Partiva da un ricordo del ’39. Allora il signor Garten, che all’anagrafe comunale era stato registrato con questo cognome ma nel registro parrocchiale dei battesimi risultava come Garden, si chiamava Giardino per via dell’italianizzazione dei cognomi stranieri in epoca fascista. Il suo, di evidente origine nordica (ma egli stesso non sapeva dire come; forse per la migrazione in Sicilia di suoi antenati dall’Europa settentrionale), era stato modificato nel ’38, quando già frequentava l’università e, da allora, gli era rimasto attaccato addosso come qualcosa di estraneo, recandogli – così diceva – un certo disagio ma anche una certa passione per il “doppio” – l’evidente e il nascosto – a mano a mano che avanzava negli anni. Durante un esame – ecco il ricordo – il professore notò sul libretto universitario il cambio del cognome. Garten cancellato con un tratto di penna e, accanto, il nuovo cognome. Il giovane Giardino volle spiegare con sussiego: «Voi già conoscete il mio nome, però devo dire che io non mi chiamo così, altre volte mi è accaduto di chiamarmi con nomi diversi, ogni volta il mio nome non era un unico nome ma la somma di tutti». «Ma che dite,» aveva ribattuto il docente, perplesso e incuriosito «chi credete di essere? Dio?».
«Come si chiamava quel docente? Di che colore erano i suoi capelli? Portava la barba e i baffi? E le sue orecchie, com’erano le sue orecchie? A sventola o no? Il naso, poi, com’era il naso?» si domandava ora, giunto a ottant’anni, il signor Giardino. «Faccio esercizi di memoria» aggiungeva, dopo una lunga pausa, ripensando alla sua giovinezza. «A una certa età sono utili, e spesso anche divertenti» rifletteva mentre faceva ogni sforzo per ricordare i più piccoli particolari di quell’età.
Adesso che era a riposo, amava trascorreva il tempo leggendo libri di storia. Soprattutto quelli sulla seconda guerra mondiale che non si limitavano a illustrare assalti e battaglie, spedizioni e assedi, ma documentavano anche intrighi spionistici e controspionistici, accordi palesi e patti segreti delle diplomazie internazionali. «M’informo» diceva, «mi piace informarmi. Sono gli aspetti secondari che illuminano i fatti principali».
Più volentieri, perciò, diceva di abbandonarsi ai ricordi della sua esperienza militare.
Nel ’40 ‒ così raccontava ‒ era a Tivoli, chiamato a frequentare un rapido corso per allievi sottufficiali e ufficiali carristi da inviare al più presto al fronte dopo aver superato gli esami per il passaggio di grado. Da caporale a sergente e a sottotenente. Non erano esami difficili, difficile era la vita militare. Lui che si era da poco laureato in giurisprudenza e sperava in una tranquilla carriera forense, aveva allora dovuto affrontare tutte le difficoltà del mondo militare: una disciplina ferrea, un’impartizione di ordini costante, una rapidità di esecuzione a dir poco esasperata.
Il ricordo di quei giorni gli portava alla mente ripetute istruzioni tecniche sull’uso e la manutenzione del carro armato, e poi salti, parate, lunghe marce, soprattutto sotto il sole cocente, chilometri e chilometri lungo un finto percorso di guerra, in mezzo a una sterpaglia piena di buche, acquitrini, fossati, canaloni e trabocchetti.
Riconosceva con compiacimento che da borghese, a casa sua, complice la famiglia benestante, se l’era presa sempre comoda. Molte ore di sonno, moltissime di svago, pochissime di studio, un’assoluta disposizione al pensare e all’attendere il trascorrere del tempo senza alcuna particolare preoccupazione. Inoltre: lunghe passeggiate con amici e colleghi d’università che terminavano di solito sulle poltrone intorno a qualche tavolino di caffè; una totale incapacità nei lavori manuali che lo spingeva a vivere seguendo una regola aurea: servirsi il meno possibile di tutto ciò che può complicare l’esistenza, come macchine, motori, aggeggi che hanno bisogno di manutenzione. Ma, allora, quel corso accelerato per carristi dell’esercito lo metteva davanti a qualcosa di più grande e insuperabile: la guerra, da allontanare da sé il più possibile, e il carro armato, da utilizzare a tal fine. Non sapeva ancora come. La sua riflessività lavorava in quella direzione. Disordinato quasi per natura, duro d’orecchi agli ordini, lento nella loro esecuzione, avvertiva sia pure confusamente che la sua sopravvivenza al fronte sarebbe dipesa da un uso del carro armato contrario a ogni tattica militare sperimentata fino a quel momento nelle esercitazioni.
