Renata Governali propone agli Amici di Lunarionuovo una idea che abbiamo accettata e fatto nostra: l’occasione della rivoluzione che la pandemia e le discipline che ne sono scaturite continua provocare nelle consuetudini generali, ci induce a definire geniale l’idea della nostra Amica psico-terapeuta e scrittrice, alla quale cediamo subito la parola e lo spazio su cui, di mese in mese, ci impegniamo a seguire l’esempio, invitando ad altrettante adesioni collaboratori, lettori e simpatizzanti della nostra Rassegna. Rassegna che, intanto, si dispone, anche con questa iniziativa, a celebrare l’avvicinarsi del compimento dei cinquanta anni dalla sua nascita in volumi cartacei per tutti i suoi primi 53 numeri. Leggiamo adesso l’invito di Renata Governali e l’avvincente capitolo iniziale che segue la premessa come invito e pensiamo a prenotarci per un nostro turno. (mg)
Premessa
DIAMO PAROLE A CIÒ CHE ABBIAMO VISTO E VISSUTO
La nostra recente quarantena forzata ci ha tenuto dentro i confini, dentro lecittà, dentro i quartieri, dentro le case e,a volte, dentro noi stessi. Per alcuni è stata una prigionia dura per altri l’ opportunità di un diverso guardare e di uno sperimentarsi in situazioni qualche mese prima neanche immaginate. Ma ora è il tempo della narrazione, di dare parole a ciò che abbiamo visto e vissuto. Mi ha tenuto compagnia in questi lunghi giorni un vecchio libro di Sunsna Sontang Malattia come metafora nel quale l’autrice analizza il modo in cui alcune patologie vengono raccontate come figura o come metafora perché è quasi impossibile non essere influenzati, nello star male, dalle impressionanti immagini con le quali le malattie vengono descritte. La tubercolosi, ad esempio è tratteggiata come malattia della smaterializzazione, patologia dei liquidi: il corpo si trasforma in muco, in sputo e poi in sangue. La miseria ne è la causa ma soprattutto la deprivazione sentimentale: la conseguenza dei dolori d’amore e della passione che consuma. Mimì della Boheme, Margherita Gautier e tante altre eroine romantiche si ammalano di TBC per non dimenticare il grande affresco della Montagna incantata di Mann. Le immagini che abbiamo visto in televisione, in questi giorni di isolamento, ci hanno indotto a pensare al Coronavirus come alla malattia del respiro, della fame d’aria, del soffocamento e cosa è simbolicamente legato al respiro, al soffio, più della nostra psiche? Il Coronavirus è diventato, nelle nostre rappresentazioni mentali, una morbo che comprime l’anima, che la soffoca, che la uccide così come, per associazione, il disboscamento, la cementificazione e la mancanza di rispetto per il nostro pianeta spengono la vita sulla Terra e la speranza. Ne usciremo migliori, qualcuno ha detto: se riusciremo a salvare la nostra anima salveremo anche l’anima del mondo, lo difenderemo dai soprusi e dalle offese che quotidianamente gli infliggiamo con gli scarti e con gli sprechi di questa nostra civiltà che civiltà non è. La paura del contagio, indotta a volte pompata dai mass-media, ci ha portato a rileggere per confrontare ciò che abbiamo vissuto, le pagine del Manzoni, quelle di Camus e poi quelle più ricche di speranza e di vita di Boccaccio. Così come durante la forzata permanenza in casa il nostro pensiero è andato spesso a Robinson Crusoe, alla sua vita, nell’isola deserta, come una continua scoperta e un necessario adattamento. Certo per noi non è stato lo stesso, siamo stati connessi col mondo attraverso i media; a volte anche troppo connessi; ma è stato necessario anche provare a cavarsela da soli con un rubinetto sgocciolante o con la tinta dei capelli. Molti si sono dati alla cucina, altri alla lettura, altri ancora alla visita virtuale di musei e mostre d’arte. Webinar e videoconferenze hanno sostituito gli incontri diretti tra le persone, angoscia e tristezza l’hanno fatta da padroni e poi, ci è sembrato che si fosse sviluppato un forte sentimento di appartenenza, di identità nazionale nel senso di uniti vinceremo, sono apparsi i tricolore alle finestre e, un po’dappertutto, nei balconi sono state intonate canzoni patriottiche; medici e forze dell’ordine definiti eroi di una battaglia alla quale abbiamo potuto partecipare solo stando fermi, stando chiusi nelle case; i nostri territori, i nostri siti archeologici, i nostri paesaggi, la nostra cultura la più bella e la più ricca del mondo sono stati riscoperti da molti italiani . Hanno cominciato a girare sui social video sulle nostre opere d’arte, sui mari, sulle iniziative culturali che sollecitavano, alla fine della forzata quarantena, a vederli, a conoscerli, a visitarle queste opere, segnale concreto ed evidente della nostra storia, patrimonio tra i più ricchi e illustri del mondo. A questo rinnovato senso di identità nazionale, nei molli ozi della quarantena, noi abbiamo pensato di dare un contributo artistico ovvero raccontarli questi monumenti, descriverne la bellezza delle forme architettoniche, dei toni pittorici attraverso l’ incanto della letteratura. Saranno pubblicati su Lunarionuovo, ogni mese, racconti e poesie sui monumenti che vi suggeriamo di visitare e di conoscere. Già molti scrittori e poeti hanno dato la loro adesione e siamo fiduciosi che molti altri se ne aggiungeranno; può diventare, questo, un modo nuovo di promuovere l’arte attraverso l’arte.
