IDEA PER UN GEMELLAGGIO IN SICILIA
Se verrà consentito il dubbio, si potrebbe chiedere quale dipendenza la cittadina siciliana Capizzi abbia dal significato della voce dialettale della medesima regione, che al singolare è capizzu e significa guanciale, cuscino, o con riferimento a un peso o metaforicamente fino a farsi verbo, ncapizzari, per dire accollarsi un onere pesante o una responsabilità o trovarsela già incapezzata. Il femminile capizza è l’italiano capezza e sta per cavezza. Tutte occasioni linguistiche che rinviano alla testa, al capo, sia quando alludono al cuscino, o parte estrema del letto su cui si poggia il capo (al capezzale del malato), sia – e specialmente con riferimento alla accezione del dialetto siciliano – quando assumono l’accezione di un tessuto, di una tela, di un marchingegno improvvisato per consentire di sopportare un peso in spalla ancorando il contenitore tra la testa e il collo di chi dovrà portare a buon fine un cesto colmo di frutta, una grossa pietra, un carico di qualcosa. Tutte occasioni talmente remote nell’uso da essere quasi ridicola la pretesa di riesumarne le figuralità. Resta comunque il cuscino, o il riferimento metaforico a chi tiene a precisare che non tiene per cuscino un argomento, una idea, una riverenza, etc. Non è chistu u me’capizzu, dirà chi intende far sapere la sua indipendenza da qualcosa o da qualcuno. E fin qui basterà consultare qualche vocabolario del siciliano per aggiungere o togliere. La parte delicata resta a carico di chi si chieda perché i capizzoti, o capizzesi in quanto cittadini di Capizzi, abbiano a loro tempo dato il nome di Capizzi alla loro città, da cui poi hanno ricavato la conseguenza di divenire abitanti di un luogo che tra cuscino, guanciale, cavezza o marchingegno improvvisato per agevolare il carico di un peso da portare in spalla, lascia dubbi sulla motivazione originaria della “nominazione” del grazioso centro collinare in provincia di Messina, dove tra pastorizia vino, olio e ortaggi c’è abbastanza per classificare il luogo sotto l’etichetta di fiorente località agricola.
- Si sente dire che è meglio evitare il tirare in ballo i Santi. Infatti scrivo con la maiuscola il significante che non intendo a riferimento di nomi all’anagrafe, ma di quanti sono stati inclusi nell’albo d’oro degli operatori di miracoli, sia da vivi che, di norma e principalmente, da morti. Il detto popolare non lascia dubbi da dipanare: Scherza con i fanti e non scherzare con i Santi. Superstizione o no, uno da “uomo avvisato mezzo salvato” intanto evita, appunto, di scherzare con la categoria cui appartengono i protettori di luoghi, paesi e città, nonché nazioni pensando all’Italia protetta da Santa Caterina da Siena e da San Francesco d’Assisi. E anche per questa volta si dia per adempiuto il proposito al momento di chiedersi perché il San Giacomo protettore di Capizzi sia obbligato dai suoi devoti a frantumare, una volta all’anno, in ricorrenza della sua festa, un muro. Muro che subito dopo verrà ricostruito per essere destinato allo sfogo del Santo al momento della puntuale ricorrenza. Così di anno in anno a memoria di capizzoti, fedeli devoti, turisti e curiosi richiamati e attratti dalla strana ritualità. Che poi tanto strana non è dal momento che ha un riferimento chiaro e solido: San Giacomo nei giorni della sua vita terrena aveva demolito, distrutto, annientato, la costruzione, di una specie di sinagoga, dove a suo tempo gli infedeli di quella volta celebravano i loro riti religiosi.
Un momento della cristianità come reazione e difesa. E possiamo essere persino d’accordo. Ciascuno abbia diritto a difendere quello che gli appartiene come quello in cui crede. Specialmente in materia di fede. Il punto debole però, una volta sublimata la rivendicazione degli istinti di difesa, di cui si è appena detto, rimane quello della stessa fede, che stando al Nuovo Testamento, cioè all’insegnamento di Gesù salvatore, e alla cristianità, è basato sul perdonare e “porgere l’altra guancia”. E non si pensi che qui la guancia torni a fagiolo con i guanciali che in siciliano sono capizzi.
