Al momento stai visualizzando Mare e lacrime

Il direttore è in ferie. Mi chiama il vice e mi dice di andare giù, in un paese del Cilento in provincia di Salerno, e di proseguire poi per la Calabria: “Ci sono due morti ammazzati, di cui ricorre l’anniversario, che aspettano giustizia”. Sto già per uscire dalla stanza: “Piera, mi raccomando, un bel servizio. È il tuo banco di prova”, aggiunge con un sorriso. Ha l’aria stanca, le maniche della camicia rialzate sino ai gomiti e il nodo della cravatta blu allentato. Parto subito, con la macchina nuova che mi ha comprato mia madre. Sono pronta a onorare il mio nuovo e (finalmente) regolare contratto dopo anni di precariato e di sfruttamento. E non posso non andare col pensiero ai tanti colleghi e alle tante colleghe che credono, come me, di fare il lavoro più bello del mondo e che sono sempre in cerca d’una sistemazione stabile. Fa un caldo tremendo. Penso di telefonare a qualcuno laggiù per avere le prime informazioni. Penso a Luigi Corbo che è stato assunto al Mattino. Abbiamo superato lo stesso giorno l’esame per passare “professionisti”. Ma rinuncio all’idea. Meglio telefonare ai familiari delle vittime: fissare gli appuntamenti per le interviste: guadagnare tempo. Al resto avrebbe provveduto il mio inseparabile PC. Arrivo nel paese che è sera. Un quarto di luna è già nel cielo. Un paese di 2500 anime che vive di turismo grazie al mare, meraviglioso e incontaminato. Era ed è ancora il paese del Sindaco pescatore che si batteva per la difesa dell’ambiente. Ammazzato un anno fa, di notte, sulla sua auto, mentre faceva ritorno a casa. Nove colpi di pistola, di cui sette andati a segno. Sono stanca. Parcheggio. Entro nel più vicino bar per bere una limonata ghiacciata. Poi chiamo con il cellulare Marco, il mio fidanzato, a Padova. E mi dice che lì un po’ è rinfrescato: non fa il caldo di cui mi lamento. Chiamo mia madre, che mi fa gli auguri per il nuovo lavoro. Lei non voleva che venissi a Roma. Non voleva nemmeno che facessi la giornalista. Avevo avuto grane a Padova per via di un’inchiesta – denunce per calunnia, diffamazione: avvocati, cause, tribunali. Ma è finita bene. Voleva per me un lavoro tranquillo, casa e ufficio. Una famiglia con figli da crescere: tutto quello per cui sono negata. Chiedo al barista notizie del sindaco ucciso. “Sono una giornalista – mi presento. – Mi chiamo Piera Fucini. Sono qui per un articolo”. Lui mi risponde, senza alcuna esitazione: “Lo scriva che dobbiamo tutto a lui: il turismo, il benessere che ce n’è venuto, la notorietà persino internazionale dei nostri piccoli luoghi, la bandiera blu di Legambiente per il nostro mare, la difesa del Parco del Cilento dagli attacchi della speculazione”. Erano amici, e si capisce. “Il sindaco non le mandava a dire nemmeno al suo partito, a cui – dice – chiedeva di essere più presente, più vicino alla gente”. E lo credo bene. Ci sarà una ragione se uno viene eletto quattro volte di fila. E l’ultima senza concorrenti, con il cento per cento dei suffragi. Penso un po’ a me stessa. Mi faccio indicare dal barista un ristorantino, una trattoria dove si può mangiare del buon pesce, e un albergo. La notte scende su un paese tranquillo. È settembre. Il grande flusso del turismo è diminuito – mi dicono sia alla trattoria che in albergo. Da un piano bar all’aperto sento arrivare canzoni degli anni settanta e ottanta. Accompagnano, prima che il sonno reclami i suoi diritti insistentemente, la preparazione del mio lavoro di domani: gli appunti che prendo da internet, le domande che farò ai familiari del Sindaco pescatore a un anno dal suo omicidio. Un anno – dicono il giorno dopo altri amici che non l’hanno dimenticato e che ancora nel suo impegno politico si riconoscono – trascorso invano sul fronte delle indagini ma non su quello delle iniziative civili per tenerne viva la memoria. Un film è stato girato e un libro è stato scritto su quest’uomo esemplare, oltre a una bella inchiesta televisiva e a una Fondazione che porta il suo nome. Ma le indagini? Niente si sa ancora degli esecutori e dei mandanti dell’omicidio. Non si esclude la pista camorristica. Il porto diventato punto strategico per gli interessi di ecomafie e camorra. Il paese, d’estate pieno di turisti, redditizio mercato della droga. E l’onesto sindaco un ostacolo a tutto questo. Ipotesi. Ancora soltanto ipotesi. Incontro la moglie, Angelina, nel ristorante di cui è proprietaria con i figli. Ha versato troppe lacrime, in quest’anno senza risposte e di incolmabile vuoto, per avere ancora la forza di versarne altre. Per lei è tutto buio, come la notte dell’omicidio. Buio sui killer, sui mandanti, sul movente. Non si dà pace: “In un paese come il nostro un fatto così sconvolgente! E a rovina di un uomo che amava la sua terra!”
