Al momento stai visualizzando L’ultima mano (Sulla collina di Santa Brigida)

Sabba

I miei cugini abitavano alla cascina di Santa Brigida, sulla punta della collina, appena dietro la cappelletta dedicata alla Santa, e di tutta la loro famiglia uno in particolare mi aveva sempre colpito: il più giovane, un ragazzone grande e grosso che parlava poco o niente. Mi faceva un po’ di paura, ma era forse quella paura che la campagna, con le sue leggende antiche, fa spesso alla città, che vorrebbe trangugiare, per dimenticarlo, tutto quello che è stata la nostra vita di un tempo.
Una volta che, una mattina presto, salivamo, io e mio nonno, alla cascina per prendere il latte, gli chiesi:
«Come mai che nostro cugino non parla mai?»
«Perché ha visto le streghe» borbottò mio nonno.
«Cosa vuoi dire, nonno?»
«Ho detto che è così perché ha visto le streghe».
«Bella roba. Questo lo dicono un sacco di persone, in paese»[1. Il riferimento è al modo di dire piemontese “vëdde le masche” (vedere le streghe), che si usa, metaforicamente, per intendere “provare un fortissimo dolore fisico”.].
«No. Tuo cugino ha visto veramente le streghe. È successo un sabato di parecchi anni fa, nel pianoro dove passiamo anche noi poco prima di arrivare sulla punta della collina di Santa Brigida. Ha visto un’assemblea di stregoni e di streghe. E forse perfino il diavolo…».
«Ma tu… tu come fai a saperlo?»
«Me l’ha raccontato suo padre, che era l’unico in cui lui avesse fiducia e gliel’aveva raccontata tutta, quella storia».

Saliamo ancora per un po’ senza parlare, ma pensando tutt’e due alla stessa cosa, a tal punto che, proprio mentre io mi giro per parlargli, mio nonno mi fa:
«Tu oramai sei abbastanza grande da poter sentire la storia di tuo cugino, adesso; e poi sei anche l’ultimo maschio della nostra famiglia, e allora… Ascolta.
Saranno stati un bel po’ di anni fa e tuo cugino, che non è mai stata una persona di molte parole, ma che allora chiacchierava un po’ più di adesso, scese un sabato sera a farsi una partita a carte all’osteria dello Scudo di Francia, a metà della costa di Santa Caterina, già più vicino alla parrocchia di San Lazzaro che non alla nostra, e lì una mano a tressette e un bicchiere di vino, una mano a tressette e un altro bicchiere, alla fine, solo dopo essersene fatta una bella scorta, si è incamminato verso casa sua, a Santa Brigida. E sembrava proprio bello allegro. Arrivato al pianoro che ti ho detto, vede una luce verde-oro che ballonzola in mezzo agli alberi e sente un coro di voci che cantano una canzone da ballo e un rumore di baldoria che fa piacere a sentirlo. Lui, che si era presa già una bella sbornia ma che pensava di poterne reggere ancora un po’, sperando di farsi ancora un bel bicchierozzo, si avvicina a questa banda di donne e di uomini e, senza nessun timore, chiede di poterne bere un mezzo litro «tanto da lucidarsi un po’ le budella», dice. E così, tra risate e urla, salta fuori un omaccione nero di capelli e scuro di pelle, che fa a tuo cugino:
«Perché non ce le lucidiamo insieme, le budella, io e te? Un bicchiere a testa fino a che uno dei due non ce la fa più. Va bene?»
«Va bene, andata» gli risponde lui».
E così incominciano a sbevacchiare: uno tu ed uno io, uno tu ed uno io, di un vino che, almeno a sentire lui, non ne aveva mai assaggiato un altro uguale, tanto era buono e raffinato. E tuo cugino si fa sempre più forza ogni minuto che passa, anche perché il bere non gli fa nulla, se non un mezzo giramento di testa all’improvviso, ma poi basta. A questo punto quell’uomo vuole sfidarlo per vedere chi dei due ce la fa ancora a tracannarsi una bottiglia intera: guai a chi rifiuta. E in più una scommessa: o bere ancora questa bottiglia o pagare tutto quello che si era scolato quella sera nel buio di quel pianoro. E poi non basta:
«Anche una mano a tressette? – fa l’uomo – Guarda che io non sono tanto abituato a perdere e quando vinco mi prendo tutto di colui che ha perso». E a questo punto comincia a dare le carte.
«Ma queste sono le carte delle fattucchiere» gli dice tuo cugino «tutti scarti da picche!»
«Sei già tu uno scarto. Gioca e sta’ zitto».
Poco da fare, bisogna sopportare anche questa. E tuo cugino, con in mano la sua brava bottiglia e le carte nell’altra, vede che una di quelle streghe (proprio una bella ragazza, che assomigliava tanto a Rita, a cui tuo cugino stava dietro; non fosse che Rita era bionda e questa invece bruna), una di quelle streghe appunto lo guarda fissa negli occhi con un sorriso affascinante di due labbra rosse come lamponi e lui… eccolo lì… gli cade di mano la bottiglia e va a spaccarsi su di una roccia appuntita lì vicino.
«Adesso tu devi pagare tutto il vino che hai bevuto questa notte; e me lo pagherai con la tua animaccia di ubriacone!»
Ma tuo cugino, che specialmente da mezzo ciucco aveva abbastanza coraggio, salta addosso a quell’uomo, gli strappa di mano la sua bottiglia e la manda in mille pezzi facendola spaccare su di un’altra roccia lì vicino. E poi butta anche a stamparsi su quella roccia le carte, che subito prendono fuoco.
A questo punto… via… scappa pancia a terra con dietro le urla di quella banda sghignazzante. Arriva vicino alla cappella di Santa Brigida, si arrampica sul tetto – sai che lì c’era sempre una scaletta appoggiata – e si stringe alla croce di ferro, fino a che arriva la domenica mattina. Sceso giù di lì e andato a casa, non è mai più uscito di sabato notte: metti mai gli chiedessero di pagare ancora tutto quel vino che aveva trincato. Non solo, ma era talmente grande la paura che chi incontrava potesse chiedergli di saldare quel debito, che ha preso la decisione di non parlare più a nessuno, tolti i suoi parenti più stretti. Comunque io sono sicuro che si è sognato tutto, tanto era ubriaco».

