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IMPRESSIONI DI LETTURA DI UN PIEMONTESE CHE MAI SI SPIEMONTESIZZEREBBE
(Neanche per comporre tragedie)

Ciascuno di noi ha, credo, dei suoi percorsi, non solamente metaforici di crescita, di sviluppo, di cultura, ma anche percorsi che sono insieme concreti e dell’anima, strade che si intersecano a ricordi, sentieri che aiutano a sviluppare sensazioni, colline che elevano pensieri…
Molti anni fa, quando ancora abitavo a Torino, ero solito ogni 25 di aprile percorrere le strade del mio quartiere (San Salvario) o anche di altri più o meno lontani dal mio e così, approfittando del fatto che allora esistevano ancora le mezze stagioni (caro mio: ora ce le dobbiamo scordare…), sentivo la primavera che mi aiutava a sostenere frizzando la durezza dei marciapiedi lungo un percorso fatto di lapidi che il Comune aveva fatto collocare sui muri delle case dove un qualche caduto partigiano aveva, come si dice nelle celebrazioni retoricamente ufficiali, “consumato il suo sacrificio”. Univo così il piacere fisico di camminare con quello sentimentale di scoprire pezzetti a me nuovi della mia città, ma anche con quello, più intimo e nostalgico, del riflettere come tutti questi sacrifici fossero stati, ahimè, quasi inutili se paragonati con la situazione civile e politica di quegli anni (e dei nostri…). Chi era caduto sperando in un Paese più libero e più civile (non stiamo ora a considerare se credendo nel Sole dell’avvenire o nel liberalismo o nell’escatologia dei novissimi) si sarebbe probabilmente rivoltato nella tomba a sapere le condizioni attuali della Nazione.
Come esistono percorsi di questo tipo, esistono anche scrittori che con alcune loro opere ti permettono di rievocare e di quasi rivivere figure esperienze sensazioni della tua vita, vicina e lontana; e soprattutto se lontana ti fa sentire questi scrittori come fratelli, più anziani di te, ma che comunque hanno vissuto prima di te (o magari insieme a te, se il senso della scrittura e della lettura è quello di una circolarità che ti fa ritornare ogni volta su te stesso) una pressoché medesima esperienza di vita.
Tutte queste mie impressioni e sensazioni giovanili vennero al loro dunque quando casualmente conobbi un personaggio schivo all’aspetto, più simile ad un onesto amministratore di condominio (absit iniuria verbis) o ad un maestro di violoncello fin de siècle che non ad un intellettuale di fama internazionale (almeno per come io mi immaginavo allora gli intellettuali…). Faceva il chimico e lavorava in una industria già oltre quella che i vecchi torinesi chiamano ancora la Barriera, cioè la cinta daziaria di un tempo, oltre la quale una volta campi alberi fabbriche; come molti della sua classe sociale (la medio-alta borghesia di antica prosapia) viveva non lontano da casa mia, ma in un quartiere decisamente più prestigioso e intellettualmente avanzato (la Crocetta), luogo in cui risiedevano artisti, scrittori, editori, insomma intellettuali, in genere di antica e solida tradizione sabauda (in senso non tanto politico quanto etico).
Di lui mi attraeva il côté ebraico, memore delle lezioni del mio professore di filosofia al liceo, marxista ortodosso (ma eterodosso transfuga dal PCI, dopo i fatti di Budapest) e sionista della prima ora, di quel sionismo di salde radici socialiste che si era tradotto in Eretz Israel nell’esperienza di una federazione di kibbutzim in cui vigevano l’economia collettivista e l’ideologia socialista (ha-Shomer ha-Zair, cioè la «Giovane Guardia») da lui frequentati in gioventù. La sua fede nel socialismo e nel sionismo mi ricordavano alcuni vecchi compagni di mio nonno, sicuri nella loro convinzione che Gesù Cristo fosse stato “il primo socialista”. Ma non divaghiamo…
Di lui mi attraeva il côté ebraico, ma non tanto quello poi conosciuto dalla maggioranza dei suoi lettori, quello cioè disperso e negato nel campo della negazione stessa di Dio, quanto quello delle radici ebraico-piemontesi (di lui alcuni parenti risiedevano anch’essi a Saluzzo), a me vicine e care nelle figure di alcune amiche saluzzesi di mia nonna, che per me rappresentavano l’altro aspetto della mia famiglia, quello dei liberali e di Giolitti, di cui al mio paese il cavalier Tallone era il “grande elettore”. Ma non divaghiamo di nuovo…

