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© Chiara Pajno, Mekele, al mercato.

Tu che mi conosci sai bene che la mattina non ho molta voglia di alzarmi e soprattutto ho bisogno di tempo per abituarmi all’idea che devo alzarmi… diciamolo pure, sono pigra. Quindi abitualmente utilizzo una di quelle sveglie che dopo averla spenta, suona dopo esattamente otto minuti e così quasi all’infinito fino a che non la spegni definitivamente o la scaraventi sotto al letto o la infili sotto le coperte affinché smetta di infastidirti con quell’odioso suono che ti ricorda che sì, è l’ora, vuoi o non vuoi devi alzarti; insomma, io la faccio suonare almeno 3 o 4 volte prima di decidermi ad abbandonare il letto.
Ebbene, qui a Mekelle, cittadina al nord di questo enorme paese quasi al confine con l’Eritrea, ho trovato la versione naturale ad elevato risparmio energetico di questo odioso oggetto chiamato sveglia, l’unico problema è che si regola automaticamente con la luce del sole, e non esiste possibilità di modificarla, e l’intervallo tra uno “squillo” e l’altro, pur non essendo sempre fisso, è ben meno di 8 minuti, si aggira infatti intorno ai 30-35 secondi, decisamente troppo pochi per riaddormentarsi, anche per me che col sonno faccio quasi on/off. Avrai capito di cosa sto parlando… questa sveglia è il gallo! Quell’animale che è il “partner”, come si dice oggi, della gallina e che tutte le sante mattine, comincia a cantare con il primo sole (e qui, a circa 2000 metri di altitudine di sole ce n’è anche troppo) e anche un po’ prima, più o meno verso le sei, e continua imperterrito per almeno un altro paio d’ore. Il destino ha voluto inoltre che i nostri vicini di casa possedessero una di queste sveglie naturali; non sarà mica poi che la finestra della mia camera da letto dia proprio sul loro giardino? Pare proprio di sì: ogni mattina tento invano di riaddormentarmi, almeno per quegli otto minuti, ma lui, inclemente, mi ricorda che un nuovo giorno è cominciato e non posso perdere tempo a dormire, cosa che farei ben volentieri almeno per un’altra oretta.

© Chiara Pajno, Mekele, al mercato.

