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© Federico Verani

ISRAELIANI BRAVA GENTE

In Israele ho visto l’unica politica intelligente, seria e non ipocrita a livello nazionale (troppo facile sei italiano – verrebbe da dire) e dunque non mi stancherò mai di ricordarla.
Israele, un paese che investe quasi il 5% del PIL in ricerca e sviluppo (primato mondiale – l’Italia è una delle peggiori intorno all’1%) con un altrettanto tasso di crescita annua da anni.
Quando sono tornato in Israele nel 2010 ho visto aziende floride e idee imprenditoriali forti, ho visto persone coraggiose, vive, pronte a confrontarsi senza paura di perdere nulla perchè forti di ciò che sapevano e di ciò che erano.
È per questo che sinceramente mi sono stupito quando è partito il movimento degli “indignados” israeliani mesi prima di noi.
Però ho capito.
Ho capito che in Italia siamo arrivati ad un livello di dignità così basso che non abbiamo nemmeno più voglia e modo di protestare.
Israele è un popolo vivo e dinamico: è per questo che protesta.
In Italia, siamo un cimitero al contrario.
Da noi i vivi sono sepolti sotto i morti viventi.
Per qualsiasi iniziativa bisogna scavare fino in superficie per ricordare ai morti che siamo noi i vivi, che ci siamo anche noi, sempre chiedendo per cortesia, non sia mai.
Quindi proverò a raccontare l’unica politica intelligente che ho visto negli ultimi anni.
E ogni volta che penso ad Israele mi viene il paragone con l’Italia.
Ma non eravamo noi gli imprenditori coraggiosi, geniali e rumorosi?
Non eravamo noi gli “italiani bravaggente”?

Un giorno, uscendo in macchina verso Beersheva, vediamo una serra gigantesca. Mai vista prima. Una struttura in pali di alluminio che si intersecano con pannelli trasparenti, alta almeno quattro metri e grande quanto un campo da calcio.
– Oh! Ma questa? – chiediamo ad uno del Kibbutz che stava guidando la macchina.
– Ma quando l’avete costruita? Non c’era l’altro giorno! – la indichiamo stupiti.
– Ah sì – ci risponde come fosse ovvio – l’hanno montata i Thai in un paio di giorni. Sono così: cominciano e non si fermano finché non è finito.

I Thai?

© Federico Verani

I THAILANDESI

Siamo seduti nel vano posteriore del pick-up.
A fine lavoro, al sole di pranzo, ci vengono a prendere.
Prima prelevano noi volontari del Kibbutz.
Poi di tanto in tanto il pick-up rallenta caricando i Thailandesi.
Non è facile vederli all’ora di pranzo, perchè i Thai – come li chiamano tutti – lavorano dal mattino presto fino a sera senza andare nemmeno in mensa.
Pranzano sul lavoro.
Sui campi.
Uomini e donne.
Sono gentili, sorridenti, curiosi.
Non parlano quasi mai l’inglese.
Le nostre interazioni con loro sono dei sorrisi spontanei di reciproca comprensione.
Altre volte è successo che qualche giovane dei loro si avvicinasse alle “bionde con gli occhi azzurri” tra i volontari internazionali ottenendo solo un approccio da goffo cartone animato.
Ma i più fortunati di noi hanno potuto lavorare fianco a fianco coi Thai: un onore per noi.
Sono precisi, veloci e sempre a ritmo.
Mentre per loro è una perdita di tempo lavorare con noi.
Noi siamo lenti, imprecisi e distratti.
Il rapporto lavorativo tra i Thai e noi volontari internazionali è paragonabile alle truppe al fronte quando arrivano in visita le star di Hollywood o peggio, i politici: è solo una scusa per riposarsi e per memorizzare il culo di Scarlett Johansson per le notti future.

Insieme ad un americano e ad un australiano una volta siamo stati affiancati da un Thai superesperto per prelevare gli spruzzatori dai campi caricandoli e rincorrendo un trattore in moto.
Quando ci siamo fermati per riposarci sotto l’ombra, il Thai ci ha offerto una sigaretta.
Non abbiamo potuto rifiutarla.
Abbiamo fatto le facce da duri.
L’australiano è svenuto.
Io e l’americano abbiamo continuato a fumarla, esangui in volto: era tabacco forte, dentro un pezzo di pagina di giornale e senza filtro.
Con il caldo torrido un mix letale.
Roba da De Niro che fuma oppio in “C’era una volta in America”.
Però son sicuro, gliel’ho letto in faccia: l’americano è tornato per un attimo nel Far West da pioniere brutto e sporco e non da attore del Marlboro Country.