– Vedo che lei sta leggendo le targhe commemorative dei martiri… È da un po’ che le sto venendo dietro… (bel piemontesismo: “venir dietro” o “andare dietro” a qualcuno, per l’italiano “seguire”; ven-e o andé dapress, da non confondere con andé darera: sottile sfumatura di differente significato, in quanto quest’ultima locuzione si usa quando si parla di rapporti tra uomini e donne; insomma, andeje dapress a cheidun, vuol dire “seguire qualcuno”, mentre andeje darera a cheidun significa “dimostrare attrazione per qualcuno, fargli il filo”).
– È un’abitudine che ho da un po’ di tempo – e spiego a questo signore quello che ho spiegato a voi poche righe fa: il sacrificio, la sua inutilità, l’essere morti per un Paese che non ha voluto imparare questa, ed altre, lezioni… – ma lei non è il dottor L., lo scrittore?
– Sì, sono io. E vorrei aggiungere che la targa che mi più mi farebbe piacere vedere è quella che dovrebbe ricordare un mio antico compagno di Università, un gòi, un gentile, ma di grande animo: Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione, morto a Cuneo nel 1944 per opera di un assassino bambino, che forse neppure sapeva di assassinare non solo un uomo, ma un modello, per me e per molti altri…[1. Queste notizie, così come quelle seguenti, sono ricavate da Il sistema periodico (Einaudi, Torino, 1975) di Primo Levi, e in particolare dai capitoli intitolati Ferro ed Argon. Le notizie su Sandro Delmastro (Ferro) si trovano alle pagine 41-51 dell’edizione 1982 nei «Nuovi Coralli», mentre quelle sulla famiglia e gli antenati di Primo Levi (Argon) alle pagine 3-21.]
– Ho da poco letto il suo libro in cui parla di questo suo amico. Se mi permette, posso chiederle se la sua ammirazione per Sandro dipendeva anche dal fatto che fosse, se così posso dire, “archetipicamente” piemontese?
– Penso proprio di sì. Il ritratto che ne ho fatto penso metta bene in luce questo suo essere intimamente piemontese[2.  «Niente era trapelato dal suo involucro di ritegno, niente del suo mondo interiore (…) era fatto come i gatti, con cui si convive per decenni senza che mai vi consentano di penetrare la loro sacra pelle» (op. cit., p. 42); «Aveva scelto chimica perché (…) era un mestiere di cose che si vedono e si toccano» (op. cit., p. 43); «Sempre pronto a smontarmi con due parole garbate e asciutte quando sconfinavo nella retorica» (op. cit., p. 44); «Delle sue imprese parlava con estrema avarizia. Non era della razza di quelli che fanno le cose per poterle raccontare» (op. cit., p. 46).]. La sua serietà, la sua anti-retoricità, la sua riservatezza, il suo agire concretamente ma senza parlare di sé: se fai qualcosa di buono sono gli altri che devono rilevarlo, non tu. Ho detto di lui che era un po’ come un gatto, un gatto con cui puoi anche vivere anni ed anni, ma non ti lascia andare oltre un certo limite; e la maggioranza dei piemontesi sono così, come dei gatti.
– Queste parole mi fanno pensare ad Augusto Monti, che ricordava di come un suo amico emiliano avesse paragonato noi piemontesi ai gatti, ma per un’altra ragione: i gatti nascondono le loro brutture, cioè i loro escrementi, noi nascondiamo al contrario le nostre buone qualità, loro non vogliono far vedere il peggio di se stessi, noi il meglio…[3.  Si tratta di un episodio di cui Monti parla in I miei conti con la scuola (Einaudi, Torino, 1965), pp. 35sg.]
– È un po’ quello che hanno sempre fatto i miei antenati, venuti in Piemonte dalla Spagna attraverso la Provenza: immobili, sempre uguali a se stessi, eppure così vivaci nella loro diversità. Ma ora la devo salutare: continui il suo pellegrinaggio, ogni anno, e non disperi nel futuro, ma soprattutto nel presente.

Io avevo da poco letto Il sistema periodico, ma non glielo dissi, forse per pudore forse per nascondere l’invidia che avevo nei suoi confronti: invidia del suo modo di scrivere, dell’understatement con cui mi pareva affrontare la sua condizione di sopravvissuto, dell’ironia (in senso greco) con cui mi sembrava discutere le sue argomentazioni. Non glielo dissi, ma avevo un po’ rivisto, pur in un contesto successivo al suo di almeno trent’anni, il me stesso bambino nella sua figura di scolaro delle elementari in visita a Nòna Malia, la Maman[4. Cfr. op. cit., pp. 18-21.], la nonna paterna di via Po, descrivendo una situazione in cui io avevo rivissuto le visite domenicali alle zie in case oscuramente cavernose e con cioccolatini o caramelle fatte scivolare nelle tasche con un vago senso di afflizione dolorosa.

Non gli feci neppure notare che la grafia piemontese corretta è molto differente da quella da lui adoperata nei suoi libri, così come non dissi che, grandissimo come scrittore e come intellettuale, era forse meglio che non si cimentasse in questioni linguistiche ed etimologiche, con le quali dimostrava poca dimestichezza[5. Vedi, a questo proposito, il suo articolo «Bella come una fiore», uscito su «La Stampa» del 13 luglio 1986 ed ora raccolto nel volume Il fabbricante di specchi, Torino (ed. «La Stampa») 2007, pp. 189-192.].
Eppure adesso «Io so che è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta»[6. Cfr. ancora Il sistema periodico, p. 51.].


 

Corto Mantese

Dietro questo pseudonimo si cela un personaggio di media cultura, ma di vastissime (e disordinate) letture. A cavallo tra Piemonte e Provenza, tra le montagne ed il mare, le sue brevi prose d’arte rievocano letture e tradizioni, cultura letteraria e sapienza popolare. Vive tra le contraddizioni e le antitesi, ossimoro umano in cui gli opposti dovrebbero placarsi, riunirsi e trovare la loro realizzazione.