Schiava del sesso, tutte le notti. Il marciapiede con il falò, il cielo sempre nero, sempre privo di stelle, pure quando c’erano e si potevano vedere; nero come i pensieri, come il suo umore; nero come il suo cuore chiuso di fronte alle auto che passano e da cui volano sputi e insulti per lei. Sputi e insulti di ragazzi e ragazze come lei. Più fortunati, pero. Perché su di loro il destino non si è accanito. Questo pensa Zina, mentre abbassa gli occhi umidi sul marciapiede squallido. Ragazzi e ragazze, coppiette che corrono verso la pizzeria, il bar, il pub o il cinema per l’ultima proiezione della serata, e che le appaiono felici, spensierati. Non pensa Zina, o non sa, delle droghe e dell’alcol – diverse forme di schiavitù – che pure, e spesso, consumano altre vite. Lei le vede dal marciapiedi in un solo modo: ragazze libere cui nessuno ha rubato l’età. Si ferma una macchina: la prima della notte. A dieci, quindici metri di distanza un’altra macchina tiene lei sotto controllo, i suoi movimenti. E così la notte comincia – nera come il suo umore, nera come il cuore chiuso di una sfortunata ragazza, nera come il cielo. Poi la seconda macchina, la terza. Il lavoro ributtante che dura sino all’alba. Quando lei, Zina, torna alla macchina da cui era scesa, da cui scende tutte le sere per battere il marciapiede; la macchina che a distanza controlla i suoi movimenti. Vi sale, e consegna ai suoi aguzzini non meno di 1500 euro, pena essere massacrata di botte. Zina rientra a casa. Si lava per togliersi di dosso l’odore schifoso degli uomini. Piange. Piange sempre prima di dormire. Piange durante il sonno. La doccia del mattino ha pulito il suo corpo; le lacrime del sonno non riescono però a lavare la sua anima, o quel che ne resta. Anche al risveglio, quando già è passato mezzogiorno, Zina piange. Piange perché ricorda la sua infanzia povera in una città senza colore e senza gioia della Romania; il trauma d’essere stata venduta dai genitori ai trafficanti di carne umana che operano tra il suo paese e l’Italia. A fare da tramite certi parenti che in Italia ci vivevano da qualche anno. Tutto circolava illegalmente nel nuovo mondo senza più frontiere. Denaro, droga, organi umani, tratta delle schiave. Delle schiave del sesso. Ma sono cose che lei capirà dopo, quando sarà più grande. Quando sarà libera e fuori dal tunnel. Zina arriva in Italia a sedici anni. “Lì c’è lavoro per te” le dicono. “Non più fame”. Anche se inesperta del mondo, capisce a quale destino di brutalità oscena l’hanno condannata. Lo capisce dagli abiti che le chiedono d’indossare, dal locale notturno in cui la prima sera la portano. Lo capisce dalla clausura in una stanza buia e dalle botte che prende quando grida: “La prostituta no, non la faccio”. Pane e acqua, botte e odore di muffa. Poi, stremata, la strada, il primo cliente, un uomo vecchio e sudato che le chiede di fare le cose più schifose, il primo ladro dei suoi sedici anni. Ed era l’inizio. Appena l’inizio d’una vita che le pareva senza più fine, senza speranza. Ma che durerà tre anni. Perché una notte di luci fioche, di vento e gocce di pioggia un’auto si ferma accanto al marciapiede. Si vedono due uomini vestiti di scuro. Quello che non guida abbassa il finestrino e dice: “Quanto soffri”? Di solito era un’altra la domanda che gli uomini le facevano: “Quanto prendi”? Oppure: “Quanto costi”? Zina resta sorpresa e pensa a qualcuno che vuole prenderla in giro. Dall’auto che la controlla vede i fari accendersi per un secondo: le ricordano che loro sono lì, e vigilano, pronti a intervenire. I due uomini vistiti di scuro, uno con gli occhiali grandi e i vetri spessi, dicono di volerla aiutare. Lei