Nel frattempo arrivammo al pianoro delle streghe ed io guardo di sottecchi il posto e la roccia dove era avvenuta la partita e dove le carte gettate da mio cugino si erano incendiate; allora mio nonno, che capisce che non sto nella pelle di andare a guardare da vicino, mi dice:
«Proprio solo una scappata in fretta, eh!»
Ed io corro vicino agli alberi e vedo una roccia che sembra tutta abbrustolita, un po’ sbrindellata sulla punta e con dei segni come incisi sulla superficie della pietra. Girandomi verso mio nonno e mentre mi sembra di vedere la faccia di mio cugino di Santa Brigida gli mostro col dito una buffa (ma riconoscibilissima) incisione:
«Nonno. Nàpola e tre des!»[2. Si tratta di una “dichiarazione” (in piem. “acus”, cioè “accusa”) del gioco del tressette: Dieci, Asso, Nove dello stesso seme più gli altri tre dieci.]

Dissolvenza… A questo punto la storia del ragazzino che andava a spasso per le colline del Marchesato di Saluzzo insieme a suo nonno e ascoltava da lui la storia delle streghe e di suo cugino di Santa Brigida passa a raccontarci dello stesso che, cresciuto, ha studiato e si è perfino laureato. Insomma, ha vissuto una vita abbastanza normale, fino al giorno in cui…