Con la dichiarazione di guerra, le esercitazioni in caserma e fuori, e perfino le esibizioni davanti agli ufficiali maggiori, si erano infittite. Una volta arrivò in visita a Tivoli il “principino”, com’era chiamato ancora, benché cresciuto, il principe di Piemonte Umberto di Savoia. Per accogliere l’illustre ospite, fu organizzata in gran fretta una festa che culminò con un saggio ginnico sul piazzale interno della caserma.
Il principino passò in rassegna la compagnia; subito dopo, per mostrare all’illustre ospite il grado di preparazione degli allievi, ebbe inizio il saggio. Quando fu il momento, le evoluzioni alle parallele toccarono al soldato Giardino. Ma che è e che non è, mentre si esibisce, al soldato Giardino, per lo sforzo, scappa una strepitosa scoreggia. Con grande imperturbabilità salta giù dalle parallele, s’inchina davanti al principino e dice: «Scusatemi, altezza! Tromba di culo…». Non fa in tempo a finire la frase che il capitano che coordina le specialità del saggio, gli tronca la parola in bocca inveendo con quanto fiato ha in petto: «Rispetto, rispetto, soldato! Vogliate aver rispetto per sua altezza! Vi concerò io per le feste!». Il principino, invece, è lì che se la ride e, rivolto agli ufficiali generali superiori e inferiori che l’hanno scortato e gli fanno corona, completa la frase incriminata dando a vedere quanto a lui sia ben nota: «…sanità di corpo, signori, sanità di corpo, come disse il re di Napoli Francesco secondo al cognato Francesco Giuseppe in analoga circostanza!».
Grazie a quell’uscita del principino, il soldato Giardino non fu punito. Anzi, per festeggiare ancor di più quella giornata speciale, fu data a tutti la libera uscita con un bel margine d’anticipo. Gli allievi poterono così riversarsi per le vie di Tivoli in cerca dei soliti posti di divertimento: le mescite per bere un bicchierino d’acquavite, la passeggiata nei parchi delle ville a coltivare qualche amoretto, le sale cinematografiche a vedere le ultime pellicole. E non mancavano le visite alle case di tolleranza dove ai militari venivano praticate tariffe scontate. «Dove suonano campane, non mancano puttane!» sentenziava il signor Giardino. «Non solo professioniste, s’intende…» aggiungeva con aria maliziosa.
«Come si chiamava il tenente colonnello reduce dal fronte africano, mandato a Tivoli per presiedere la commissione d’esame?» Il signor Giardino poneva il mento fra l’indice e il pollice restando fermo, immobile, statuario, per parecchi minuti in attesa che quel nome riaffiorasse. L’esame consisteva in una serie di domande di tattica militare. Chi rispondeva a tono diventava sergente e, dopo un altro mese di corso, sottotenente. Quando la sua compagnia si trovò sull’attenti di fronte al tenente colonnello Amedeo Montanari di Castel Maggiore (ecco, ecco, nome, cognome e luogo di provenienza!) ammutolirono tutti, perfino il capitano Giuliano Rosignoli di Montepulciano (ecco, ecco!), un tipo disumano che in quei mesi aveva trattato i corsisti come “pezze da piedi” e a lui in particolare ‒ al “soldato Giovanni Giardino” ‒ aveva fatto passare momenti tristi fra consegne in caserma e tavolaccio in cella di rigore, dandogli del “lavativo”, “imboscato” e “cazzone” senza risparmio.
