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Assisi, Ottobre 2015.

Storia di un pellegrinaggio: tra le strade di Assisi, leggendo Simone Weil…

10. Laudatusi’, mi signore, per sora luna e le stelle;
11. In celu l’ai formate clarite et pretiose et belle.
12. Laudatusi’, mi signore, per frate ventu,
13. E per aere et nubilo e sereno et onnetempu,
14. Per le quale a le tue creature dàisustentamentu.
15. Laudatusi’, mi signore, per sor acqua,
16. La quale e molto utile e humele e pretiosa e casta.
17. Laudatusi’, mi signore, per frate focu,
18. Per lu quale n’allumeni la nocte,
19. Ed ellu è bellu e jocondu e robostosu e forte.
20. Laudatusi’, mi signore, per sora nostra matre terra,
21. La quale ne sustenta e guverna,
22. E produce diversi fructi e colorati flori et herba.
23. Laudatusi’, mi signore, per quillike perdonano per lo tuo amore,
24. E sostengo infirmitate e tribulatione.

Il Cantico delle Creature è uno di quei testi che ha accompagnato tutta la mia vita, fin dalla fanciullezza; si tratta di un testo che solo superficialmente appare semplice, invece è di una complessità straordinaria.  La Leggenda perugina (FF 1590 ss.) riferisce che Francesco, «due anni prima di morire», si trovava a San Damiano presso le clarisse, dove viveva la sua pianticella Chiara, perché era molto sofferente e tribolato: era piagato nel corpo, ma anche afflitto nello spirito. Probabilmente aveva già ricevuto l’impressione delle stimmate sul monte della Verna (settembre 1224), che avevano lasciato nel suo corpo un segno non solo visibile, ma anche doloroso. Inoltre, soffriva atrocemente per una malattia agli occhi, che gli impediva di condurre una vita normale. Una notte, narra la Leggenda perugina, mentre pregava il Signore perché gli venisse in soccorso, ebbe dal cielo una risposta rassicurante e rasserenante. A mattino seguente compose il Cantico:

Alzandosi al mattino, (Francesco) disse ai suoi compagni: ‘Se l’imperatore donasse un intero reame al suo servitore, costui non ne godrebbe vivamente? Ma se gli regalasse addirittura tutto l’impero, non ne godrebbe più ancora?’. E soggiunse: ‘Sì, io devo molto godere adesso in mezzo ai miei mali e dolori, e trovare conforto nel Signore, e render grazie sempre a Dio Padre, all’unico suo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo e allo Spirito Santo, per la grazia e benedizione così grande che mi è stata elargita: egli infatti si è degnato nella sua misericordia di donare a me, suo piccolo servo indegno ancora vivente quaggiù, la certezza di possedere il suo Regno. Voglio quindi, a lode di Lui e a mia consolazione e per edificazione del prossimo, comporre una nuova lauda del Signore per le sue creature.’

Ciò che contraddistingue e fa di San Francesco un poeta diverso rispetto agli altri scrittori di quel tempo è che la sua poesia è fondata sulla mistica più che sul tema religioso o teologico; nel Cantico ritroviamo come fonte d’ispirazione i Salmi. Il messaggio cristiano che San Francesco comunica sui temi dell’ambiente è limpido come quello dei Salmi.

Nel testamento Francesco lasciò  scritto:
“Quando ero nei peccati, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi; il Signore mi condusse fra loro, quando mi allontanai, quello che prima stimavo amaro, mi si tramutò in dolcezza dell’animo e del corpo, e dopo abbandonai il mondo”.