Non le macchine e il traffico della città, bensì le iene che circolano in zona durante la notte in cerca di qualcosa da mangiare, mi hanno svegliato, tra l’altro, non poche volte con le loro risate. E non è per dire, sembra davvero che ridano!
Ma quanto vive un gallo?
In tutto questo mix di suoni per me inusuali, alle sette di mattina in questa casa la vita ferve come se fosse l’ora di punta sul Lungotevere: Terhas prepara il pane per la colazione e il pranzo che ci lascia pronto, Ibrahim cerca, abbastanza invano, di sistemare come possibile i guasti della vecchia toyota per permettermi di arrivare almeno a lavoro producendo dei rumori degni di un’officina di formula uno, i bambini fanno gli ultimi compiti nel cortile recitando in inglese i mesi dell’anno, i giorni della settimana, i numeri ed altri elenchi a squarciagola, e Abraham, il più piccolo dei figli di Terhas, che ha 5 anni, guida tutto quello che gli capita a tiro, compresa la cassa con le bottiglie di vetro, cercando di riprodurre fedelmente tutti i suoni e i rumori di una macchina (che qui si dice mecchina con l’accento sulla i) clacson incluso. Capirai bene che non c’è proprio verso di dormire un po’ la mattina.
Almeno quando mi alzo la tavola è già apparecchiata per la colazione ed il caffè è già pronto, e non è poco!!!
Mi vesto, scendo in cucina e Terhas, che ha già preparato tutto per la colazione, ha messo una pentola sul fuoco e sta pulendo delle pannocchie per cuocerle per il pranzo. Le pannocchie le ha comprate per me che le avevo viste di sfuggita passando davanti al mercato dentro ad una cesta ricamata in spessi fili di cotone dai colori sgargianti, e mi era venuta una irresistibile voglia; sono ancora avvolte nelle loro foglie e lei, meticolosamente, le pulisce una ad una, le lava, alquanto sommariamente per i nostri “criteri di igiene” e le accumula sul ripiano nell’attesa che l’acqua vada in ebollizione. Avevo anche portato l’amuchina per lavare le verdure ma confesso che un po’ mi vergogno a chiederle di usarla, mi abituerò anche ai batteri locali… considerando poi che il frigo non funziona per 10 ore al giorno devo già averne introdotti abbastanza… Mentre bevo il caffè preparato per me, viziata italiana, con una vera caffettiera e con la polvere lasciata in eredità da qualcuno prima di me, in piedi vicino a lei, sudanese, scappata in Etiopia anni prima con il marito e le prime due figlie di pochi anni e null’altro, mi racconta del figlio ricco dei vicini che è tornato dagli Stati Uniti, della cugina che aspetta il sesto figlio, dei voti di Barbara a scuola con molto meno orgoglio di quanto mi aspetti da una madre alla quale la maestra dice che la figlia è la più brava di una classe di 60 ragazzini (ha un’importanza relativa), della pioggia che ancora non arriva e la terra è arida e la gente prega perché la stagione delle piogge non ritardi oltre altrimenti non ci sarà corrente elettrica nei mesi successivi e soprattutto nulla da mangiare. E come tutte le mattine mi chiede cosa voglio per pranzo e per cena quel giorno: “So, for lunch and for dinner?”. Come tutte le mattine dico che non so, lei cosa ne pensa? Mi fa la sua proposta e a me, come sempre, sta bene. Mi sta bene questa sera mangiare insieme a loro injera e shiro una specie di zuppa di legumi frullati e un chilo di una roba piccantissima che si chiama berberè, con una consistenza cremosa che si prende con la mano staccando un pezzo di injera, un pane spugnoso e rotondo fatto con un cereale mai visto né sentito prima, quantomeno da me, che chiamano tef. Ci ha messo un po’ ad abituarsi al fatto che la sera ogni tanto ceni con lei e la sua famiglia, seduta per terra al massimo su uno sgabello, con le mani, anzi con una mano, rigorosamente senza smalto per le unghie, lo smalto solo sulla sinistra. È come se pensasse che io “non posso” farlo, e mi fa rabbia il pensiero di questo “rispetto” che pensano ci sia dovuto, mi mette a disagio. Ma ormai si è abituata anche lei a me, come gli altri che volentieri lasciano che mi sieda vicino a loro e mangi dal loro stesso piatto comune. Anche Abraham è contento, soprattutto perché dopo cena giochiamo a nascondino nel giardino, solo che lui è nero, si nasconde, non lo vedo, e vince sempre lui!
E mentre lei sbuccia le pannocchie che hanno un intenso colore giallo scuro, quasi bruno, ne vedo una bianca, completamente bianca sotto le foglie verdi come le altre.
“Terhas, perché questa pannocchia è bianca? È buona lo stesso? Ha qualcosa che non va?”.
Lei smette il suo lavoro, alza la testa avvolta da una sciarpa bianca, mi guarda un istante e mi dice:
“Chiara, anche tu sei bianca, hai qualcosa che non va?”.
E io non so cosa dire, abbozzo un sorriso e rimango lì come una scema, abbagliata dall’ovvietà.

Chiara Pajno

Non è una scrittrice. È nata a Palermo nel 1978. Si è laureata in Medicina e Chirurgia e specializzata in Malattie Infettive a Bologna. Dopo la specializzazione ha iniziato a lavorare a Roma per l’Istituto del Servizio Sanitario Nazionale che si occupa della salute dei migranti. Fa visite mediche nei campi nomadi, nelle stazioni ferroviarie, nei centri per richiedenti asilo. Ha lavorato come medico infettivologo in progetti di cooperazione in Africa con particolare riguardo alle tematiche della tubercolosi e dell’HIV/AIDS, nei centri di accoglienza e di identificazione ed espulsione dell’isola di Lampedusa, al molo dell’isola di Lampedusa per l’assistenza sanitaria agli sbarchi dei migranti e nei centri aperti per migranti di Malta… Gioca a mandare notizie dei suoi giri.