Il tenente colonnello Montanari era di una possanza bestiale: alto, atletico, completamente calvo, con una mascella quadrata resa ancor più quadrata dal continuo digrignare i denti che lui faceva roteando gli occhi alla maniera del Duce, intimoriva tutti dando ordini secchi e improvvisi con una voce incredibilmente acuta, quasi femminea. Digrignando i denti tirava spesso su col naso («Ecco, ecco un particolare irritante»). Una specie di tic nervoso che gli astanti sopportavano senza però fiatare.
Iniziò l’esame col porre al primo degli esaminandi i termini di un problema a suo dire semplicissimo:
«Soldato Alessi, se come ufficiale del regio esercito vi si comunica che è in arrivo da Tivoli una colonna di carri armati, che ordini impartite ai vostri uomini?».
Il soldato Alessi con una certa titubanza risponde: «Uomini, tutti a terra in ordine sparsooo!».
Il Montanari grida qualcosa d’incomprensibile e fa avanzare il successivo:
«Soldato Alibrandi, se da ufficiale del regio esercito vi si comunica che è in arrivo da Tivoli una colonna di carri armati, che ordini impartite ai vostri uomini?».
Il soldato Alibrandi non sa che rispondere, farfuglia:
«Uomini, pronti a resistereee!».
Il Montanari grida di nuovo qualcosa d’incomprensibile e fa avanzare il terzo candidato.
L’esame va avanti così: nessuno sa cosa rispondere.
La domanda appare troppo generica, non c’è chi osi contestare il tenente colonnello, il quale sempre più infuriato rotea gli occhi e digrigna i denti piantato in solitudine davanti a un tavolo enorme di ferro, pieno zeppo di fogli e cartelle.
Viene il turno del soldato Giardino.
«Soldato Giardino» urla il tenente colonnello Montanari con la schiuma alla bocca, «se da ufficiale del regio esercito vi si comunica che è in arrivo da Tivoli una colonna di carri armati, che ordini impartite ai vostri uomini?».
Il soldato Giovanni Giardino sa già che quale che sarà la sua risposta farà montare ancor più sulle furie il terribile esaminatore. Un po’ per prendere tempo, un po’ per aggirare l’ostacolo, domanda a sua volta con voce alta e chiara:
«Scusate, signor colonnello, ma i carri armati sono nemici?».
Quel che accadde subito dopo rimase memorabile: il tavolo di ferro con su tutte le carte, abbrancato e sollevato in aria dalle braccia erculee del Montanari, volò in un angolo del cortile, le urla e gli insulti dell’ufficiale all’indirizzo dell’intera compagnia rimbombarono da un capo all’altro degli edifici. L’esame fu sospeso: tutti gli esaminati fino a quel punto furono bocciati e costretti a ripetere il corso. Tutti, tranne il soldato Giardino, sul foglio matricolare del quale nulla era stato scritto al momento di quella sfuriata. La prova d’esame fu ripetuta da lì a una settimana con un ufficiale superiore più ragionevole, che da Giardino in giù, nell’elenco, promosse tutti.
Il soldato Giardino divenne così sergente. Un mese dopo, per necessità di servizio, fu promosso sottotenente e fu subito mandato al fronte iugoslavo.
«La mia compagnia doveva dare manforte all’artiglieria. Ma io trovavo sempre il modo di mettermi in coda alla colonna e di partire per ultimo. Quando arrivavo io, i fatti di guerra più gravi erano già accaduti. Decimazione d’interi battaglioni ad opera della resistenza locale, bombardamenti improvvisi, sabotaggi micidiali, tutto si verificava in mia assenza. All’arrivo della mia compagnia si contavano i morti, si raccoglievano gli sbandati, mentre la guerra si era già spostata altrove.»
Così raccontava il signor Giardino con un lievissimo sorriso sulle labbra, mentre ora, giunto a ottant’anni, faceva esercizi di memoria con sicuro vantaggio del cervello.