Il misticismo è una dottrina dell’esoterismo, dal greco mistikòs (misterioso) e myein (chiudere, tacere). E’ la contemplazione delle cose spirituali ottenute con l’allontanamento da quelle materiali. Francesco D’Assisi, in tal senso, fu un grande mistico.  L’umiltà della sua opera gli valse il nome di Imitator Christi (Imitatore di Cristo), ed ogni membro della sua fraternità è un Imitator Francisci (Imitatore di Francesco), cioè anche lui Imitator Christi. Secondo lui, la vita comunitaria deve seguire tre regole: la fraternità (i frati non devono vivere soli ma prendersi cura dei loro fratelli e di tutti con amore e dedizione, e tale cura si estende anche al creato in quanto opera di Dio, perciò sacro); l’umiltà (essi devono porsi al di sotto di tutti e di tutto, al servizio dell’ultimo per essere veramente al servizio di Dio); e la povertà (devono rinunciare a qualsiasi bene, condividendo tutto quello che gli viene dato con i fratelli, cominciando dai più bisognosi). Francesco chiamava i compagni “minores”, appellativo dato per spregio dai ricchi ai popolani. Le sue prediche erano semplici perché rivolte a gente semplice, ed egli quando parlava rapiva la folla. L’esempio francescano che sottolineava la compassione per la sofferenza di Cristo ha modificato la raffigurazione del crocifisso non più trionfante con gli occhi aperti, ma sofferente col capo chino, addolorato, ed il corpo cadente . Il “Cantico delle creature” è  una lode a Dio ed un inno alla vita, una preghiera permeata da una visione positiva della natura, in quanto nel creato è riflessa l’immagine del creatore. Da ciò deriva il senso di fratellanza fra l’uomo ed il mondo. Tutte le creature sono viste in modo positivo e vengono chiamate “fratello” e “sorella”. Francesco pone l’uomo al loro livello poichè anch’egli è creatura, ma chiamato ad una maggiore responsabilità morale, in quanto dotato di libero arbitrio. Anche la morte è sorella, nessun uomo la può evitare, e se egli è in stato di grazia sarà un avvenimento positivo, il passaggio alla vera vita con Dio. Per questo, alla fine, gli uomini toccati dal Cantico sono invitati a lodarlo e benedirlo, servendolo con umiltà.  Dunque, è il misticismo la profonda radice poetica dell’opera.

A me la profonda umanità di Francesco ricorda molto quella di Simone Weil, autrice che ho sempre amato moltissimo.

La filosofa e mistica francese Simone Weil, la sua visione dell’universo, il significato che Ella conferisce all’esistenza, si traduce in un percorso di vita che, partendo da premesse agnostiche, approda al misticismo a seguito di una lunga maturazione, di un graduale itinerario verso l’ascesi il quale, tramite il contatto intenso e prolungato con la sventura, la conduce ad una sorta di incarnazione totale: la ferita, o meglio la profonda lacerazione prodotta nella sua anima dalla completa condivisione della sorte degli oppressi, dei reietti, degli strati sociali più disagiati, e degli operai in particolare, le sconvolge la vita, segnandola per sempre: sarà, la sua, un’immolazione totale cui si offrirà volontariamente, con scelta consapevole, una scelta desiderata e accolta con gioia che ne farà una quieta vittima sacrificale, che le spalancherà le porte del soprannaturale.

Il suo «Diario di fabbrica» è una delle sue opere più commoventi, testimonianza personale indimenticabile di una sventura condivisa che avrebbe distrutto i suoi venticinque anni, le avrebbe oppresso l’anima e l’avrebbe segnata per tutta la vita. Una sventura che neanche le rivendicazioni sindacali e la promozione della cultura tra i lavoratori, pur sacrosante, avrebbero mai potuto superare. «Per avere la forza di contemplare la sventura quando si è sventurati, ci vuole il pane soprannaturale» affermerà la Weil, aggiungendo le seguenti considerazioni: «laggiù — in fabbrica — ho ricevuto, per sempre, il marchio della schiavitù, come il marchio che i Romani imprimevano col ferro rovente sulla fronte degli schiavi più abbietti. Da allora mi sono sempre considerata una schiava». Il contatto prolungato e intenso con la disgrazia è per lei indimenticabile e forse è proprio questa esperienza, o meglio, questa sorta di incarnazione totale che la porterà successivamente a scoprire il Cristo, colui che ha abbracciato la sventura per salvare gli sventurati. Quando si interessa delle vicende dei minatori e degli operai la Weil è lontana dall’esperienza del soprannaturale, ne ignora l’esistenza, provenendo peraltro da una famiglia che ha professato l’agnosticismo. Tuttavia la profonda lacerazione avvenuta nella sua anima dopo il contatto con tale sofferenza produce i germi che l’avrebbero poi portata ad avvicinarsi alla figura del Cristo ‘reietto tra i reietti’, capace di portare su di sé il dolore dell’umanità.