Inizieremo con un monumento nascosto nel cuore di Catania, un piccolo ma importante resto di quella che fu una vasta necropoli romana che si trova nell’ex selva del convento di Santa Maria di Gesù nei pressi della omonima piazza. E lo faremo con un racconto dal titolo Ula dulbitana ula.
Il racconto
HO VISTO UNA FORMA DI PIETRE ANTICHE CHE SEMBRAVA ATTERRATA DAL CIELO
“Sono Mambì, come stai?” Mi dice al telefono incespicando un po’ sugli accenti. E’ arrivato da molto lontano su una barca sconquassata ed io sono da un anno il suo tutore. Ha la pelle scura,occhi splendenti e ricciolini che, come una corona, gli circondano il capo. È giovane ha appena compiuto quindici anni; ha un corpo forte e solido ma nella sua anima si agitano come fantasmi le immagini di ciò che ha vissuto scappando dal suo Paese: la guerra che ha sterminato la sua famiglia,il deserto seminato di cadaveri, l’inferno delle carceri libiche,la paura e il dolore del viaggio per mare. Il suo migliore amico che lui chiama cugino, è caduto in acqua e non è più riapparso. “Ciao Mambì -rispondo- Sto bene.” Lui incalza: “Ti devo parlare. Ti devo raccontare una cosa.” “Dove sei?” chiedo a mia volta un po’ preoccupata, sono quasi le tre e lui non esce volentieri dalla comunità che lo ospita, si reca quotidianamente a scuola ma alla fine delle lezioni rientra. Non gli piace il mondo fuori, dice che ci sono ragazzi cattivi che spacciano o che litigano, preferisce il clima accogliente della struttura che lo ospita. Ha bisogno di pace. Io penso che ci vorrà ancora un po’ di tempo per ambientarsi. Ho provato a chiedergli ma non racconta quasi nulla, le porte del suo cuore sono ancora chiuse ma oggi, forse, parlerà. Lo invito a casa mia. Arriva dopo mezzo’ora, gilè rosso e un cappellino in tinta che fatica a tenere dentro il groviglio dei capelli. Si siede di fronte a me e comincia sempre altalenando fra gli accenti: “ Mi hai detto tante volte che vuoi conoscere la mia storia, eccola. Oggi sono uscito dalla comunità, non so perché, questa città non è abbastanza verde per i miei desideri, ho camminato seguendo la strada, cercavo aria e luce, cercavo qualcosa che non so dire, ma so che qualcosa o qualcuno ha guidato i miei passi. Le macchine ferme ai semafori suonavano i clacson e il rumore era assordante, molte persone mi hanno guardato come se avessero paura di me. Ho camminato senza sapere dove andavo e poi mi sono trovato in una grande giardino, c’erano alberi che svettavano verso il cielo con radici nodose che si intrecciavano lungo il terreno. Per un momento ho avuto la sensazione di essere ritornato a casa mia,ho creduto di riposare sotto i baobab del mio villaggio. Ho chiuso gli occhi e ho ascoltato il ronzio degli insetti e il verso lieve di un venticello che faceva suonare le foglie.” Io lo guardavo attenta.“ Poi pian piano-ha continuato- mi è sembrato di udire una canzone: Ula,ula, dulbitana ula na nin fa dulbitana ula che arrivava da più lontano. Ho seguito quel canto e mi sono trovato fuori oltre il cancello. Ero incerto avevo timore di procedere, davanti a me si stagliava il carcere di piazza Lanza dove ci sono persone malvagie che hanno sbagliato, questo posto mi spaventa ma la voce Ula, ula che significa foresta scura, mi ha chiamato ancora,non la potevo contrastare, ho dovuto seguirla come se un filo invisibile mi stesse tirando, come se la mia volontà si fosse annullata. Ho continuato a camminare, dentro di me qualcuno cantava questa antica canzone, sentivo il ritmo dei tamburi e mi sembrava che dal selciato si alzasse una polvere sottile come di terra calpestata. Ho seguito la strada leggermente in salita, tra i palazzi grigi che nulla mi dicono,anzi contrastano con ciò che ho dentro, poi ho girato a destra. Ho sentito che quello era il posto che stavo cercando, ho visto un giardino con piante e alberi, mi sono fermato per ascoltare e anche io ho iniziato a cantare, ma non ero più solo; intorno a me sono comparsi,si sono materializzati i miei compagni morti che danzano al ritmo dei tamburi,ci sono mio padre, mia madre, tutti i miei fratelli sotto gli occhi attenti dei nostri antenati. Dulbitana ula, cantiamo insieme na nin fa dulbitana.”Mentre racconta Mambì ha gli occhi lucidi ma si rende conto che non capisco, non posso comprendere, le parole a volte come muri invisibili impediscono di incontrarsi. Ma io sono di fronte a lui, il mio cuore è lì, in attesa che il suo si apra del tutto.