Sole e mare. Mare e sole. E gente di fuori, felice, che si gode l’ultimo scorcio d’estate. Ci sono imbarcazioni da diporto di grosse e piccole dimensioni attraccate ai moli del porto turistico. Un anno fa di questi tempi i funerali del marito officiati dal vescovo, l’omaggio dello Stato con la presenza di ministri e deputati, la lettera del Presidente della Repubblica. “Davvero è trascorso un anno?”  Sì, e senza un barlume di speranza. Unico conforto, per lei, la foto del marito dalla quale mai si separa e la solidarietà dei veri amici, che non le manca. Mi dicono un po’ di cose utili Angelina e i suoi due figli sugli amici e sui nemici del sindaco. Ma di fronte a certe domande mostrano solo sospetti e dubbi, lo stupore e l’angoscia di chi non sa rispondere, di chi non riesce a spiegarsi i fatti. Pranzo da loro, poi scrivo l’articolo su un tavolo in disparte e lo mando al giornale. Uscirà domani. Lascio il ristorante e trovo un uomo seduto su un muro basso con le spalle al mare turchese. Fa segno di volermi parlare. Penso non abbia più di trent’anni. Ha gli occhi scuri e lucidi e le palpebre che si aprono e chiudono in continuazione. La barba incolta e lunghi capelli coperti a metà da un vecchio sombrero. Fuma nervosamente. Ma parla. Parla tanto e fa capire di non voler essere interrotto. “Due anni fa qui, qui vicino intendo, ma il nostro paese c’entra comunque e saprà perché,  è avvenuto un altro fatto grave, gravissimo, di cui voi giornalisti vi siete occupati poco; anzi, non vi siete occupati affatto. Omertosi, siete! Un uomo di cinquantotto anni, maestro di scuola benvoluto dagli alunni e dalle famiglie, è stato arrestato in un lido del Cilento. Aveva una lunga storia dietro. Cose di politica prima, e poi una vita al nord, la separazione dalla compagna una decina d’anni fa, il ritorno al suo paese, un posto d’insegnante. Lo chiamavano il maestro più alto del mondo perché era quasi due metri. Gli è accaduto qualcosa di assurdo, di folle, di violento. Si trovava in un camping ed è stato costretto a scappare verso il mare per non essere arrestato. Dopo quello che aveva patito molti anni addietro, negli anni lontani degli opposti estremismi, per capirci meglio, e cioè l’arresto per un omicidio non commesso, il carcere per l’ingiusta condanna in primo grado ribaltata in appello, non si era più ripreso. Aveva ormai una paura patologica delle forze dell’ordine, degli uomini in divisa. Tanto da provare persino la fuga a nuoto. Ma anche il mare, il mare del Cilento era presidiato: fu preso e sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Con la firma non del sindaco del suo paese ma di quello più vicino, il nostro. Il paese dove lei ora si trova. Con la firma proprio del Sindaco pescatore. Una procedura che non mi sembra regolare. Anche se, si capisce, il nostro sindaco non c’entra niente con quanto è successo dopo. Il maestro più alto del mondo risultava schedato come anarchico, quasi esserlo fosse un reato. Sa perché l’arrestarono? Perché dicono che abbia tamponato quattro auto nel’isola pedonale di questo paese. Io, che non mi sono mai mosso di qui, che qui vivo liberamente facendomi tutte le canne che voglio, non ricordo alcun tamponamento due anni fa. E in un’isola pedonale, poi! La verità è che l’hanno arrestato perché era anarchico, perché voleva raddrizzare il mondo storto. E quando uno vuole raddrizzare il mondo storto, parla e magari qualche volta grida contro il mondo storto, viene facile o viene comodo crederlo pazzo. Gli anarchici in questo Paese non hanno mai ricevuto un buon trattamento. Lo dice anche un vecchio e noto cantautore, molto ascoltato dai giovani di oggi. Siete omertosi, voi giornalisti quando c’è da scoprire verità nascoste, omertosi! Ma lo sa che cosa gli hanno fatto al maestro alto? L’hanno rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Dico: rinchiuso, non ricoverato. Gli hanno legato polsi e caviglie alle sponde del letto per tre giorni e l’hanno fatto morire. Viviamo in un paese democratico o nel Cile di Pinochet? Mi sta bene il servizio sul Sindaco pescatore, ma non lasciate che certe morti strane cadano nel dimenticatoio”. La