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african dance

 

Il mio primo giorno in Africa catapultato ad una festa per l’inaugurazione di una grande scuola con fondi venuti dal Canada.
Una festa affollata, sontuosa, colorata.
Era venuta gente da ogni dove per vedere la scuola pronta, ma soprattutto per poter vedere ministri, capi tribali, alti prelati.
La gente accorre a piedi, a cavallo o con carri, asini e macchine.
Uno spettacolo sfavillante.
Una cerimonia di preghiere, canti e balli infiniti.
Dopo il pranzo, giro intorno alla scuola circondato dai ragazzini di quella remotissima area rurale che mi guizzano intorno con lo stesso caos ordinato della barriera corallina.
Che pesce sei? Da dove vieni?- mi chiedono con gli occhi.
Mentre ci studiamo vengo acchiappato da un grosso pesce dell’entourage del vescovo.
È entusiasta, in fibrillazione.
Mi trascina in una sorta di tribuna d’onore per ascoltare i discorsi di politici, prelati e capi tribali.
Sono costretto a sedermi e ascoltare parole in sesotho, la lingua locale.
Per ore.
Gli africani sono dei grandi oratori.
È un po’ come anni fa, che in Italia nascevano grandi calciatori o politici allenati giocando e parlando per strada.
Così in Africa: i grandi oratori si formano alle frequenti riunioni di villaggio dove ognuno si può alzare e parlare.
Dopo una, due, tre ore di discorsi in sesotho, seppure interrotti dai balli tradizionali, la mia soglia dell’attenzione entra in stand-by.
Ormai la mia sfera razionale è scomparsa.
Guardo solo facce, vestiti, gesti.
Entrano dei bambini a ballare.
Hanno delle gonnelline fatte coi tappi di latta delle bottiglie.
Zampettano di qua e di là con dei saltelli che fanno scrosciare i tappi ritmicamente.
Io guardo il ballo.
I bambini cantano.
I bambini ballano.
Ma qualcosa nell’aria succede.
La signora che ho a fianco si gira verso di me.
Io guardo il ballo.
I bambini cantano.
I bambini ballano.
La ricca signora che ho a fianco mi tocca col gomito, scuote la testa e dice qualcosa.
Io guardo il ballo.
I bambini cantano.
I bambini ballano.
La ricca signora mi parla, io non capisco, annuisco, sì, le faccio – anche se no, non ho capito cosa dice.
Io guardo il ballo.
I bambini cantano.
I bambini ballano.
Mi volto di scatto dalla signora e le chiedo: mi scusi ma può ripetere quello che ha detto?
La signora parla.
I bambini ballano e cantano.
La realtà cambia all’improvviso.
Io ora guardo tutto come se ci fosse un incendio invisibile.
Sento le autorità borbottare.
Vedo alcuni ridere imbarazzati.
Alcuni mi guardano complici.
Molti rimangono forzatamente impassibili.
Ora so perché.
Ora so cos’hanno detto.
-Dicono così ma non è vero! – continua la signora gigantesca, con la parrucca e un abito tradizionale sgargiante.
-Dicono così perché sicuramente i maestri gli hanno detto così – mi ripete la Signora scuotendo la testa contrariata.

Cosa hanno detto dei bambini di così imbarazzante?
Cosa cantavano i bambini di così strano?

I bambini cantavano un ritornello che fa più o meno così:

La democrazia rovina le nostre tradizioni.
Clang! – i tappi di latta.

La democrazia ci ha reso poveri.
Clang!

La democrazia porta la corruzione.
Clang!

Noi rivogliamo le nostre tradizioni!
Clang!

Noi rivogliamo le nostre tradizioni!
Clang!

 

Emanuele Casula

E' nato nel 1975. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Bologna, è partito a lavorare in un Kibbutz israeliano, esperienza che ha indirizzato la sua vita verso la Cooperazione Internazionale e la ricerca universitaria. Ha lavorato come progettista, coordinatore e cooperante a un progetto che riutilizza le tecniche millenarie della pastorizia per rilanciare lo sviluppo rurale nel sud dell’Africa. Il suo primo romanzo, 2012 Obama’s Burnout, è pubblicato da Robin Edizioni (Roma, 2011).