“Ecco-, continua- queste parole significavano : madre, padre, vado nella foresta scura a provare il coraggio.” Freno la mia curiosità e con gli occhi lo incoraggio ad andare avanti. Certi attimi, a volte, durano ore. “Al mio paese- prosegue- i ragazzi della mia età si allontanano dal villaggio per incontrare se stessi nella foresta. È un rito che da migliaia di anni si compie insieme agli antenati che ci prendono per mano e ci conducono a diventare uomini per affrontare con coraggio le prove della vita. Loro ci accompagnano e la loro forza entra dentro di noi. Io non ho potuto fare questo, sono partito troppo presto, ho dovuto essere coraggioso senza aiuto, ho visto la morte e il dolore da solo e ne ho avuto paura. Ma oggi, in questo strano luogo i miei padri mi hanno chiamato, mi hanno dato la forza per vivere qui.” La mia curiosità ora è incontenibile. “Mi puoi descrivere questo luogo? Che cosa ti ha colpito?” “Non so come spiegarlo-dice- c’era un buco dal quale venivano le voci, mi sono affacciato e in quell’istante ho visto una forma di pietre antiche che sembrava atterrata dal cielo e, immediatamente, ho pensato alle tombe Dogon, ai luoghi dei nostri villaggi dove riposano gli antenati. Non so come si chiami questo posto ma sento che è una porta che unisce il mondo dei vivi e quello dei morti.” “Ma è l’Ipogeo – esulto per aver risolto l’enigma- quello che si trova tra il carcere e la villa Bellini- dico- uno dei pochi sopravvissuti della necropoli romana che una volta occupava il giardino del convento di Santa Maria di Gesù.” Adesso è lui che non comprende questa parola, mi guarda perplesso e un po’ commosso mi chiede: “ Ci ritorniamo insieme- e aggiunge- ora so che anche qui, in questa città che non mi piace perché è troppo diversa dalla mia terra, accanto ai palazzi alti e grigi che oscurano il cielo c’è anche un luogo che affonda nelle storie del passato e nella magia, una porta verso l’aldilà, un posto, come al mio villaggio, dove posso incontrare i miei antenati. Oggi loro mi hanno concesso il coraggio che serve ad un uomo per affrontare la vita e mi hanno detto che qui, io potrò vivere bene anche perché ci sei tu che cammini al mio fianco. All’improvviso i miei occhi si sono riempiti di lacrime.
Renata Governali
Un’area archeologica a Catania, tra le poche sopravvissute delle vaste necropoli, sita nella ex Selva del Covento di Santa Maria di Gesù è l’Ipogeo Romano a pianta rettangolare.
Questo monumento rappresenta una tomba di età romana imperiale lunga circa 15 metri e larga 12, che conteneva urne funerarie aperte all’esterno da strette feritoie. Ad oggi dell’ipogeo Romano rimane una grande struttura costituita da un massiccio corpo di fabbrica, una camera quadrata parzialmente ipogeica e uno spiccato di circa tre metri.
Al centro della struttura si trova un loculo rettangolare e alle pareti si dispongono altre quattro nicche. Gli studiosi ipotizanno che l’edificio prevedesse un secondo piano, però inaccessibile secondo un modello architettonico, di origine ellenistica, diffuso nel mondo romano dalla seconda metà del I sec. d.C..
Infine la muratura di questa tomba è composta da opus coementicium (calce, sabbia vulcanica e scaglie di pietra lavica) rivestito in opus mixtum, formato da parti in opus vittatum (uso di mattoni nei cantonali e su tre filari che corrono lungo tutta la base del monumento) e parti in opus incertum (blocchetti di pietra lavica irregolarmente squadrati e lisciati in faccia-vista).
Infine è possibile visitare questo monumento sotto prenotazione, il biglietto è gratuito ed è amministrato dal Museo regionale interdisciplinare di Catania.