Sempre presente dove ci sono dolore, oppressione, ingiustizia sociale, la Weil non si identifica però mai né con un partito, pur lottando per le rivendicazioni operaie e pur partecipando alla guerra civile spagnola nelle file dei rossi, né con la Chiesa Cattolica nella quale rifiuterà di entrare, pur desiderando intensamente ricevere il Battesimo. Si chiede riguardo a lei Augusto Del Noce:  è un’ «anarchica», nel senso di «un’amante dell’impossibile»che deve perciò rompere con ogni ordine che prenda la forma di società, prima col comunismo, poi con la Chiesa cattolica? Esprime invece le condizioni di rinnovamento della Chiesa e incarna in questa richiesta lo spirito della Resistenza nel senso più puro, che domanda alla Chiesa l’abbandono di tutti quegli aspetti per cui è potuta sembrare il modello degli stati totalitari? … Offre il tipo esemplare della conversione religiosa quale è possibile, in piena probità intellettuale, oggi, in modo che il suo mancato compimento determini per il pensiero religioso i problemi che deve affrontare al presente? … I suoi scritti devono essere letti in chiave mistica o invece in chiave estetica? Dispongono cioè ad una conversione religiosa, o suscitano invece un’ammirazione estetica, in modo che il religioso sia totalmente assorbito dall’estetico? Sono cioè il compimento mistico del «miracolo greco» di Valery o della ricerca del tempo perduto di Proust? »

Ritengo di poter condividere gli interrogativi posti da Del Noce e penso in particolare che, rimanendo fisse le considerazioni suddette circa le tante possibili chiavi interpretative del pensiero weiliano, anche opposte o contraddittorie, l’autrice possa ritenersi ‘anarchica’ nel senso appunto di ‘amante dell’impossibile’, fautrice della rottura dei vecchi ordini che incarnano l’etica di potenza, lo spirito di sopraffazione e di violenza che contraddistingue la società e la politica, per disegnare un nuovo ordine, quello della verità e della giustizia, che si esprime nella centralità della concezione antropologica e nell’amore senza limiti per i reietti e gli oppressi, quell’amore di cui il Cristo costituisce la massima espressione, l’unica completa e compiuta.

In questo senso ritengo di poter suggerire un singolare parallelo tra Simone Weil e Francesco d’Assisi che, al di là del primo comprensibile sbigottimento, penso possa essere sostenuto e confermato da numerose e significative affinità tra i due personaggi, a cominciare proprio dalla definizione del nociana di ‘anarchico’come ‘amante dell’impossibile’ che molto bene si attaglia al Poverello d’Assisi.

Non era forse un rinnovamento profondo della Chiesa quello che auspicava Francesco, in un momento in cui il potere temporale e le preoccupazioni mondane sembrano aver deviato la «sposa di Cristo» dal suo percorso originario? Il sogno di Innocenzo III che vede le mura del palazzo pontificio vacillare per essere sorrette dal Poverello esprime molto bene la preoccupazione del Papa riguardo al percorso seguito dalla Chiesa dei suoi tempi e l’esigenza di un ritorno alla evangelica purezza dei costumi.

Simone, come Francesco, incarna lo spirito di Resistenza più puro, una Resistenza alla penetrazione nell’animo umano e nell’assetto sociale dei falsi idoli mondani che non si esprime nella violenza o nel rifiuto del mondo, ma che abbraccia il mondo, le sue miserie, le sue debolezze, con infinito amore, quell’amore di chi è vicino all’uomo senza porre limiti all’umana dedizione e che, in quell’uomo, vede l’immagine del Cristo povero e sofferente.Il misticismo dei due autori che si esprime nella totale mortificazione dell’Io, per abbracciare l’altro uomo in un atto di condivisione estrema, supera ogni dimensione storica e ogni contingenza e temporaneità per sfociare nella filosofia, in quella filosofia che non ha storia o nella quale l’unico senso della storia consiste nel riaffermare le verità potenziali della tradizione. In questa ottica Simone Weil e Francesco d’Assisi sono filosofi, si interrogano sul senso e sul significato della vita per riscoprirne il valore in una dimensione che supera ogni mondanità che vede nei miti della società a loro contemporanea, il danaro, il potere, la ricchezza — paradossalmente sempre gli stessi nella sostanza, nonostante il salto di settecento anni, — dei falsi idoli e che trova la sua risposta ultima nel metafisicismo, nella spiritualità, nella contemplazione. Dunque, Simone Weil e il poverello d’Assisi : due filosofi mistici anarchici, molto più vicini di quanto si potrebbe mai immaginare.

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