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Il verso che funge da titolo è tratto dalla bellissima lirica “Un pezzo di pane calpestato” di Gerardo Sangiorgio, il famoso eroe antifascista che ebbe il coraggio di dire no alle lusinghe della Repubblica di Salò, dopo l’otto settembre del 1943, e che per questo finì in un campo di concentramento in Germania. Esso ci suggerisce l’atmosfera di terrificante sopravvivenza, che si respirava nella coatta permanenza nei lager nazisti.

Gerardo Sangiorgio, biancavillese di adozione, era nato il 20 maggio del 1921 a Cancello di Arnone, in provincia di Caserta, dove il padre era maresciallo dei carabinieri a cavallo, nella scorta del re. Dopo aver brillantemente conseguito la maturità classica nel 1940, si cominciò a segnalare per “la sua vivacità di ingegno e l’amore per le discipline umanistiche e la ferrea tempra religiosa e morale”, che gli permisero di diventare, ancora giovanissimo, collaboratore letterario nella rivista cattolica “L’amico della gioventù”. Nel 1941 si iscrisse alla facoltà di Lettere Classiche presso l’Università di Catania, ma ben presto gli fu imposto di  prestare il servizio militare come V U (Volontari Universitari), nonostante avesse presentato il rinvio, e subito dopo fu mandato a combattere in Grecia da dove, ammalatosi venne rimpatriato in Italia prima a Piacenza e poi a Parma presso la Scuola di Fanteria.

Era quasi arrivato il momento del congedo, quando sopraggiunse l’8 settembre, data cruciale della  seconda guerra mondiale, con tutte le sue conseguenze. Racconta Sangiorgio nelle “Memorie dal lager”: “Rimanemmo al nostro posto d’onore in omaggio al principio che il soldato possiede in se stesso i valori della sua dignità, prescindendo dal ricevere o non ricevere ordini pertinenti, come è simboleggiato dalle stellette che porta, e convinti che in quel momento la causa giusta, quella della lotta all’aggressore disumano e soverchiatore aveva di bisogno di noi, per dare una nuova ed onorevole svolta alle infauste tragiche vicende della nostra Patria”. Il rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò, nonostante le allettanti ed ipocrite profferte di emissari fascisti di farli rientrare in patria, ma a condizione che rinnegassero la loro aspirazione “ad una Nazione libera e civile”, che ricorrono anche  a raccapriccianti minacce, purtroppo in larga misura realizzate, come questa: “ Vedete quel bosco (un lugubre bosco che si parava innanzi alla nostra vista) ! Sotto quel bosco stanno i resti di ben settemila ebrei: la stessa sorte toccherà a voi, se non aderite all’esercito della Repubblica Sociale Fascista!”. Ma noi dicemmo unanimemente: “NO!”, fa scattare l’immancabile deportazione nei campi di sterminio nazisti. Gerardo Sangiorgio viene deportato a Neubrandeburg bei Neustrelitz, Duisdorf e Bonn am Rhein, anzi riuscì a scampare al forno crematorio (si noti l’innato disprezzo della vita umana da parte dei nazifascisti), perché risultato in sovrappeso di 800 grammi rispetto al limite, con il quale era provata l’inabilità al lavoro, in base alla quale, secondo le disposizioni naziste, i deportati dovevano essere eliminati. Egli, sorretto dalla grande fede in Dio, nonostante la “disumanizzante prigionia dei lager”, vissuta fra atroci sofferenze per la fame ( si alimentava per lo più con luride bucce di patate,che venivano gettate ai prigionieri, come ricompensa della inumana fatica della giornata, come fossero non uomini ma maiali), il freddo e le violenze subite, riuscì a sopravvivere  fino a quando nel ’45 venne liberato da due soldati americani mimetizzati e quindi potè rientrare in Italia ai primi di agosto del ’45.

Dopo il ritorno a Biancavilla, riprese gli studi universitari ed in poco tempo completò il suo curriculum, laurendosi a Catania nella facoltà di Lettere Classiche. Nella sua professione di Insegnante portò anche la sua esperienza di vita, propagandando nei riguardi delle nuove generazioni, gli ideali di libertà, di pace, di amore verso gli ultimi, diventando un esempio di riferimento per i giovani. Le scarne notizie biografiche, anche se unite alla sua grande sensibilità umana, non esauriscono il suo profilo, che emerge prepotentemente dalla sua profondissima fede in Dio, che non smarrì mai e che gli fa considerare la sua liberazione da parte dei due soldati americani come un intervento della Provvidenza divina. Infatti egli afferma, sempre in “ Memorie dal lager”: “Essi, (cioè gli americani liberatori) ciechi strumenti della Provvidenza…  non potevano rendersi conto di quello che stavano operando, cioè che in  quel momento strappavano a una vita di stenti, di fame, di freddo e di lavoro massacrante, alcuni poveri infelici che, mercè l’opera loro, sarebbero tornati a cibarsi come uomini, a ripararsi convenientemente dal freddo… ad inserirsi nell’umano consorzio con una dignità e un lavoro da esseri umani e soprattutto non più schiavi di alcuno”. Qui si sente l’eco della lirica “Shemà” di Primo Levi “ Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici/: Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no”. La sua profonda sensibilità religiosa diventa ancora più pregnante, quando si accorge che qualcuno si mostra generoso,come quel poliziotto tedesco, che rischiando la vita, gli permetteva di riempire le gavette dei prigionieri di patate lesse. Insomma un po’ di luce in un mondo estremamente ombroso, direi, del tutto nero.

