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Cu t’alliscia vol’u pilu? Ah sì? … Acedd’i Puddu!” (ed. Prova d’Autore, 2012) è lo stravagante ma eloquente titolo del nuovo libro di cop cu tallisciaMario Grasso, poeta e scrittore fra i più prolifici dell’età contemporanea. È da ricordare, tra le numerose opere dell’intellettuale etneo, il complesso poema “Concabala”, versificazione poderosa che, in un gioco di rimandi fonosemantici, collega il logos archetipico, Marfondo linguistico-culturale che sembra sorgere dalle acque primigenie (così come i Bronzi di Riace protagonisti dei versi), alla lingua della comunicazione nazionale, con un felice innesto di arcaismi, neologismi e scelte lessicali in cui la polifonica vocalità non è mera autocelebrazione ma è latrice di una rappresentazione del mondo originaria e al contempo in continua evoluzione. Rispettoso rinnovatore della lingua dei padri, Grasso, nella sua nuova opera edita dalla casa editrice catanese “Prova d’Autore”, si cimenta nuovamente con la paremiologia siciliana, composito e inesauribile universo affrontato dall’autore jonico in due precedenti produzioni letterarie, “Lingua delle madri” (ed. Prova d’Autore, 1994) e “Cu t’inghitau?” (ibidem, 2005). Questo terzo volume permette così di compiere la quadratura del cerchio gnoseologico nell’ambito non solo dei proverbi e dei modi di dire diffusi sull’Isola, ma di quella saggezza popolare che è la summa delle numerose culture che si sono succedute e intersecate nei secoli sul suolo e sui mari della Trinacria. Le divertenti e irriverenti interpretazioni fornite dall’autore, che dipanano i nodi linguistici anche attraverso azzeccati parallelismi con l’odierna situazione socio-culturale, sono arricchite dalle inedite opere pittoriche del giovane Sandro Greco, dipinti in cui le piazze sono accarezzate da eclissi stranamente rivelatrici e i castelli arroccati si stagliano sullo sfondo di paesaggi marini. Come già illustrato nella prefazione all’opera, scritta sapientemente da Daniela Saitta, il testo si snoda in tre ricche e ben delineate sezioni, che affrontano differenti aspetti della saggezza folcloristica e della natura intrinseca di un popolo caratterizzato da una diffidenza e un pessimismo non lamentoso ma ironicamente sarcastico. Il siciliano è sottilmente beffardo, prima che con l’interlocutore, con se stesso, come si evince dal detto “Pallùni sugnu, alleggiu ccu’ i pidati” in cui si sottolinea “per un verso la sottomissione al proprio destino” ma “dall’altro una preghiera, una esortazione a che il trattamento non sia spinto fino alla esagerazione”. La prima e la seconda sezione del volume sono titolate rispettivamente con l’interrogazione iniziale “Cu t’alliscia vol’u pilu?” e con la sarcastica esclamazione “Acedd’i Puddu!”,  dove “lisciare è corteggiare”, “andare per il verso giusto, non controcorrente”, per il raggiungimento di fini che non sono solo quelli che la malizia può richiamare alla mente, e la successiva locuzione esclamativa fa da contrappasso al quesito posto ad inizio titolo, chiamando in causa “l’imponderabile, l’indefinibile, l’inesistente, il vuoto di ogni possibile ipotesi”. Particolarmente bizzarro è il titolo dell’unità conclusiva, un distico prosastico che riproduce l’immaginaria conversazione tra un presunto passante cuttigghiaru che, intrigante, chiede “Monicu picchì fui?” e si sente rispondere da colui su cui aveva riversato le sue inopportune attenzioni “Picchì ogni unu sapi i cacchi soi!”, con un rilancio macchiettistico di battute che delinea un aspetto peculiarmente distintivo dello spirito dell’isolano, che se da un lato si diletta nel ciarlare malignamente di congiunti e non, dall’altro si mostra risentito e piccato qualora l’oggetto del pettegolezzo diventino “i cacchi soi!”. L’intelaiatura del libro e la suddivisione per temi consentono una rappresentazione compiuta della sapienza popolare sicula, fornendo inoltre uno specimen dei numerosi substrati e superstrati che l’hanno arricchita, sia dal punto di vista più genericamente culturale, sia da quello specificamente semantico-espressivo. Dalle maglie linguistiche di sentenze arcaiche e nondimeno attuali, emergono così grecismi, in particolare termini riconducibili al dorico, come  “scifu” (in italiano trogolo, di origine longobarda), arabismi quali “ammatula” e “catùsu” e lemmi che provengono direttamente dall’antico francese, come “tuppu” (da toup), per citarne solo alcuni. La policromia espressiva del codice linguistico dialettale, che emerge attraverso giochi di parole, dietro cui si celano sovente molteplici significati, e allitterazioni insistite e ridondanti, che mettono a dura prova l’abile dizione degli stessi siciliani autoctoni, svela una saggezza tradizionale che la meticolosa investigazione compiuta da Mario Grasso fa emergere in tutta la sua concreta e analitica prosperità di temi, forme, sfumature, ma anche di definitive e definitorie sentenze, inappellabili poiché autenticamente fondate sull’esperienza tangibile delle “madri della lingua”. La concretezza semantica è dunque riconducibile all’essenza stessa dell’anima siciliana ed è, anzitutto, sopravvivenza viscerale che si trasmuta in corporeità della parola, in cui significato e significante sembrano interconnessi più che nella lingua nazionale, con un materialismo incipiente della forma linguistica che riesce a produrre, anche al di là (o quasi) del significato a cui è legata, un incanto innescato dalla sua stessa sonorità linguistica. Simultaneamente, la puntuale e rigorosa analisi filologica compiuta dall’autore, permette al lettore un recupero della lingua delle origini, che va al di là del mero logocentrismo e diviene riavvicinamento, attraverso le antiche locuzioni sapienziali, alla produzione letteraria tradizionale e all’opera non solo dei più noti intellettuali del primo Novecento ma anche di autori poco noti al grande pubblico, i D’Arrigo, i Pasqualino. Grasso, con questo meritevole scritto all’insegna della cosmogonia, ci guida nella esplorazione di una cultura in cui contemporaneità e arcaica istintualità si fondono, un infinito che ha mantenuto intatto il suo fascino. Il lettore, attraverso la paremiologia (dietro cui si cela tanto altro), può riscoprire le multiformi sfaccettature di un universo polifonico, il dialetto, “lingua povera della verità” citando lo stesso Grasso, che affonda le sue radici nel cuore, eterno e pulsante, della Sicilia.

Francesca Taibbi

Nasce a Giarre nel 1981. Dopo alcuni anni peregrini nel nord Italia, ritorna a Giarre dove consegue la maturità all'Istituto Tecnico Commerciale. Si laurea in lettere all'Università di Catania discutendo una tesi su "Per l'edizione critica di Storia di una Capinera". Attualmente insegna presso un Istituto Parificato.