La funzione della pena?
di Giulia Sottile
Ogni tanto ciò che pensi d’aver masticato bene e inghiottito, e che sia già in fase di trasformazione per intraprendere la strada dell’espulsione, torna indietro in un reflusso. Mi verrà perdonata la maleodorante metafora da osteria, traendone il concetto di ritorno circolare di idee e fenomeni. È storia vecchia. Con salti generazionali si ripresentano i fenotipi dei predecessori, per dirla mendelianamente, tornano le mode dal vinile alla vita alta, la storia si ripete con leggere varianti perché nel frattempo diventiamo più sofisticati e anche l’anidride carbonica che buttiamo ce la ribecchiamo indietro insieme alla sempre più ridotta componente di ossigeno. In una società catatonica che non può sollevare il piede dall’acceleratore, ci vorrebbe un’agenzia specializzata per passare in rassegna e smistare verso uffici diversi le nostre funzioni mentali che riusciamo a svolgere simultaneamente con sempre maggior difficoltà, soprattutto quando non si parla più di quale vestito indossare ma di cosa potrebbe rendere migliore la collettività di cui facciamo parte.
Andavo ancora al liceo e di certo non in un quartiere “a rischio”, ma già allora e in quel contesto mi ero accorta del perdurare di idee che credevamo sconfitte nel secolo scorso, ma forse bisognerebbe tener conto che la Sicilia è il laboratorio d’Italia così come la sua periferia (anche se qualcuno ci dice che un fenomeno, quando arriva in periferia, è già morto), e bisognerebbe ricordare più spesso che il Referendum del ‘46 Monarchia/Repubblica aveva visto la vittoria della prima, poi manomessa dal solito accordo sottobanco da cui dovremmo dedurre di vivere in un paese di ipocriti e che a cambiare siano state più le maschere che i volti. Riformulerei l’ultima frase in forma interrogativa, per onestà intellettuale, ma, sebbene per qualche tempo alle svastiche si siano sostituite le ruspe, la simbologia delle istanze non è che una simbologia, che ruota insieme ai pantaloni a vita alta abbottonati sempre sulla stessa vita?
Non si spiegherebbe altrimenti perché qualcuno ama ancora parlare di indurimento delle pene in un’epoca in cui le scienze sociali hanno fatto oggetto di studio anche la concreta funzione che la condanna stessa ricoprirebbe nell’episodio di vita reato. Dal momento che nei dibattiti pubblici le diverse fazioni politiche non possono scontrarsi sulla condannabilità di certe azioni, per non rischiare di essere d’accordo su qualcosa rinunciano al “cosa” e dirottano sul “come”. Il come: tema dignitosissimo in una civiltà democratica che rifiuta formalmente il motto machiavellico del fine che giustifica i mezzi, tema altrettanto spinosissimo quando c’è di mezzo la rappresentabilità di un partito agli occhi del popolo che sta sempre meno sui libri o in mezzo ai boschi, sempre più sguarnito dinnanzi ai drammi sociali che certamente lo riguardano da vicinissimo. Forse, ma solo forse, chi ci ha capito qualcosa, finisce col dire che “ho capito finalmente che io del mondo non ci ho capito niente, che voglio fare il furbo e invece sono un fesso come sempre” (per dirlo con la canzone di un cantautore contemporaneo[1]), a cui uno scrittore nostro corregionale aggiungerebbe che “l’ignorante sa tutto: non provochiamolo, ne usciremmo sconfitti”[2], ma c’è anche qualche efficace vignetta che non cito per non risultare ridondante e perché mi accorgo che non sono ancora arrivata al succo del discorso.