Con grande riconoscenza, dimenticando da vero cristiano il male, che gli arrecavano i suoi spietati  connazionali nazisti, pronuncia nobili parole nei riguardi di qualche tedesco, che gli ha fatto del bene: “Qualcuno dei poliziotti di sorveglianza faceva furtivamente di quando in quando un segnale per farmi riempire alcune gavette di noi internati di patate lesse, che venivano così a rappresentare un prezioso supplemento alla scarsissima alimentazione. Così pure furtivamente si allungava da una finestra della fabbrica la mano di un operaio tedesco per deporre sul davanzale, un involtino contenente un poco più che trasparente pezzo di pane”. Per Gerardo in questa azione furtiva, ma coraggiosa ed estremamente generosa “c’era un pezzo di cuore, che pulsava di umanità aldilà di un sicuro pericolo di morte se fosse stato scoperto”. Molto commovente quest’altro episodio, che egli racconta nelle sue “Memorie dal lager”: “ Presso un aggregato urbano, che ti trovo? Un apparente mattone: il mio desiderio, però vorrebbe che fosse qualcosa che in Germania, allora, era dell’identica apparenza. Era veramente un pane!”. Il pane esercita su Gerardo Sangiorgio un fascino particolare se gli dedica addirittura una lirica intera, dal titolo “Un pezzo di pane calpestato”: “Raggio di vita, / pane calpestato, / nel tuo candore maculato/ le sequenze/ di un mio passato lontano e presente/ mi balzarono impresse. / Corsero al ricordo/ la fame e la sferza del tiranno, / e l’unico sogno che eri tu/ nei giorni dei lager, / quando alle albe non seguiva il sole/ e i tramonti erano senza rosso di speranza…”. (Quando l’algente verno…)

Ma da che cosa può essere derivata questa peculiare predilezione, quasi come un culto, del pane? Sicuramente dalla lunga privazione,a cui è stato sottoposto durante la prigionia. Inoltre il suo grande amore per la classicità gli ha insegnato che il pane è il principale alimento per l’uomo. In Grecia il pane era un cibo di culto. Per Omero gli uomini sono,  per antonomasia,  i mangiatori di pane. I misteri di Adone, che moriva e risorgeva in primavera, proprio come le spighe, venivano celebrati in tutti i paesi del Mediterraneo ed erano particolarmente sentiti a Betlemme, che letteralmente significa “ la casa del pane”. E proprio lì è nato colui che nei Vangeli si autodefinisce il pane della vita, “perché Gesù offre all’umanità il pane-perdono del suo corpo transustanziato in pane eucaristico”, come recitano anche le parole dell’ultima enciclica “Laudato sì” di papa Francesco:  “Nell’Eucaristia il creato trova la sua maggiore elevazione. La grazia raggiunge un’espressione meravigliosa quando Dio stesso, fatto uomo, arriva a farsi mangiare dalla sua creatura. Il Signore, al culmine del mistero dell’Incarnazione, volle raggiungere la nostra intimità attraverso un frammento di materia”. E non è un caso che la preghiera fondamentale dei cristiani, cioè il “Padre Nostro”, metta insieme il padre nostro e il pane quotidiano. Quindi il motivo principale è senz’altro quello cristiano.

Ma la vicenda dolorosa ma eroica di Sangiorgio solleva anche una questione politica. Egli stesso si autodefinisce “Combattente dell’8 e 9 settembre del 1943, facendo una larvata denuncia con queste affermazioni: “Non si capisce bene il motivo, per cui il martirio di ben seicentomila soldati italiani, per vari lustri, è stato tenuto in ombra e solo da un po’ di anni a questa parte, la più obiettiva ed accreditata storiografia rende giustizia a quanti, dopo il famoso 8 settembre 1943, diedero testimonianza, pur disarmati, di alto eroismo spirituale, negandosi alla collaborazione con i tedeschi, rifiutandosi in massa alle reiterate richieste di adesione alla Repubblica di Salò”. Gerardo Sangiorgio, con questo discorso, innesca una polemica, atta a chiarire perché ci si è sempre ricordato dei deportati nei lager di altre categorie di internati, mentre ci si è del tutto dimenticato dei molti soldati, che sono stati prigionieri nei campi di sterminio, i cosiddetti IMI (Internati militari italiani), come se stesso, per i quali solo negli anni ’80 fu concesso dal Presidente Sandro Pertini e dal ministro Giovanni Spadolini, il riconoscimento di “Diploma d’onore al combattente per la libertà d’Italia”, rendendo finalmente giustizia alla dignità di ben 40000 morti, lasciati sul suolo tedesco.

Quindi, doppiamente giusta la celebrazione fatta dal Comune di Biancavilla in onore di uno dei suoi figli più illustri “Gerardo Sangiorgio, deportato nei campi di sterminio per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò”,  nella giornata della memoria del 28 gennaio del 2012, al teatro La Fenice, con la partecipazione di amici, parenti ed ex alunni. Nell’occasione il Comune di Biancavilla ha  pubblicato a sue spese il volume, intitolato “Antologia della memoria per Gerardo Sangiorgio e gli ha intitolato la biblioteca comunale. A distanza di 70 anni, Gerardo Sangiorgio rappresenta un monito per le generazioni, che non conobbero quegli orrori, affinchè la storia sia veramente maestra della vita e non si ripeta. Forse il modo migliore di ricordare Gerardo Sangiorgio è nei versi finali della sua lirica, intitolata “Altri ci subentrano”, in cui egli così dice: “ Stranito guardo: / son fuori del tempo, / o qualcosa di me manca? / Perché intruso mi trovo/ nel luogo che amo”.

 

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