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Odio la poesia

Odio poesia e poeti,
odio i colti e gli artisti,
odio il cielo,
e i suoi dei,
il sole e la luna,
tutte le stelle, una a una,
odio l’amore o il dolore,
amo quel riso di stupida intesa,
odio la mente e il pensiero,
che somigliano al nulla,
amo il deserto
ancora da capire,
odio tuo padre,
e amerò tua madre
ogni volta che il vento le sollevi le vesti
e le colmi di fatue carezze scirocco,
odio il mare che mai finisce,
odio le strade e il suo popolo,
nei labirinti sperduto,
il film che finisce,
sui titoli di coda,
odio nostalgia e la memoria,
odio il tempo
che mai si presenta,
la malattia che ti sbrana a bocconi,
la vecchiaia che inzuppa
come una pioggia,
amo il temporale piuttosto
e i suoi fulmini piuttosto,
le fogne della grande città,
la fame da sfamare a violenza,
e la sete da bere senza sosta,
amo i tetti a tegole e muschio,
odio il mondo
e i suoi mercati,
amo le nuvole piuttosto da formare,
mescolare,
amo le storie
che nessuno racconta,
e galleggiano nell’aria
come palloncini nel vento
– scoppieranno a una grondaia, un’antenna,
strazieranno per giorni attaccati a quel filo –
odio l’amore o il dolore
e il tempo che viene e non viene.

 

 

Alla luna

Formidabile luna,
quando al tuo pallore di vergine s’appendono stelle, come perle agli orecchi,
quando scendi dal cielo con velo di sposa,
e ancora nascondi il tuo viso,
per pudore o amore,
ogni gradino è l’oscuro, vi scivola il piedino di bimba,
pronta al suo gioco,
celare, svelare,
su chine brulle, su vertici alberi,
e spianate d’un tratto
come corpi tremanti in attesa.
Rossa luna,
trasparente di sangue, come gota di ragazza affannata,
– una corsa e un sospiro –
meravigliosa luna,
come una goccia di pianto sospesa, raccolta su mani,
le mie luce e ombra,
incredibile luna su involute campagne, arruffate
d’insetti, di venti, di fronde, di sibili e sensi, silenzi.
Trasparente mia luna,
indecisa se andare, partire, o restare, o giocare, piangere e maritarsi con trini di tulle.

Complice luna,
quando scompari tra nubi per sempre,
e io ladro assassino scopro il buio per rubare e ammazzare.

 

 

Epitaffio a me stesso

Son morto una volta,
steso tra flebo,
tra fili spinati e campi minati,
son morto
di fame,
o di sete? – che importa? –
di bombe lanciate su inermi
– tutti inermi i compagni –
son morto
insultato dal tempo,
relegato nel tempo,
scordato dai suoi effimeri affetti,
son morto
ribelle cadavere a tutti i potenti,
il mio teschio non morde la terra,
né il cielo,
meglio il cuore in carne dei vivi
a sbranare,
son morto
fra tanti – compagni? –
adesso compagni,
adesso la pace voglio scrollare
dalle povere ossa,
e mai giacere di morte.
Meglio prendere il vento in cenere sparsa,
e accecare due occhi già ciechi.
Che importa?

Son morto,
ancora il pianto si mormora
e langue alle labbra,
le tue, donna moglie,
al tuo seno che ancora ricorda,
e ancora respira il mio fiato,
ancora s’ottura al mio fiato,
avvelena.
Son morto
di dolcezze e veleni.

 

 

Infinito

Dopo tanto silenzio
è colla la lingua,
mugugno la gola,
come il mare
fango e scirocco il cuore si compie,
rintocca un tempo, un dolore,
come l’onda a stento lecca la riva,
e vi appiccica la bava schiumosa;
abbiamo disegnato la sabbia,
costruito castelli,
l’onda li assorbe,
e ritira in abissi,
una nuvola incombe
nel cielo,
nell’afa d’autunno,
stendiamo le gambe al riposo,
la parola è lo sguardo,
o neppure,
la voce s’inghiotte,
e il silenzio,
o il pensiero,
ritorna padrone.

 

 

 

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.