C’era una volta un rumore.
Oscuro borbottante, sembrava provenire dal centro della terra, inseguire le strade le rotte, salire su, dalle fondamenta fino alle ultime insenature della corteccia tremante e i venti, spargersi arido tra le bocche dei passanti che, d’improvviso, piegati, gustarono polvere, foglie, asfalto, linfa, raucedine, petali, tosse, tubature e non più parole. Il rumore si attenuava.
Guarda l’enorme cielo: vetrificato.
Scavati come crateri i loro cuori respinsero la solitudine della crepa. Seguirono in alto, gli sguardi, traiettorie aeree diagonali, galleggianti tra filamenti verdeazzurri dio, di un’acqua densa, gli occhi come pesci boccheggianti, assetati.
I contorni del battito si schiarirono, così la pelle assorbì la trasparenza, densa.
Mentre fuori perseguiva il crollo, mattoni fracassavano mattoni e nubi luciferine si attardavano sospese scheggiando di risa e nulla il fracasso, oltre l’apparenza sgretolata cominciò una nuova frequenza.
Dai numeri scomparve il perimetro, gli schermi assottigliati rientrarono nelle gole delle tastiere, scomparvero anche le lettere dai tasti e la punteggiatura, si assottigliarono fili in lunghi capelli di una gigantesca forma abbagliante, i tasti stessi sprofondarono nella sparizione, lo spazio divenne fluido, i confini albini, e le terre mescolarono i loro nomi e i nomi divennero terre, nuove specie di animali, nuove lingue di suoni intersecarono la rara composizione dell’armonia, presero a rispondersi gli echi, dal punto di emissione parlarono tutti, con la mente scavata dalle aperture.
Entravano e giungevano e voltandosi si riconoscevano, pensieri sorgivi passavano, gorgheggianti, tra le grotte della memoria, illuminando, a fasci intermittenti, il buio umido.
Grumi di pipistrelli perdettero il sonno, roventi spiccarono il volo stridendo accecati tra le pareti rocciose, fuori dalle bocche cavernose tacquero gli ultrasuoni.
E nel dolce silenzio del mondo si levò, abbagliando, un’antica benedizione.