Mentre siamo nel pick-up una londinese figlia di un nigeriano e di una bianca gallese osserva:
– Ma perchè i Thailandesi si coprono col passamontagna quando lavorano?
– Per il caldo, per proteggersi dal caldo – gli risponde una prima voce
– Ma sotto questo sole sarà meglio un cappello anziché un passamontagna di lana? – continua lei insoddisfatta della risposta.
– E poi vedete che alcuni hanno le maglie lunghe!? Le maglie lunghe! – continua esclamando sconcertata e affettata: Spice Girl indignata.
Si parla con i Thai davanti, con la classica nonchalance che si ha quando si è certi che nessuno capisca – chi di noi non l’ha fatto?
I volontari non gestiscono i loro occhi incuriositi.
Era una domanda che avevamo sempre tutti in mente.
Intervengo io:
– No ma secondo me è per un altro motivo!
Mi guardano
– In Oriente c’è la cultura per cui le classi più ricche e abbienti dovevano mantenere la pelle lontana dal sole. La pelle abbronzata significava dover lavorare nei campi. Lavorare nei campi era prerogativa degli strati più bassi ed ignoranti.
– È per quello che usavano l’ombrello parasole: avere la pelle candida significava bellezza, cultura e ricchezza. Anche in Inghilterra si usava l’ombrello per mantenere la pelle candida.
– Ma oggi è cambiato tutto: i ricchi del mondo occidentale vogliono apparire abbronzati, perchè essere abbronzati significa avere i soldi per prendere il sole al mare o a sciare.
– Ma – aggiungo non contento – è una malattia umana: noi bianchi occidentali desideriamo la pelle più scura, i neri la vogliono più bianca, è sempre il solito discorso dell’erba del vicino.
Certo, in inglese tutto risulta molto più aspro nell’espressione.
Suona un po’ così: rich&white, black&poor.
Ma parlo senza malizia con la figlia londinese di un nigeriano.
Nemmeno lei si è scomposta.
È un modo per palesare e ridere di noi volontari sempre pronti ad abbronzarci – vera ossessione di quasi tutti i volontari occidentali a parte la nera londinese, una indiana, un sudamericano e una sudcoreana .

Ma da quel giorno i Thai non mi hanno più rivolto la parola.
Il giorno dopo erano tutti offesissimi.
Alcuni mi guardavano pure incuriositi per vedere chi era lo stronzo razzista.
Dirty, Filthy Italian – mi diceva sempre un altro ragazzo londinese.
Scherzava, però mi diceva sempre che noi italiani siamo tutti così:
Not Politically Correct, Dirty, Filthy.
Questo stereotipo non l’avevo ancora sentito.
Non era italiani bravaggente, simpatici e pronti all’amore?
Ma i Thai mi hanno fatto muro.
A ripensarci quel giorno nel pick-up c’era uno dei pochi Thai che parlava l’inglese.
Deve aver riferito a modo suo.
Mannaggia ai traduttori.
Ma la questione dei Thai offesi con me era una cosa che faceva ridere tutti quanti.
Vedere la loro gentilezza piegata con occhi ferrei nei miei confronti sapeva molto di pokemon furenti.
Da quel giorno non hanno più scherzato con me come prima.

I Thai erano in Israele per un accordo governativo Thailandia-Israele.
In Israele serviva molta manodopera, soprattutto in agricoltura (vi ricorda qualcuno?) e magari a costi più bassi, i Thailandesi volevano lavorare e farsi ricchi all’estero per poi tornare in patria.
Perfetto.
Il contratto si fa in due.
Entrambi soddisfatti.
Il contratto perfetto.
Su questo argomento, ogni volta che ne ho parlato, ho sentito le peggio esternazioni radical chic: ma questa è schiavitù regolarizzata! – ho sentito spesso.
Ma riporto le parole che mi aveva detto un Thailandese (quando ancora ero loro simpatico):
– Partire via da casa non è facile, per noi qui è tutto diverso, però qui in Israele, non siamo soli o isolati. Partiamo insieme, in gruppo, ci sono anche donne; stiamo tutti insieme, ci facciamo coraggio e così il tempo passa e riusciamo a diventare ricchi. Ma così è tutto regolare, veniamo in aereo, abbiamo il visto e siamo tranquilli. Regolari.
– Noi veniamo in Israele e lavoriamo quasi ogni giorno. Da mattina fino a pomeriggio. Se uno vuole, più lavora più guadagna. Poi torniamo dopo due, cinque o dieci anni di lavoro. Torniamo ricchi. Quando torniamo siamo degli eroi per la nostra gente. Possiamo comprare tutto: una casa, la macchina e mandare i figli a scuola. Manteniamo la famiglia e i parenti. Siamo sistemati per tutta la vita.
– Se volete veniamo anche nel vostro paese! Di dove sei?
– Italia!
– Non conosco Italia! Com’è Italia?

Menomale: Italiani bravaggente.
Quando torniamo siamo degli eroi – mi aveva detto il thailandese.
In Italia invece gli immigrati arrivano quasi sempre clandestinamente.
Già umiliati in partenza.
Senza documenti, sempre sotto ricatto, alla mercè di impresari spregiudicati, sottopagati, senza casa (costretti a dormire a turno in 50 mq perché nessuno gli affitta case normali), sempre col rischio di venire presi dalla polizia, magari quando hanno finito di lavorare così non vengono pagati.
Lasciati da soli, mai regolarizzati, il lavoro lo fanno comunque.