«Venga, venga pure avanti, dottore; aspettavo solamente lei». La signora Olga lo prese per una mano e lo condusse nel salotto, facendogli sfiorare tutta una sfilza di soprammobili, di aspetto e di forma differenti, tutti ben appoggiati in ordine di altezza e con la polvere tolta con grande cura.
«Mia cugina Livia e sua figlia Marta; la mia amica Elsa e… la signora Ghita, la nostra amica più preziosa di oggi… insieme a lei, dottore, si capisce…». Gli presentò questo gruppo di befane: una coppia di signore di mezza età, una ragazza discretamente giovane e ben fatta, con gli occhi verdi ma pallida come una morta, e un vecchio baule di una signora di età indefinibile, compresa comunque tra gli ottanta e i novanta.
Il dottor L. si trovò immediatamente fuori posto, preso in mezzo a tutte quelle presentazioni, a quei nomi che si appoggiavano uno sull’altro e che faticavano ad accoppiarsi con visi, mani ed abiti di quelle donne lì presenti.
Fece per sedersi sulla sedia più vicina alla ragazza, che gli sembrava, senza dubbio, la sola che potesse fargli agitare il sangue e giustificare la sua presenza in quella congrega di carampane, ma Olga gli segnalò il divano.
«Qui, si accomodi, qui, dottore, si accomodi vicino a me e… proprio di fronte alla signora Ghita: i nostri due ospiti d’onore uno in faccia all’altra!»
Nella sua testa la mandò a farsi benedire, ma comunque le fece il suo più bel sorriso e si sistemò sul divano – ahilui – troppo basso per le sue ginocchia (che rischiavano di finirgli in bocca ogni volta che si muoveva), ma adesso era troppo tardi per rifiutare l’invito.
«Sediamoci pure di fianco alla signora; consoliamoci col fatto che così posso guardare le gambe alla ragazza» pensò tra sé e sé, mentre annuiva alla padrona di casa («Con una briciola di latte, il caffè. Grazie»).
«E lei, mi scusi, di che cosa si occupa, dottore?». È la cugina che inizia l’interrogatorio.
(«Degli affari miei» pensò) «Faccio ricerche di cultura popolare… antropologia e studi del genere, solamente che…»
«Ma allora noi facciamo proprio al caso suo, dottore – aggiunge l’altra amica – pensi che soprattutto la signora Ghita (ma anche noi, comunque, nel nostro piccolo) è proprio un pozzo di conoscenza… una sapiente, davvero una gran sapiente. Pensi che conosce una gran quantità di leggende, di storie, di racconti…»
Un’occhiata di Olga le chiuse d’un fiato la bocca e allora Elsa, seccata, si mise a guardare fuori della finestra, neanche ci fosse uno spettacolo assolutamente straordinario.
«Sì, pensi che ai tempi del re Vittorio Amedeo secondo, io ho visto…»
«Re Vittorio Amedeo?» Va bene non conoscere troppo bene la storia, ma proprio a questo livello, di prendere un secolo per un altro: avrà voluto dire Vittorio Emanuele.
«Mia cugina vuole scherzare o si è confusa: voleva dire re Vittorio Emanuele terzo, non è vero?».
«Se lo dici tu… ma a me sembra proprio Vittorio Amedeo, secondo o terzo, il numero forse non lo ricordo troppo bene, ma il nome è quello: quello che è stato anche re, mi pare, della Sicilia…»
«Smettila, una buona volta!… non te ne accorgi che con le tue storie annoi il dottore, che avrà ben altra voglia che stare ad ascoltarti parlare a vanvera».
«Ma io…»
«Zitta!»
«Ma…»
«Zitta!»