non si fida all’inizio. Altri le avevano detto la stessa cosa in quei tre anni e poi le chiedevano solo di cambiare padrone, di prostituirsi per loro. Ma questi due uomini le sembrano diversi: le lasciano un biglietto con un indirizzo e un numero di telefono. Le lasciano un rosario. “Chiamaci, se ne hai bisogno”. Ma dura troppo quella fermata per non insospettire i controllori della ragazza. Due scendono dalla macchina e corrono verso di loro. Il terzo la mette in moto, sgommando. Zina li vede arrivare, vede il cielo nero precipitare sopra di lei e ha come un’illuminazione. Improvvisamente si fida dei due uomini vestiti di scuro. Apre lo sportello posteriore, sale in macchina e dice: “Andiamo, aiutatemi”. È la notte che cambia la sua vita. La fortuna le viene incontro quella notte. Le viene incontro due volte. Perché, mentre incomincia l’inseguimento, una volante della polizia passa da quelle parti, gli agenti notano qualcosa che non va, inseguono a loro volta le due auto e costringono gli aguzzini della ragazza a prendere un’altra strada. Poi fermano l’altra macchina, riconoscono i due uomini vestiti di scuro, a lei chiedono i documenti, scrivono nei loro fogli il suo nome e cognome, la nazionalità, l’indirizzo, e infine li scortano sino al luogo dove Zina trova il primo rifugio sicuro da quando è giunta in Italia. Qui viene aiutata con un lungo programma di assistenza psicologica. Provano a farla tornare se stessa, a restituirle i suoi sedici anni rubati. Il Centro d’accoglienza è la sua nuova casa. La prima vera casa italiana. Incontra soltanto sguardi che la incoraggiano, nessuno più mostra cattiveria verso di lei, nessuno più le usa violenza. E la sera il cielo non è più scuro e sempre privo di stelle. Parla molto con i due preti che l’hanno salvata. Soprattutto con il prete anziano che le ha dato il rosario da cui non si è più separata. Zina ha sempre paura. Sa che fuori ci sono gli aguzzini che l’aspettano, pronti a fargliela pagare, forse a ucciderla. Bene che le vada, la riporteranno sul marciapiede. Cosa può fare? Una vita dentro il Centro con la paura di uscire? Denunciarli non osa. Pensa sia peggio. Conosce quella gente. Anche se ne arrestano uno, due, tre, tutta la banda, qualcuno poi li vendicherà uccidendo lei. Gli altri fanno qualcosa all’interno di quel piccolo mondo che è il Centro: si muovono, hanno un lavoro, un compito che li tiene impegnati. Lei invece passa intere ore a fissare il vuoto. Solo la conversazione con il prete anziano le dà conforto e fiducia. Solo l’attenzione, l’attenzione particolare che le mostra Gino, un ragazzo italiano poco più grande di lei, le fa sperare che la vita forse non è finita e che è possibile ricominciare. Ricominciare a diciannove anni. Vincere la paura del mondo di fuori. Al prete e a Gino racconta tutta la sua storia. Essere stata venduta dai genitori è la cosa che le fa male: più delle botte dei suoi aguzzini, dello stupro di uno di loro, il capo banda, il primo a prendersi la sua purezza indifesa, più dell’odore schifoso degli uomini dentro le auto nelle notti sempre senza stelle. Ma anche Gino ha la sua storia. Tutti, nel Centro, hanno una storia. Forse anche i preti. Forse anche quelli che giorno dopo giorno provvedono al suo recupero. Gino la sua, di ragazzo finito nella droga, gliela raccontata in un mattino di sole mentre passeggiano tra gli alberi del Centro e di fuori arriva il frastuono del mondo; e mentre tra di loro forse comincia a nascere un sentimento. Ma Zina quasi non vuole accettare l’esistenza di storie più dolorose della sua. Per questo, parlando con lui o con il prete, ripete sempre: “Qui nessuno è stato venduto. Venduto dai genitori”.