storia è importante, ma sono venuta qui per scrivere d’altro. Prometto all’uomo col sombrero, che continua a fumare nervosamente e a dare le spalle al mare, che proporrò al mio direttore di lasciarmi fare un’inchiesta sul maestro alto due metri. Prima di partire per la Calabria, dove un’altra storia triste mi attende, giro per il paese nelle ore infuocate del pomeriggio. Comincia a soffiare il maestrale, che muove il mare colorandolo di luce accecante. Rinfrescherà. È tempo. Accendo il  computer: ce ne sono di notizie sul maestro anarchico morto in un letto di contenzione e trovo tutto vero quello che mi è stato appena raccontato. Mi metto poi a chiedere notizie del soggiorno di Hemingway nel paese, tanti anni fa; e se c’è qualcuno, ancora vivo, che può darne conferma. Si dice che si sia ispirato a un pescatore del luogo per scrivere Il vecchio e il mare. Dall’ombra sotto le tende mobili dei bar ricevo per risposta sguardi come di chi chiede: “Ma che vuole questa qui?” Io so un’altra storia al riguardo. La storia di Gregorio Fuentes, detto Goyito. Un pescatore cubano, originario delle Canarie, che aveva centoquattro anni quando è morto con il suo inseparabile Cohiba tra le labbra. Era lui il vecchio cui Hemingway si è ispirato. Era lui il Santiago del romanzo. E lo dice uno scrittore fededegno come Luis Sepùlveda. Santiago, un altro uomo di mare che si trascinava dietro la propria dignità. Come il Sindaco pescatore, finché ha potuto. Come il Sindaco pescatore, sino alla fine.
Non  sono mai stata in Calabria. Ma non mi sfuggono le stesse contraddizioni di altre regioni del sud che conosco: un paesaggio incantevole imprigionato nei labirinti di inefficienze secolari. La Salerno-Reggio Calabria, che percorro, sempre nell’agenda dei governi come opera da completare. La natura è splendida, selvaggia in certi luoghi. Ma quando vedo la mano dell’uomo – sotto forma di cemento o d’altro, di un’autostrada sospesa nel vuoto di immensi baratri senza fondo – ho la prova qui come altrove, qui di più che altrove, che il paese ideale in cui ancora caparbiamente nutro speranza appartiene solo al sogno, ai miei sogni. Un collega di Calabria Ora, memoria storica dei fatti di ‘ndrangheta, è il mio Virgilio. “Un giorno può darsi che mi ricambi il favore”, dice ridendo. E mi porta nei pressi del paese dove nell’estate del 1991  è stato ucciso, con due colpi di fucile sparati da sicari su una moto, un giudice di specchiata rettitudine. Siamo sulla strada provinciale che porta a Villa San Giovanni. Il giudice era in vacanza in quei giorni. E tornava dal mare, solo e senza scorta. “Storie sempre attuali – dice il collega di Calabria Ora. – Riguardano Riina, Provenzano, Santapaola. L’omicidio fu un favore che la ‘ndrangheta fece ai vertici di Cosa Nostra. È quanto dichiarano i pentiti. Il giudice stava preparando l’opposizione ai ricorsi in Cassazione dei mafiosi condannati nel maxiprocesso. Prima tentarono di corromperlo, inutilmente. E allora…”. “Come vanno qui ora le cose?” chiedo. Il collega allarga le braccia: “Qualcosa cambia, potrebbe cambiare. La società civile s’è svegliata. E questo è importante. Ci sono soprattutto dei procuratori davvero coraggiosi. Decisi a combatterla sul serio la ‘ndrangheta. In questi giorni, poi, si torna a parlare, ne parlano i pentiti, di altre storie degli anni novanta. Di navi piene di veleni radioattivi affondate nel nostro mare, di altri rifiuti della stessa natura tumulati nel cemento delle gallerie. E ora la nostra attenzione è tutta rivolta agli alberghi calabresi. Dove sono alloggiati i migranti sbarcati a Lampedusa. Alloggiati, per modo di dire. Perché, pur spendendo lo Stato  quarantotto euro al giorno per ognuno di loro, godono di servizi carenti. Hanno sperimentato questo sistema con i terremotati dell’Aquila e ora l’applicano ai migranti. E il bello è che né i sindaci dei paesi interessati né il prefetto sono stati informati dell’arrivo e della permanenza negli alberghi di questi poveri figli della fame e della guerra. Ci sono tra di loro i ragazzi nigeriani che viaggiavano sul barcone nella cui stiva sono stati trovati venticinque cadaveri”.