Però per noi sono sempre gli altri gli schiavisti colonialisti.
La Palestina è sempre altrove mai da noi.
Le istituzioni delegano principalmente alla Caritas e alla polizia il compito di occuparsene – con i risultati che vediamo – uscendosene vigliaccamente dall’occuparsi di persone che invece potrebbero essere futuri e prolifici italiani a tutti gli effetti.
Prolifici economicamente ed intellettualmente.
Invece giochiamo all’umiliazione di chi sta sotto.
Giochiamo a farli tornare indietro umiliati e rancorosi.
Mai regolarizzare, mai una politica trasparente e onesta verso la realtà.
Italiani: bravaggente.

Per una settimana nel Kibbutz mi hanno fatto fare un lavoro divertentissimo: trasloco mobili nelle stanze.
Divertentissimo perchè potevamo usare un muletto elettrico ma soprattutto perchè potevamo entrare in molte case del Kibbutz.
Sia in quelle dei Kibbutzink “più uguali degli altri” – come direbbe Orwell –
che abitavano in vere e proprie ville e soprattutto nelle case dei Thailandesi.
Non li vedevi mai in giro perchè o lavoravano o stavano tra di loro o dormivano. Non incontrarli aumentava la nostra curiosità ma capivamo che c’erano vere e proprie barriere culturali che impedivano loro di avvicinarsi a noi nei momenti di svago.
Solo un giorno li abbiamo trovati ubriachi al Pub, timidamente sfuggenti e sorridenti: era il compleanno della loro Regina.
Abbiamo provato ad interagire ma la loro timida diffidenza era molto più forte del loro inglese.
Entrando si capiva da subito che le loro case erano le tipiche abitazioni di chi lavora senza sosta.
Ma faceva tenerezza vedere i loro piccoli altari per pregare Buddha, i sacchi di riso da 50 Kg, le birre vuote, i posacenere.
Sì d’istinto facevano sempre venire una sorta di fraterna tenerezza perché sapevano di sacrificio, di solitudine, di sofferenza taciuta, di affetti lontani.
Una volta entrando abbiamo trovato una loro casa allagata di sangue.
C’era una pozza alta un centimetro con un rigagnolo che non capivamo da dove venisse.
Ci siamo guardati – io e il ragazzo svedese – sgranando gli occhi e pensando al peggio.
Ma era un pezzo di bue gigantesco infilato dentro un frigo che si era aperto e si era scongelato.
Acquistavano tutto in dosi massicce per risparmiare.
Le loro stanze, le loro case, erano molto più grandi delle nostre.
Stavano massimo in due per casa.
Noi anche in sette nel periodo peggiore.
Loro avevano tutti i comforts.
Noi eravamo dunque trattati peggio di loro.
E questo era giusto.
Era corretto.
Perché erano lì per lavoro.
Paradossalmente noi eravamo cercati da tutti ma in condizioni poco confortevoli.
Zero privacy, zero pace.

Eppure tutta Israele e tutti gli Israeliani mi sono sembrati proprio come l’Italia del boom economico: disponibili, sorridenti, coraggiosi, intraprendenti e chiassosi.
Come gli Italiani bravaggente.
Ho ripreso ad amare l’Italia rivedendola negli israeliani.
Ma in Italia finora, una frase del genere non l’ho mai sentita:
“Io qui sono felice. Facevo parte del movimento messicano socialista Hashomer: mi hanno offerto di andare in Israele a lavorare in un Kibbutz. Mi hanno offerto un lavoro, una casa, un piccolo patrimonio da investire. Oggi io ho un lavoro, il kibbutz mi paga gli studi all’università, ho una casa mia, ho nuovi amici. Mi manca la mia famiglia in Messico, certo, ma qui sono felice. E soprattutto mi sento di vivere in una democrazia. Nei miei confronti si sono comportati da vera democrazia.”
Io ho sentito queste parole da una giovane ragazza messicana di origine ebraica.
Io non ho mai sentito esprimere una frase simile da un italiano.
Mi chiedo quando torneremo noi ad essere e non presumere.
Geni, artisti, eroi ed artigiani.
Ce ne vantiamo in tutto il mondo ma in Italia facciamo a gara per ucciderli.

Ma per ora: Israeliani?
Bravaggente.

Emanuele Casula

E' nato nel 1975. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Bologna, è partito a lavorare in un Kibbutz israeliano, esperienza che ha indirizzato la sua vita verso la Cooperazione Internazionale e la ricerca universitaria. Ha lavorato come progettista, coordinatore e cooperante a un progetto che riutilizza le tecniche millenarie della pastorizia per rilanciare lo sviluppo rurale nel sud dell’Africa. Il suo primo romanzo, 2012 Obama’s Burnout, è pubblicato da Robin Edizioni (Roma, 2011).