Il fatto è – dando per assodata l’inutilità di pronunciarsi anche solo con accenno alla efferatezza di determinati crimini – a fronte della scoperta da parte degli studiosi della inutilità della pena in sé nel quadro di un percorso di ri-educazione/educazione che permetta che dalle carceri escano uomini che non incorreranno in recidiva – e della sua unica, pur non indifferente, funzione di porre temporaneamente fine alla possibilità di delinquere, nonché di separare il reo dall’ambiente elicitante e dalle potenziali vittime – permane, nel nostro tessuto sociale e dunque anche in seno alle rappresentanze parlamentari, chi promuove un meccanismo “sbagli-paghi”, quello stesso meccanismo che da sempre probabilmente ha allattato e svezzato coloro che si sono destinati a delinquere e che ha certamente promosso il comportamento delinquenziale, in una comunità sempre più ostile contro la quale colludere. Reiterare a propria volta una dinamica coercitiva rinuncia in partenza a promuovere cambiamento, frutto – quest’ultimo – di esempi piuttosto che di opinioni e di esperienza diretta piuttosto che di impartizioni.
Di cosa è urgente parlare, dunque? Di quanti anni trascorrere dietro le sbarre, o di cosa al di qua di queste deve accadere per tutta la durata del periodo e ancora oggi non sempre e non ovunque accade? Dell’ubicazione dello sconto di pena, o di ciò che nel frattempo l’individuo sarà impegnato a fare sul fronte tanto privato quanto sociale? Di ciò che può dare una vera lezione a chi sbaglia, o di cosa abbiamo sbagliato noi, noi società, noi sistema che ha prodotto i moventi di chi sbaglia? Perché in fondo la querelle nasconde dietro la sua schiena una questione forse più grande, che gli psicoanalisti descriverebbero ricorrendo al meccanismo di difesa primitivo della negazione, allargandolo all’intera comunità (che non sarebbe errato, se consideriamo che qualcuno si è occupato di farci notare che un gruppo di persone non è mai la somma dei singoli componenti ma diviene una creatura altra), quella stessa questione – dicevamo – che a un certo punto ha reso abbastanza scorrevole il processo di isituzionalizzazione delle carceri.
Uno degli effetti della normalizzazione di qualcosa è che il soggetto abbia l’impressione che quel qualcosa ci sia sempre stato. La galera come condanna per un reato nasce nel XVIII secolo,in Francia, quando gruppi locali –sociali, familiari, religiosi, personaggi dalla legittimata autorevolezza – bypassando il potere giudiziario, chiedevano direttamente al re di autorizzare l’intervento poliziesco. Il re emetteva la lettre de cachet, lettera con sigillo reale contenente l’ordine punitivo che poteva consistere, come spesso accadde, nella prigione[3] (provvedimento progressista per l’epoca, se paragonata al consueto ricorso alla pena di morte). Un secolo dopo sarebbe diventata formula regolare. Ma la storia, credo, la conosciamo tutti.
Ci manca il considerare l’emarginazione di un individuo che viola i principi del diritto come la più semplice reazione di una comunità al male che essa stessa ha prodotto, senza assumersi la responsabilità di quella produzione e senza offrire al reo, e alla collettività, l’alternativa alla recidiva attraverso un’alternativa di vita che all’individuo appaia verosimilmente percorribile. Quando qualcuno commette un reato, la società ha fallito. Quanto qualcuno reitera il reato, la società ha fallito. Parlare di inasprimento rischia di distoglierci dai veri obiettivi, in un paese in cui non esiste nemmeno la certezza della pena e dove il Capo dei capi ha per anni dato indisturbatamente disposizioni pur facendo parte della schiera dei 41 bis. Ma mi rendo conto che i più fanno dell’argomento questione di lana caprina ed è ai più che la politica si rivolge, quei più che ancora oggi si sentono dondolati nella culla con la nenia della prigione di Santo Stefano “Fintanto che la santa giustizia tiene tanti mostri di scelleratezza in catene sta salda la tua proprietà, rimane protetta la tua casa”.
(Giulia Sottile)
[1]Brunori S.A.S. La vita pensata, 2017.
[2] Cincillà, “Piste Ciclabili” in: Lunarionuovo n.70/53, dicembre 2015; https://www.lunarionuovo.it/piste-ciclabili-6/
[3] Cfr. Foucault, M., 1976, Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, Einaudi.