Ritorno a Roma per incontrare Rosanna, la figlia del giudice. Quando lo uccisero aveva sette anni. E lo apprese dal telegiornale. La stessa cosa accadde al figlio tredicenne di Robert Kennedy. Seppe in diretta dell’omicidio del padre e non si riprese più dallo shock. La vita preparava per lui un futuro che lo vedrà morire d’overdose. Rosanna ne ha per tutti: per lo Stato, che ha dimenticato suo padre; per i colleghi che l’hanno tradito; per la giustizia che gli è stata finora negata. Ha costituito una Fondazione, intitolata al padre, di assistenza gratuita sia psicologica che legale ai familiari delle vittime di mafia. Mi ricorda un’altra storia quella di questa ragazza elegantissima, vestita di nero e più o meno della mia età. La storia, ancora più lontana nel tempo, di un’amica di Padova. Anche lei è cresciuta senza il padre. Anche lei ha conosciuto lo stesso dolore. Il dolore di chi sa, crescendo, che delle bestie armate di pistola o di fucile ti hanno distrutto l’infanzia, ti hanno segnato per sempre la vita. Oggi Silvia ha quarant’anni e fa la giornalista, come me. Ha pubblicato da poco un libro. Ma “senza rancore:  solo per capire”, ha detto in un’intervista. Capire i fatti e la follia degli anni di piombo. Suo padre era un militante del Msi. Suo padre e un altro militante di quel partito furono le prime vittime del brigatismo rosso. E lei aveva solo tre anni. Ma la sofferenza più grande questa donna l’ha provata quando ha visto Elena Ruberti nominata consulente di un ministro del governo di centrosinistra. “Passino pure – diceva – le protezioni di cui il terrorismo rosso ha goduto in un primo momento rispetto a quello di destra vicino ai servizi segreti deviati. Ma questo no! Non posso accettare di vedere le luci della politica accese su un’assassina, sull’assassina di mio padre”. Ho letto il libro di Silvia. Me lo ha mandato con una bella dedica: “A Piera Fucini, al suo certo avvenire da giornalista”. È un libro che fa piena luce sulla nostra città di allora. Sul clima di intimidazione e di violenza che si viveva a Padova. Il giudice Melfi, osannato quando perseguiva l’estrema destra, Freda e i suoi amici; e accusato di fascismo quando volgeva le sue attenzioni, le attenzioni della legge ai “cattivi maestri” della sinistra e ai loro discepoli. Storie di un’Italia che quando non soddisfa le aspettative di verità e di giustizia dei familiari delle persone ammazzate lascia nei loro cuori solo una sconfinata amarezza. C’è un passaggio della lunga intervista a Rosanna, la figlia del giudice ammazzato nel 1991 mentre tornava dal mare solo e senza scorta, che non posso fare a meno di riportare in questo racconto del mio primo lavoro da professionista. Quello in cui denuncia con fermezza che nelle carte processuali ci sono i nomi dei killer del padre. “I mandanti sono stati processati e assolti, purtroppo. Ma i killer chi li protegge se ancora oggi nessuno cerca di processarli?”
Alcune associazioni impegnate contro la ‘ndrangheta le sono molto vicine e sostengono la sua Fondazione. Ma lo Stato, quello non c’è. Trovo finalmente il tempo di aprire il giornale di oggi. C’è il mio primo articolo da professionista: con le foto del Sindaco pescatore e della moglie; e con quelle del porto del paese e del mare, bandiera blu di Legambiente. Domani o dopodomani i lettori troveranno la mia firma sotto quest’altro articolo: il racconto di un delitto eccellente di vent’anni fa ancora impunito.

 

PS: i fatti sono reali. I nomi (non tutti) di fantasia.

(scritto nel 2011)