La nascita, solo la nascita
di Luigia Sorrentino (Manni)
Poesie da allarme rosso quelle contenute nella raccolta La nascita, solo la nascita di Luigia Sorrentino. Testi in fibrillazione, figli dell’urgenza e del disastro immanente, irrimediabile. Una nota dell’autrice a fine libro chiarisce l’intenzionalità di un’opera “interamente ispirata ai fatti che hanno insanguinato la terra fin dall’inizio del terzo millennio: catastrofi naturali, come terremoti e maremoti, ma anche eventi causati dall’uomo, come attentati, guerre e stragi”. Con inconsueta energheia la Sorrentino imprime ai versi una marcia turbinosa, inesausta, lasciando esondare il flusso emotivo e poetico del suo dettato su pagine che scorrono via dagli occhi come grida impossibili da tacitare. L’impersonalità raggiunta è mirabile, lo sguardo del poeta si fa davvero ecumenico, partecipato, mentre ogni intralcio dell’io è abolito. L’agape poetica ha una capacità unica di affratellare l’umanità che soffre (d’altra parte la dedica posta in esergo non lascia dubbi: a coloro che soffrono, agli esiliati). Il grande rischio che si poteva correre era quello di risultare goffi, artificiosi e non riuscire a restituire la verità del dolore, invece per l’autrice vale quanto ha scritto María Zambrano: “Ogni poeta è martire della poesia, le dona la propria vita, tutta la propria vita, senza riservarsi alcun essere, per sé, e assiste con sempre maggiore lucidità a tale donarsi senza riserve”. Martire e quindi testimone autentico di un tempo solcato inevitabilmente dal tragico, il poeta elude ogni luogo comune e barriera concreta, anche quella offerta dalla sua stessa professione, il giornalismo, che spesso si macchia di cinismo e indifferenza, abitudine alla morte, all’ingiustizia. Parte da lontano, ab origine, fin dal titolo, “La nascita, solo la nascita”, “per quel supremo trauma che è la vita” (pag.37), titolo che mi riporta alla mente il mitico Sileno, precettore di Dioniso che, secondo la leggenda, catturato dal re Mida, alla domanda di quest’ultimo su cosa fosse più vantaggioso e desiderabile per l’uomo, costretto risponde: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto” (cfr. Nietzsche, La nascita della tragedia e l’articolo-saggio Leopardi e la sapienza silenica di Marcello Tartaglia).
La poesia d’apertura esplicita nel taglio lo strappo dal cordone ombelicale (“ma di taglio non si riduce / la pena nella venuta”, pag.9), prima grande dolorosissima cesura che subisce l’uomo appena nato. Tutto comincia qui, la serie di tradimenti (“per un tradimento bianco ogni cosa / perciò riposa avvelenata / nel camice che hai indossato”, pag.13) che l’esistenza ci offrirà, volenti o nolenti, come dichiara l’autrice in un incontro-intervista con Vincenzo Mascolo per la manifestazione Ritratti di Poesia, tenutasi a Roma nel gennaio 2012. Si viene al mondo “confusamente, al freddo” (pag.9), nella durezza di “[…] mascelle come tenaglie / masticatrici” (pag.11), non c’è anestesia (pag.10) che plachi seriamente l’urto. Nella sezione Le onde della terra, il vento e l’acqua sono emblemi di speranza, la luce del fuoco, dell’alba o dei falò, “luce disperata che segui la mia ombra / vienimi innanzi a fendermi il cuore” (pag.19), sembra mimare la più alta luce divina, nel cuore terrestre, nella crosta ferita di chi attende “la crepa la voragine” (pag.17). I valichi, le vallate e i pendii sono i tracciati dissestati del paesaggio e dell’anima collettiva del popolo angustiato, i “cento canarini gialli” (pp. 26 e 43) sono forse angeli, messaggeri di pace? Il punto è “ma chi vede la luce? / dove esiste la luce?” (pag.30) ci rammenta l’autrice come meditando criticamente su Giovanni III, 19 (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”). Condizione d’esilio e soglia non vietano l’incantamento offerto dal puro destarsi della bellezza naturale, “la gioia del filo d’erba”, nei versi splendidamente sospesi, idilliaci, da quiete dopo la tempesta, di pagina 34. E man mano che si procede la lettura febbrile dei versi c’è spazio per una poesia ricaricata di resurrezione: “li sveglieremo per mano della terra / la terra delle mareggiate e dei temporali” (pag.52), che attraverso il proprio “bambino terrestre” (pag.54), chiede di cancellare, seppellire, quello “strascico di ombre dove la luce è orfana” (pag.60), non per votarsi al dio della guerra o a quello del commercio (pp.64-65), entrambi forieri di morte (la morte si estende in molti testi come la peste nei quadri di Bruegel il Vecchio) e spirituale e materiale, né per soccombere a quel male assoluto di una sperfezione incredibile (pag.66), ma per protendersi “intorno a questo altrove” (pag.77), lungo le navate luminose della cattedrale (La cattedrale, terso poemetto che fa da sezione finale al libro), e cadere in ginocchio pieni di gratitudine per quanto ci è dato sentire con improvviso bagliore, finalmente pacificati, nel luogo dove la morte non c’è più, cristianamente, non esiste, perché ogni morte è rinascita. E quindi non rimane altro, in un canto di luce soave, che La nascita, solo la nascita.