Anche la vita più semplice si compone di molteplici tratti che, quando se ne tenti una sintesi, accampano la pretesa di una smisurata autonomia: a quel punto, impone il “giusto” ordine la pratica quotidiana, che ogni donna conosce, di comporre impossibili mosaici.
Succede, così, di curare la propria famiglia e i propri allievi, giovani liceali, e tenere a bada l’inquietudine, fra decadente e sessantottesca, anche con l’ausilio di una fede “scheggiata” da un vigile ma aperto razionalismo.
Lo stupore, amaro o rasserenato, del proprio e dell’altrui esistere chiama talvolta in soccorso “il fren dell’arte” e insieme colorano i minuscoli granelli di un’esperienza, umana e artistica, solitaria, severa e lieta, che vuole essere, anzitutto, ricerca di senso.
Il bello, anche se dall’orizzonte lontano del desiderio, illumina, tuttavia, e sostiene la fatica dell’irrinunciabile percorso: quasi che una parola collocata al “suo” posto contenga la chiave senza la quale nulla è possibile decifrare della verità delle cose.
Ecco, alfine, ridotto all’essenziale il variegato pulviscolo di elementi e definito il trait d’union fra vita e arte: il bisogno insopprimibile di verità e di bellezza.
***
Fiabe
o
della lontananza
(Ai miei Genitori)
Finite
tutte le fiabe
I fogli sparsi
non creano finali
rassicuranti
nella memoria
che non accarezza inganni
Fiaba
crudele e irreversibile
Ora
sigillare
gli odori del giardino
con fretta ansimante
chiudere
stretta stretta
nella mano
una reliquia
aspra
di luce
(le streghe baldanzose
non lasciano scampo).
Oh, tempo!
C’era una volta…
Il giardino dei ricordi
(A un amico scomparso)
Sempre
c’è un posto
fra le pietre del cuore
al tuo ritorno
quando il passo
batte come luce
sul selciato della memoria.
E tu riprendi
i discorsi di un’altra primavera
e non ti accorgi
che sul tuo capo è trascorso
rapido
un fiume pallido di stelle
Il cancello
Da quel cancello
fuggivano i miei sogni
senza ritorno,
corvi avidi
dopo il diluvio.
Sono aculei
l’attesa la distanza
interminabile
e l’infinita assenza.
Non un ramo d’ulivo
attraverso il cancello.
Inverno al faro
L’onda singhiozza
e disperde
bagliori
inginocchiati
sopra l’acqua.
Riverberi di ieri
(e s’allargava
la spuma
sotto l’ala dei gabbiani)
Ora s’addensa
l’oscuro soliloquio
dei pensieri
e il faro
è voce spenta
da un sipario
di nuvole
Dopo
(Alla gente di N.Y.
dopo l’11 Settembre)
Io
cantare
il tuo dolore!
Dall’eclisse
aggrappata
al risucchio
del tuono
ansimare
e dire «dopo»
Stella e candela
(A mia madre)
Luce eburnea
e distanza
di stella fredda
e abissi millenari
E voce
eco
fantasma
di grano e fuoco e baci
piccola piagata
ombra
di candela ansimante
Ricordi
Varchi
il muto cancello
della memoria
col passo
lieve
dell’ombra
o del geranio
alla luce.
Ma l’anima
sussulta
al tuo passaggio
come cielo di settembre
trafitto
dal pianto di uccelli migratori
Pioggia d’estate
Lunga ferita
nel miele dei girasoli
Nell’azzurro tramortito dell’aria
non c’è il respiro
dell’arcobaleno
Lontano
sale
la luna
con silenziosi singhiozzi
Sogno di luce
(A Monet)
Fissare Varengeville
e salire
leggera di desiderio
e svettare con gli alberi
in un lago di luce
Girotondo di primavera
(Alle vecchie compagne,
alla maestra)
Immemori
riprendono i voli
le rondini.
Non segni del tempo
sulle ali leggere.
In quella primavera
gemme di nuvole e di sole
di terra e cielo
di pianti senza peso di ferite.
Turbina il ricordo
ombra e luce
nero e bianco
s’arresta prigioniero
del girotondo
nel cortile fiorito della scuola.
Piccola primavera
Carezze alate
di luce
sopra il prato
Una bimba
si specchia
azzurra meraviglia
Sul suo capo
un lungo
volo di rondini.
A un chitarrista
Azzurrissimo fascio verticale
di melodie ti cinge
sospeso e fragile
lontano da noi.
Ora ti seguo
aggrappata a segnali luminosi
trepidanti come eco
di vita passata che ritorna
Forse
anche tu
non più divino
rincorri
adesso
capelli nerissimi di donna.
I morti
Tornano
e accarezzano
le mani e i pensieri.
Non pianto
di uomini
o di stelle.
Solo
fra le spire
della notte
vortica
il cuore
Infanzia ferita
Ferite di parole
impudiche
sull’anima lambita
d’azzurro
squarci
neri
nel dorato
pulviscolo dei sogni.
E quando tuoni
violentino il sereno – come afa
l’inquietudine
penetra nelle fessure
di muri diroccati –
sentire la stessa angoscia
di carne lacerata
Cammino
Ci muoviamo
verso il grande angelo
dalle ali bianche
con passo
che non ritorna
Ma
nell’andare
ci abbaglia
un esile ondeggiare
di mimosa
Sulla via di Emmaus
Se fossi andato oltre
quella sera
i nostri passi
avrebbe inghiottito il gorgo
senza meta.
Ma i tuoi piedi
stranieri
lievi
sulle pietre ferite
risvegliano un sentiero
ricordo di alba
e di pane.
Poeta
Con passi consueti
percorri
le laboriose strade
di tutte le creature
ma senti
il tocco
dell’angelo alle spalle.
«Lacrime anche laggiù, traverso la terra, ti dono»
(Meleagro)
Lancette
rimaste spalancate
come ali d’uccello.
Tu
ferita
dal tempo
fragile
montagna di sabbia
su cui
lungamente
si sgretola
il tramonto.
Da lontano
indovino le tue spalle
vuota panchina
di fronte al mare
votata alla notte
Grandi ombre
Non rassicura
al crepuscolo
la luce polverosa
e la foglia che bacia la terra
lascia rughe nell’anima
(Ali minacciose
di farfalle notturne
o nere lancette
senza pace?)
Ora
lo sguardo appannato
disvela
i geroglifici
del tempo
(nulla sfugge)
nel giardino delle grandi ombre
singhiozzanti
A Nausicaa
La scia della sua nave
è un volo spumoso
di gabbiani
Tu – il sole
chino
sulla veste –
abbracci il suo mare
nella conchiglia
della mano
A Ulisse
(…non vogliate negar l’esperïenza…)
Dante
Non verso Itaca
i tuoi passi
ma verso sogni
di vietate sirene
I remi immortali
scavano il viso
e l’anima
le dee non sorridono per sempre
fra gli scogli
troppo stanchi
ma una tela
di pianto
e d’ulivo
non placa il desiderio