe fatto vedere al nonno e al padre che lui aveva avuto più coraggio e grinta di loro.
Perciò ogni avvenimento lo caricava di peso e significanze.

Everything, everything, everything…
In its right place
In its right place
Right place

There are two colours in my head
There are two colours in my head
What is that you tried to say?
What was that you tried to say?
Tried to say… tried to say…
Tried to say… tried to say…
Everything in its right place

Quando arrivò con la sua ragazza a Tel Aviv, Josh – affetto dalla manìa del dover essere crazy&fool, tipica ossessione da occidentale che viaggia e che deve scrivere un blog per forza – decise che sarebbe stato abbastanza crazy&cheap dormendo in spiaggia di notte.
Quella notte in spiaggia, mentre si sdraiava con la ragazza per far l’amore, furono avvicinati da dei ragazzi, uomini e donne, con cui fecero subito amicizia bevendo qualcosa insieme. Cool.
Entrarono in confidenza.
– Ragazzi attenti che nella spiaggia di Tel Aviv spesso rubano tutto mentre dormite! Ma state tranquilli perché ci siamo anche noi in spiaggia! – gli dissero i nuovi amici indicando un punto in spiaggia quando stanchi, andarono a dormire.
Josh fece l’amore con la sua ragazza.
Si addormentarono.
Si svegliarono di soprassalto.
Sentirono un gran chiasso.
Erano i loro nuovi amici.
Urlavano concitati che qualcuno aveva provato a derubarli.
Li attorniarono chiedendo il loro aiuto.
Ma erano frastornati:stanchi dal viaggio e ancora un po’ brilli.
Frastornati si alzarono subito.
Frastornati andarono ad aiutarli.
Frastornati capirono che i ladri erano fuggiti.
Frastornati ritornarono alle loro cose.
Frastornati si accorsero che proprio loro erano stati derubati.
Frastornati andarono dai loro amici.
Frastornati capirono che li avevano fottuti.
– Hai capito questi israeliani pezzi di merda!? – mi gridava mentre la rabbia gli risaliva.
– Erano quei pezzi di merda i ladri! -.
Ma io ridevo di gusto e lui non poteva smettere di raccontare.
– E questo è stato il mio primo giorno! Fottuti israeliani di merda! -.
E continuò a raccontare.

Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon

Così Josh, senza più soldi, senza più iPod, senza più macchina fotografica, senza più vestiti e documenti, il giorno dopo si fece fare dei fogli dall’ambasciata e andò derelitto all’ufficio di smistamento dei volontari internazionali per i Kibbutz.
Non si fece inviare soldi da casa.
Non poteva dire che era stato derubato il primo giorno.
Il padre gli avrebbe riso al telefono dicendogli che era un Loser.
Un perdente.
Così, essendo partito con l’handicap, giocò al rilancio.
Doveva recuperare col suo orgoglio: all’ufficio di smistamento chiese di essere mandato in un “Kibbutz avanzato, industriale, ben organizzato, dove si lavora”.
Una delle sue idee di partenza era infatti di andare a lavorare in Israele per “farsi molti soldi” e tornare ricco.
Sì: Israele era un vero e proprio test per Josh.
Una svolta epocale.
Lo mandarono in un Kibbutz, nei pressi di Gerusalemme, dove lo fecero lavorare in maniera serrata.
Una vera e propria fabbrica.
Avevano i minuti contati e c’erano anche telecamere a controllare quanto stavano a fumare o quando andavano in bagno.
La sua ragazza non resse.
I rapporti col Kibbutz si incrinarono.
Lei gli chiese di andare via da lì, di cambiare Kibbutz.
Si presero i pochi soldi guadagnati e se ne andarono a Tel Aviv.
Ma prima, senza nemmeno i soldi per un ostello, fecero tappa a Gerusalemme.
Una notte senza sosta prima di ripartire a Tel Aviv l’indomani all’ufficio per i volontari.
Una notte romantica e cool a Gerusalemme.
Per le strade arcane di Gerusalemme, quando venne notte, nella penombra alcuni ragazzi dei quartieri arabi gli chiesero se volevano fumare con loro.
Josh e la ragazza – bellissima – accettarono.
Gli sembrò un colpo di fortuna crazy&friendly&cool: da raccontare al ritorno.
Mannaggia per la macchina fotografica che non avevano più – gli avrebbero creduto a Londra se l’avessero raccontato?
Così quando cominciarono a fumare, lui si trovò in breve sempre più distante da lei.
All’inizio non se ne rese conto.
Lui era dietro l’angolo a parlare e ridere con quei ragazzi arabi.
Lei invece provava a divincolarsi da palpeggiamenti pesanti.
Era agghiacciata e impaurita. Non riusciva ad urlare.
Quando lui realizzò cominciò un putiferio infernale.
Circondato da tutti quei ragazzi che lo deridevano e fuggivano e lo affrontavano, lui sbraitava e gridava spaventato finché non arrivò la polizia.
Passarono gran parte della romantica notte a Gerusalemme in una centrale di polizia a spiegare l’accaduto, ammettendo che avevano fumato.
La polizia israeliana non parve fare salti di gioia. Ma li fecero andare.
– Hai capito? Dopo gli israeliani si erano messi anche gli arabi! Cazzo di paese fottuto questo! -.
Mentre ridevo gli dicevo sempre che solo lui poteva raccontare quella storia dove un occidentale di discendenza ebraica bestemmiava arabi ed ebrei.
Ma lui continuava a raccontare. E io non smettevo di ridere.

Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon
Yesterday I woke up sucking a lemon

Stanchi, afflitti e impauriti tornarono a Tel Aviv: – un Kibbutz tranquillo – chiesero.
Fu così che arrivarono dove eravamo noi: un Kibbutz tranquillo dove finire quella maledetta vacanza iniziata nel peggiore dei modi.
– Volevamo finire in santa pace questa cazzo di vacanza, mi capisci?! – mi diceva senza interrompere il racconto.
– La mia fottuta vacanza della svolta della mia vita! -.

Everything, everything, everything, everything…
In its right place
In its right place
In its right place
Right place

Quando arrivarono sin da subito Josh ebbe un momento di notorietà perché faceva ridere, era brillante e vivace.
Ma cominciò anche il suo declino.
Dormiva nella “sala ricreativa”, la stanza senza letti e senza bagni, il suo nuovo regno dove andavano a trovarlo i suoi discepoli e dove leggeva il suo libro di storia sui Sassoni – The Saxon Invasion.
Ignorava però che quello fosse il rifugio di “Mike l’australiano”, partito in giro per il mondo con un paio di infradito, un bermuda, due t-shirt e due mutande.
Peccato che Mike l’australiano, oltre a questo monastico abbigliamento si fosse portato un intero treno merci di nevrosi, isterìe e aggressività che lo avevano portato all’esclusione sociale.
Mike: dall’inglese indecifrabile, sarcastico elencatore di aneddoti noiosi, aspirante scrittore che odiava gli aborigeni, principe dell’ansia, privo di “body language” ma soprattutto vibrante nevrotico in quei giorni era all’apice della sua esclusione sociale.
Mike giustificava questa sua emarginazione ribadendo che tutti erano ignoranti, che nessuno sapeva bene l’inglese, che nessuno capiva di politica e che gli ebrei fossero “tutti pazzi”.
Josh fu il sigillo finale della sua emarginazione: era inglese, carismatico, colto, lo snobbava ed era sempre al centro dell’attenzione.
Così Mike prese ad odiarlo.
Così un giorno Mike rientrò ubriaco nel suo ex rifugio,ormai regno di Josh, accese la luce e si mise a leggere.
Josh era lì con la sua ragazza che dormiva.
Gli spense la luce.
Mike la riaccese.
Josh la rispense e gli disse di andarsene.
Uno l’accendeva, l’altro la spegneva.
Mike gridò a Josh cosa ci faceva lì, di andarsene, che era un luogo pubblico.
Sbraitò con fare isterico.
Josh gli rispose col dito medio.
Mike starnazzò isterico avvicinandosi aggressivo.
– Dimmi tu cosa avresti fatto al posto mio!? – mi guardava Josh esterrefatto
– Volevo dormire e quello sfigato mi stava provocando! Sembrava una checca isterica! -.
– Mi era venuto quasi addosso mentre ero con la mia ragazza! Fottuto australiano! -.
Così Josh si alzò e con una mossa da arte marziale lo scaraventò al muro con un pugno nello sterno finale.
Mike scappò isterico e piagnucolante, e, – come una gallina impaurita – dissero delle ragazze inglesi, andò per tutto il Kibbutz dicendo che era stato aggredito brutalmente da quel violento di Josh.
Un dramma.
La violenza fisica.
Un dramma.
Un volontario ha aggredito un altro volontario.
La notizia divampò nel Kibbutz come un piccolo paese sull’orlo della fossa delle Marianne dove apparentemente non succede mai nulla.
Tutti noi ci spendemmo in lungo e in largo per difendere Josh.
L’arringa inscalfibile: l’australiano è il problema.
Josh fu comunque ad un passo dall’essere sbattuto fuori.
Per regolamento nessuna violenza.
Ma fu graziato per l’intervento di tutti noi.
Fino a quel giorno mi ero dimenticato di chiedergli cosa esattamente fosse successo con Mike quella notte. Non so perché non gliel’avessi chiesto.
Ma quel racconto interminabile non osavo interromperlo.
Josh aveva un talento unico nel farti ridere con le sue acrobazie facciali.