Mentre le tre signore bisticciavano tra di loro, lui si dedicò alla ragazza, l’unica ragione che in quel momento (diciamolo pure chiaro e netto) lo teneva seduto su quel divano.
«Ma lo sa, lei, che assomiglia a ***?». Le dice lui, tanto per incominciare il discorso con l’accenno ad una delle attrici più famose del nostro tempo.
«Ah! sì? – dice lei, con un’aria come se lui le avesse chiesto di tracannare una coppa di veleno – pensi che altri invece mi hanno messo a confronto con ***». E qui il nome di un’altra attrice altrettanto famosa.
«Sì… già… forse… può darsi… per quanto, tra *** e lei, signorina, c’è, come avrebbe detto mia nonna, come tra una bignola e una m***a…Voglio dire: la bignola comunque è lei, signorina».
«Ma lei, dottore, fino a dove vorrebbe arrivare?… coi suoi complimenti, intendo»
Le tre befane, frattanto, erano passate a discutere di quanto aveva fatto di buono per il loro paese il re, anche se non si capiva bene quale re fosse.
«Fino a dove mi dirà lei, signorina». Gli piaceva proprio flirtare così con quella bella ragazza. Era poi una delle maggiori soddisfazioni, per di più, il pensare che quelle quattro (tre che bisticciavano e una che, silenziosa, guardava nel vuoto) non capivano un accidente di lui, dei suoi studi, del suo senso dell’umorismo, della sua finezza nel fare il filo alla più giovane del gruppo. Povere stupidelle che pensavano che lui fosse lì per godersi la loro compagnia e le loro scaramucce. Povere imbecilli che vivevano nell’illusione che lui sprecasse il suo tempo con loro quattro.
Fortuna comunque che c’era quella ragazza, che lui, appena vista, aveva pensato che da sola valesse la spesa di un pomeriggio passato con quella compagnia del malaugurio.
«Ma lo sa lei, dottore, che al nostro paese ci sono le streghe?»
«Siiii, le streghe… le balle» pensò tra sé mentre nella realtà, con la sua più bella espressione, diceva loro:
«Ma dice davvero, signora Olga?»
«Già, certo!». Sottolineò la signora Elsa.
«Sì, ma bisogna poi anche pensare che un po’ in tutti i paesi del Piemonte c’era la diceria delle streghe e…»
«No, no, no. Al nostro paese le streghe c’erano, davvero. E ci sono ancora adesso».
«Eccoli qui i soliti paesani buzzurri che pensano che solo quello che c’è o che si fa al loro paese è bello, giusto, buono, santo». E mentre pensava ciò e stava per dire qualcosa di veramente definitivo a quella banda di befane, loro si mettono di nuovo a discutere e a stuzzicarsi sostenendo, ciascuna per parte sua, che la cognata di Mini era una strega più cattiva che non la cugina di Malin o la moglie di Tancio.
(«Approfittiamo dell’occasione» pensò e…)
«E lei, signorina, di cosa si interessa? Voglio dire: come passa il suo tempo libero?»
«Studio… archeologia».
«È per questo, allora, che apprezza questa compagnia» pensò lui con un brivido intellettuale e una briciola di dispiacere per non poter dire questa battuta ad alta voce.
«E nel tempo libero ho parecchi hobby, ma principalmente uno, più di tutti».
«Sarebbe?»
«Il ballo. Anche se non mi dispiace neppure fare qualche partita a carte o, meglio, vedere gli altri giocare».
«Allora potremmo forse combinare. Non a carte, sicuramente, che solo a pensarci mi viene il nervoso addosso, con tutte le partite che ho dovuto fare da ragazzino per accontentare mia nonna, povera donna, che era una fissata; ma a ballare si potrebbe fare. Cosa ne dice, lei?»
Le befane frattanto erano passate a raccontarsi di quando Giacolin di Neta aveva visto…
«Andare a ballare, lei dice? veramente non saprei se…»
«Lei ha forse un fidanzato che non vuole, per caso?»
«Proprio un fidanzato no, ma…»
«Un amico del cuore, allora?»
«Per dirglielo chiaro e tondo è un ballerino, con cui mi trovo davvero bene a ballargli insieme e… niente di più».
«E lui non vuole che lei balli con altri».
«Per essere sincera… costui è un ballerino un po’ fuori dell’ordinario, che balla non solo con me ma sovente anche con altre. Ed è, francamente, proprio il fatto che balli anche con altre che me lo rende assolutamente affascinante».
«Io le donne non le capirò mai – pensò lui – ce ne sono di quelle che ti minacciano di strapparti il cervello dalla testa se solo ti arrischi a guardare un’altra gonna che passa lì vicino e ce ne sono altre, invece, che non solo non gliene importa nulla ma addirittura sembra che abbiano perfino piacere se si butta l’occhio su tutte le sbarbatelle che camminano per la strada».
«Lei, dottore, da dove proviene? Voglio dire, che parte del Piemonte?» La discussione si era alquanto calmata e la padrona di casa era ritornata a fargli l’interrogatorio.
«Di Torino. Sono un cittadino, e me ne vanto». Essere stato interrotto mentre faceva il filo all’unica donna accettabile in quel salotto l’aveva proprio disturbato; e così aveva risposto con una briciola di malumore di fronte a quelle grinte.
«Strano. Dal modo di parlare avrei detto che fosse anche lei della provincia Granda[3. Modo tradizionale per indicare la provincia di Cuneo.], non è vero?»; così sentenziò Livia.
«In effetti… la mia famiglia… il mio bisnonno…». Non voleva ammetterlo, che queste quattro bagasce trovassero in lui qualcosa di comune con loro e perciò potessero avere la scusa per un interrogatorio ancora più stringente e approfondito.
«Sì. Il dottore ha le sue radici a ***». Tutti si girarono a guardare la signora Ghita, che non aveva ancora parlato, ma che aveva trovato la maniera di rompere il vetro del suo silenzio con un’affermazione che li lasciò tutti stupefatti, specialmente lui, che a questo punto non poté negare.
«È proprio così. Ma come fa saperlo lei, signora?» Ma la signora Ghita si era nel frattempo messa a raccontare alle altre di quella volta che sua suocera aveva portato le mucche al pascolo e poi…