«Ciò che conta è il particolare più minuto, più banale, più insignificante» aggiungeva il signor Giardino osservando la punta delle sue scarpe. Le scarpe militari avevano tutte la punta un po’ quadrata. Solo le sue l’avevano tondeggiante… Sul calcio del moschetto aveva inciso due “G”, le sue iniziali, caso mai glielo avessero sottratto… A Lubiana aveva mangiato delle buone bistecche di mulo… Si era slogato un piede saltando giù dal carro armato, e quell’incidente gli aveva salvato la vita: durante il ricovero all’ospedale, un attacco improvviso delle truppe titine aveva distrutto l’intera sua compagnia… All’ospedale aveva conosciuto un’ausiliaria con cui se l’era spassata parecchio… La ragazza – così precisava – aveva una strana voglia rossastra su una natica… «Sono i particolari ad animare i ricordi!».
«Quando si è giovani e lontani da casa, viene nostalgia della famiglia e si pensa di metterne su una propria. Ma il matrimonio non è mai stato il mio pallino» diceva il signor Giardino, ora giunto a ottant’anni, seduto sulla panchina di un parco giochi pubblico, mentre osservava il chiasso dei bambini sull’altalena e sullo scivolo comunali. «Un giorno, però, anche a me era venuta l’idea di sposarmi…»
Qualche mese dopo l’incidente, precisamente in agosto, il sottotenente Giardino fu mandato in licenza, via Trieste. Invece di tornare a casa, in Sicilia, dove i genitori lo attendevano ansiosamente, si trattenne qualche giorno a Venezia, dove – raccontava con malcelata vanagloria – ebbe una nuova avventura sentimentale con una crocerossina. La licenza sarebbe dovuta durare un mese e già si era alla fine di agosto. A Venezia si trattenne anche la prima settimana di settembre. Stava per rimettersi in viaggio quando apprese dalla radio, come tutti gli italiani, la notizia dell’armistizio con gli Alleati anglo-americani. Nei giorni di caos che seguirono, il giovane Giardino fece in tempo a mettere in atto due propositi: spogliarsi della divisa militare e mettersi sul primo treno in partenza per il Centro-Sud.
Di buon mattino, a Venezia, sul marciapiede del treno per Roma, il giovane sottotenente Giardino si trovò, in abiti borghesi procuratigli dalla crocerossina, in mezzo a una calca immensa di gente impaziente, come lui, di occupare un posto, sistemare il bagaglio e giungere il più presto possibile a destinazione.
Accanto a lui c’era un signore molto alto e robusto, ben calzato e ben vestito, con un cappello di feltro calcato sulla fronte fin quasi alle sopracciglia e un gran paio di occhiali da sole che gli nascondevano parte del volto. Doveva essere raffreddato – così pensò il giovane Giardino – perché spesso aspirava dalle narici emettendo il tipico rumore di chi ha il naso tappato.
«Anche voi in… licenza?» s’informò quel tizio, tanto per dir qualcosa, con una vocetta acuta in contrasto con l’imponenza della figura, squadrandolo, senza darlo a vedere, da capo a piedi.
«No» rispose prontamente il sottotenente in borghese Giardino, strizzando un occhio con un gesto d’intesa, «sono in viaggio di nozze».
«Le mie congratulazioni!» esclamò il tizio. «Anch’io sono ammogliato, ma da venticinque anni!».
«Allora quest’anno festeggiate le nozze d’argento» commentò il giovane Giardino con un sorriso che invogliava alla conversazione.
«Precisamente» confermò il viaggiatore, «stavamo organizzando la festa per il quindici di questo mese, ma adesso non so più se potremo».
Intanto il treno era arrivato sul binario, il personale aveva aperto gli sportelli, i viaggiatori facevano ressa sul marciapiede per salire e pigliar posto.
Presi dalla conversazione, i due lasciarono salire tutti gli altri e, quando si liberò il predellino, a stento riuscirono a montar su per la troppa gente che già sostava pigiata perfino nel vano antistante al servizio igienico. Valigie, borse, scatole, sacchi d’ogni tipo ingombravano il corridoio. Il giovane Giardino e il suo compagno di conversazione dovettero viaggiare in piedi fino a Bologna. Ma quel disagio non interruppe i loro discorsi.
