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Quell’abitudine se l’era portata appresso come un tatuaggio invisibile.
Quando era bambino, ogni giorno, si svegliava al canto del gallo insieme a suo padre, per mungere le vacche, e liberare le galline perché si cibassero dell’erba fresca davanti al portico, rorida della rugiada del primo mattino. Suo padre riteneva la sveglia la più stupida invenzione della storia delle invenzioni. “Un gallo artificiale, che canta quando decidi tu. E’ ridicolo!” soleva dire, “Anzi, in qualche modo mi sembra sacrilego. Dio ci ha dato il gallo per svegliarci al mattino. Il gallo canta sempre, e sempre noi ci svegliamo per iniziare con lui una nuova giornata. Dio di sicuro non approva la sveglia.” Per nulla al mondo ne avrebbe tenuta una in casa.
Per quanto avesse odiato la vita alla fattoria, era stato felice di scoprire, quando si erano trasferiti nella nuova casa alla periferia di Roma, che il suo vicino aveva un pollaio. Non era stato difficile riabituarsi alla sveglia naturale che aveva accompagnato la sua infanzia. Anche quando andava a dormire molto tardi la sera prima, perso nell’universo spazio-temporale parallelo del suo romanzo, lo sentiva sempre. Il gallo che annunciava il nuovo giorno. Per quanto tumultuosi fossero i suoi sogni, o terrificanti gli incubi che tormentavano le sue notti, al canto del gallo, sempre, le sue labbra si sollevavano in un sorriso, e gli restituivano la quiete.
Non era mai accaduto che non l’avesse udito. Ad ogni nuova alba, puntuale, il gallo cantava, e lui, puntualmente, lo sentiva. Dopo la morte del padre, era così che si manteneva in contatto con lui. Gli piaceva pensare che attraverso quel canto egli lo rassicurasse. ‘Per quanto lontano io sia, ci sarò sempre per te’, sembrava dirgli, ‘sarò ogni mattina nel canto di quel gallo, per augurarti una buona giornata’.

* * *

Si svegliò. La luce di un mattino grigio filtrava attraverso le imposte che non chiudeva mai del tutto. Pioveva. Percepiva chiaramente il ticchettìo della pioggia sui vetri, sul tetto. Era sudato, le lenzuola attorcigliate al corpo come un serpente che volesse strangolarlo. Socchiuse appena gli occhi per guardarsi intorno. Il letto aveva l’aspetto di un campo di battaglia. Non c’erano dubbi, doveva aver avuto un incubo, di nuovo. Non ricordava neanche una notte serena in quegli ultimi mesi. Sabrina aveva portato via con sé anche la sua pace notturna. Stronza. ‘E ancora più stronzo io che me la sono lasciata portare via senza muovere un dito’ si disse.
Si tirò a fatica su dal letto. Evitando accuratamente lo specchio, si versò del caffè nella tazza preferita. ‘Dopo una notte così meglio abbondare’ si disse, mentre la riempiva fino all’orlo. Accese la prima sigaretta della giornata, la ‘sigaretta del risveglio’, l’aveva ribattezzata Sabrina. Ma quel giorno, al primo tiro, il fumo gli andò di traverso. Tossendo spasmodicamente, la gettò nel lavello. Un pensiero gli aveva attraversato fulmineamente la mente da una parte all’altra, provocandogli un dolore quasi fisico.
Quella mattina, nella pioggia, il gallo non aveva cantato.

 

chagall il gallo