There are two colours in my head
There are two colours in my head
What is that you tried to say?
What was that you tried to say?
Tried to say… tried to say…
Tried to say… tried to say…

Mike e Josh.
Un atteggiamento simile.
Josh come Mike.
Come molti occidentali in Medio Oriente: si comportavano come un autotreno che va dritto senza fermarsi pensando di avere il diritto di precedenza.
Non capivano le leggi non scritte.
Non accettavano i silenzi.
Non sopportavano di essere secondi a nessuno.
Dovevano essere sempre i numeri uno.
Ad esempio.
Josh aveva preteso di stare davanti nel pick-up di Assim, il beduino arabo, boss del lavoro agricolo.
Stare seduti nell’abitacolo davanti con Assim era un premio.
Lui lo aveva preteso con arroganza.
Aveva deciso a priori che lui sarebbe stato il miglior amico di Assim.
Ma il posto seduti a fianco ad Assim lo si guadagnava in silenzio.
Lo si guadagnava col rispetto.
Lo si guadagnava quando Assim vedeva amore e profonda empatia.
Josh invece si era forzatamente messo al suo fianco, pensando che le sue facce, le sue smorfie, le sue battute crazy lo facessero ridere.
Se non rideva pretendeva che ridesse.
Ma Assim non rideva.
Josh insisteva.
Lo circondava di quel suo modo di fare da presentazione cool ai Grammy Awards.
Assim invece era un’anima immortale che prescindeva dalle ere geologiche.
Noi guardavamo quel sacrilegio inorriditi.
Assim si infastidì e lo fece scendere dal pick-up.
Lo spedì dietro.
Per Josh fu una cocente umiliazione.
Davanti a tutti.
Josh non capiva.
Josh si era offeso.
Josh aveva cominciato una gara a chi era il più amato da Assim.
Josh aveva cominciato a giocarsi anche la nostra simpatia.
Josh non aveva capito un cazzo.
Per i volontari nel settore agricolo Assim era un maestro Jedi.

 

IL TRADIMENTO

Da allora Assim cercò di lavorare con Josh il meno possibile.
Josh imbarcava acqua.
Le ragazze cominciarono a dire che era pesante e invadente.
Josh imbarcava sempre più acqua.
Quando cominciava a parlare molti si lanciavano occhiate esasperate.
Io cominciai a chiamarlo “The Saxon” perché ci asfissiava continuamente raccontandoci degli arcieri sassoni con l’arco lungo.
Quel nome gli rimase perché si abbinava alla sua crescente invadenza.
Invadenza sassone.
Più lo si allontanava più diventava invadente.
Più scherzavamo su di lui più diventava aggressivo.
Josh amava deridere ma non che qualcuno ridesse di lui.
Josh non era il più amato e cominciava a soffrirne.
Rivoleva il suo scettro.
Lo voleva a tutti i costi.
Lo cercava tra le nostre mani.
Ma nessuno lo aveva.
Nessuno ci aveva mai pensato.
Josh era l’occidente di Locke.
Uno che arriva, mette un paletto e dice: questo è mio.
Josh stava affogando.
Si sentiva tradito da tutti.
Dalla vita.
Dal viaggio.
Da Israele.

Everything, everything, everything…
In its right place
In its right place
Right place

There are two colours in my head
There are two colours in my head
What is that you tried to say?
What was that you tried to say?
Tried to say… tried to say…
Tried to say… tried to say…

Everything in its right place


 


 


Emanuele Casula

E' nato nel 1975. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Bologna, è partito a lavorare in un Kibbutz israeliano, esperienza che ha indirizzato la sua vita verso la Cooperazione Internazionale e la ricerca universitaria. Ha lavorato come progettista, coordinatore e cooperante a un progetto che riutilizza le tecniche millenarie della pastorizia per rilanciare lo sviluppo rurale nel sud dell’Africa. Il suo primo romanzo, 2012 Obama’s Burnout, è pubblicato da Robin Edizioni (Roma, 2011).