No. Stavolta la questione (question, come avrebbe detto Sartre) è ben altra, e di non lieve peso: è la trasgressione proterva a uno dei momenti basilari della cristianità, quello del perdono, della non violenza, del ramoscello d’ulivo che non deve essere trasformato in bastone ma in segno di pace e fraternità. Ed ecco il dubbio, su di un Santo della Chiesa cristiana che manda in rovine un luogo di riunione e di culto di religione diversa. E non per una sola volta ma per secoli, anno dopo anno con rituale puntualità, fino ai nostri giorni di Papa Francesco, di migranti, di razzismo e di Leghe edulcorate dalla privazione dell’apposizione “Nord”, per far presa elettorale sui gonzi del Sud, eredi di “Forza Etna” e di “Ora-ora-arrivò-u-ferribbottu”.
Mi si dirà che sto affermando credito a qualcosa che credito mai ha avuto a prova della lotta contro gli infedeli e alle spedizioni e agli esiti cruenti fino alle stragi compiute contro gli infedeli di quella volta. Questa è storia. Sì è storia ma non ne resto convinto. Specialmente alla luce del rito che si rinnova del fare del fercolo di un santo un ariete di guerra per abbattere e sbriciolare un muro, da ricostruire poi subito per predisporlo alla medesima ritualità annuale, per soddisfazione di devoti, fedeli, turisti, curiosi. Una formula di educazione che, francamente non penso consiglierebbe alcun santo, cristiano, cattolico o persino laico che fosse.
- I cittadini tutti della graziosa Capizzi sono giustamente orgogliosi del loro Santo. E mi fermo a questa banale osservazione per esorcizzare la tentazione di buttarla in politica sull’onda emotiva dell’attualità di migrazioni e migranti, moschee e sinagoghe fino al vezzo di qualche ultrà laziale o universale di stampare immagini di Anna Frank come simbolo del nemico da abbattere, della squadra “ebrea” da eliminare, anche se tale squadra ha il difetto d’origine (peccato originale) di chiamarsi Roma, nemica da “abbattere” a opera della Lazio, stessa regione-madre geografica della capitale d’Italia. Ma è la pratica delle spontanee immarcescibili passioni umane.
Mi scuso per la divagazione e continuo con l’elogio della fede dei cittadini di Capizzi devoti di San Giacomo demolitore di muri di sinagoghe, per dare uno sbirciata a una occasione di confronto tra la valentìa del predetto San Giacomo e il significato che a Scicli la catto-cristianità locale di sempre erge a protezione civica e delle anime, un momento chiesastico ben più alto e denso di solidi significati rispetto a quello di Capizzi, la “Madonna delle milizie!”. Non ditemi che uno se la doveva aspettare una Madonna delle milizie a cavallo e con tanto di spada sguainata contro gli infedeli. I cittadini di Capizzi non ci avranno pensato, forse nemmeno quelli di Scicli, in provincia di Ragusa, a conferma di come ogni siciliano sia un’isola nell’Isola in cui è nato e abita. Non ci hanno pensato a un gemellaggio religioso in omaggio alle pari opportunità, dei nostri tempi. Anche se tra un Santo distruttore di mura (viene da pensare all’omerico Sminteo de’ modi dell’Iliade, all’Apollo distruttore di topi, appunto, del sacerdote reduce dal rifiuto oltraggioso di Achille, che invoca la vendetta divina del dio. Dio (Apollo) che, immediatamente, scenderà “dall’Olimpo con l’arco sulle spalle e la faretra tutta chiusa”). Pari opportunità dei nostri giorni, perché la storia dell’umanità cristiana passa, è vero dai Vangeli oltraggiati, ma è anche vero da una pari opportunità sdegnosamente contestata dalla Chiesa, se solo meno di cinque secoli fa ancora i Padri della Chiesa, appunto, dovevano ammettere – però con un solo significativo voto di maggioranza – che le donne forse hanno un’anima. Ciance della storia che sono talmente argomento di vergogna da far preferire i riferimenti ai fasti altrettanto incancellabili della Santa Inquisizione. Ma non sia divagazione ulteriore. Torniamo piuttosto a Capizzi e al segnale d’intesa, che auspichiamo si realizzi al più presto, tra cittadini peloritani devoti di San Giacomo che si rivolgano ai devoti sciclitani iblei della Madonna delle Milizie per un gemellaggio tra le due città in forza delle eccellenti simbologie riservate a divinità vendicative, di entrambi i sessi (Pari opportunità, lo ripetiamo). Chissà non sia anche questa una delle occasioni splendide mancate prima, finalmente attualizzate in Sicilia e per la Sicilia che si rinnova affinché tutto cambi per conservarsi integra nel suo passato come diagnosticava ne I Viceré Federico De Roberto mezzo secolo prima di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo postumo Il Gattopardo.