La calca era tanta e faceva caldo. D’un tratto il tizio, con gesto quasi furtivo, si levò il cappello, si tolse gli occhiali e si asciugò il sudore che gli colava copioso dalla fronte. La sua lucida calvizie e la mascella quadrata suscitarono nel signor Giardino una certa curiosità e, a osservarlo meglio, gli fecero venire in mente Tivoli e il tenente colonnello Amedeo Montanari di Castel Maggiore.
Il giovane Giardino ci rifletté sopra alcun tempo, poi non ebbe più dubbi: era lui, sicuramente lui, il terribile tenente colonnello Montanari in abiti civili, e certo si dirigeva verso il Centro-Sud per imboscarsi da qualche parte.
«Perdonate la mia curiosità» chiese il giovane Giardino guardandolo fisso negli occhi «voi non siete il tenente colonnello Amedeo Montanari?».
Dopo un attimo di perplessità, il tizio digrignò i denti e tirò su col naso. Poi con una risatina a denti stretti:
«Anche voi ci siete cascato. Non siete il primo. Gli somiglio come una goccia d’acqua» disse. «Io sono il fratello gemello». E nel dir così digrignò i denti e tirò su col naso ancora una volta.
«Eh, sì» disse il signor Giardino con un sorriso sornione, «due gocce d’acqua, proprio due gocce d’acqua!».
Seguì una lunga pausa mentre il treno continuava a sferragliare sul binario. Poi l’incredibile fratello gemello del tenente colonnello Montanari, tanto per superare la situazione, si arrischiò a domandare: «E ditemi, ditemi, vostra moglie non è con voi?».
«L’ho abbandonata a Venezia» rispose con una certa gravità il giovane Giardino.
«Abbandonata? E perché mai?» incalzò quello ancor più incuriosito.
«Non era vergine» rispose con un sospiro il giovane Giardino.
Nel subito silenzio che seguì a queste parole fra i viaggiatori stipati intorno, il giovane Giardino volle spiegare: «Sapete, io sono del Sud!».
«Capisco, capisco» disse un po’ turbato il suo interlocutore.
Il giovane Giardino, dopo una breve pausa, domandò: «E voi, come l’avete trovata vostra moglie la prima notte di nozze?».
Il sedicente gemello lo guardò con un misto di sorpresa e disagio, poi girò lo sguardo sull’intera compagnia, digrignò i denti, tirò su col naso e affermò con voce ancor più sottile ma perentoria: «Illibata, naturalmente, illibata!».
Intanto il treno era arrivato a Bologna. Molti, e con loro il sedicente gemello, scesero con un agile saltello dal predellino e un sospiro liberatorio. Non prima, però, che il giovane Giardino avesse il tempo, studiatissimo, di dire a voce più che alta: «La moglie è come la patria, non credete?».
Scendendo molti borbottavano, altri strillavano: «Che moglie?! Che patria?!».
Ora giunto a ottant’anni il signor Giardino guardava con una certa malinconica ironia alla sua vita passata. Spesso rovistava nei cassetti della sua scrivania, negli scatoli pieni di vecchie carte, fotografie, cartoline illustrate, lettere, documenti, quietanze di pagamenti, bollette della corrente elettrica o del telefono, vecchi conti bancari. Si rigirava il reperto fra le mani, accennava a un sorriso, socchiudeva gli occhi e si abbandonava ai ricordi: «I particolari» ripeteva «sono la cosa più importante!».
Una volta fu incuriosito da un vecchissimo documento militare, rilasciato a Garten Giovanni, chiamato alla visita di leva del 1933 presso il distretto militare di M.
«Ecco, ecco, Giovanni!» ripeté a se stesso, rigirandosi il documento fra le mani tremolanti. Leggeva quasi sillabando quel che vi era scritto. E vi era scritto che Garten Giovanni, risultato inabile al servizio militare per grave insufficienza toracica, veniva riformato. Quello era il suo congedo militare.
«In effetti nel ’33 io mi chiamavo ancora Garten» sorrise il signor Giardino. Poi, con una smorfia di compiacimento: «Beh, non solo non mi sono mai sposato, ma non ho nemmeno fatto la guerra…».
Angelo Maugeri