«E poi deve proprio scusare tanto la signora Ghita, ma… alla sua età… essere un po’ strampalati è appena la regola. Piuttosto, venga di nuovo a trovarci. Noi ci incontriamo, qui da me, tutti i mercoledì e ci farebbe tanto piacere se anche lei…»
«Potrebbero farmene di inviti – pensò lui – se non fosse per quella ragazza».
«Certamente tornerò, signora, può contarci. Adesso però devo veramente andare via… sa, i miei impegni…»
Mentre le signore combinavano chissà cosa tra loro, lui ne approfittò per avvicinarsi alla ragazza e bisbigliarle in un orecchio:
«Posso telefonarle e magari combinare, che ne so, per sabato sera?»
«Neanche per sogno. Il sabato sera mai, assolutamente. Non posso proprio. Comunque, mi telefoni pure che io… (con un sorriso malizioso) non mi disturba per niente».
«Buona sera a tutte le signore. Signora Ghita, al piacere di rivederla».
Che respiro di soddisfazione con la porta chiusa dietro le sue spalle.

Un po’ per la gioia del rischio appena scampato, un po’ per la felicità che gli aveva dato l’aver conosciuto quella ragazza, ma quella sera si era concesso il regalo di una cena un po’ diversa dal solito in una delle migliori trattorie della città e così, a causa probabilmente della bottiglia di nebiolo che si era centellinato senza fretta, apprezzando ogni stilla che si scioglieva, avrebbe quasi voluto pensare, sulla superficie della sua lingua, andò a dormire che non ne poteva proprio più dal sonno. Vedeva solamente il letto e infatti non dovette neppure, per addormentarsi, così come faceva quasi ogni notte, leggere qualche pagina di un libro che doveva recensire per una rivista di antropologia culturale, ma il sonno gli giunse di per sé, morbido, leggero, candido, coma la foschia d’ottobre sulle colline e sui filari di nebbiolo («tanto per rimanere in argomento» aveva ancora fatto in tempo a pensare).
«Siiiii, le streghe… il nostro paese è sempre il migliore»; questo uno degli ultimi suoi pensieri prima di crollare nelle braccia di Morfeo e sul cuscino dell’oscurità.
La prima immagine fu quella di suo nonno. Lo vide con gli stessi occhi di quando lo osservava da sotto in su in quegli anni, ormai da troppo tempo passati, quando andavano tutti i giorni d’estate a prendere il latte alla cascina dei suoi cugini, sulla collina di Santa Brigida. Il fascino del sogno consisteva completamente, in fin dei conti, in questo: guardava suo nonno con gli occhi di allora, ma con la coscienza di oggi pensava, sempre nel sogno, che il nonno non poteva più, ovviamente, essere così, poiché era ormai morto, e da un pezzo. Il nonno lo guardava e gli faceva segno di muoversi, di sbrogliarsi, di darsi da fare, perché la punta di Santa Brigida non era certo lì, dietro l’angolo, e il sole stava già per allontanarsi…
«Ma se ci andavamo sempre alla mattina presto. Cosa c’entra, adesso, il sole che sparisce…» fece appena in tempo a pensare, prima di uscire da quel sogno ed entrare in un altro.
Questa volta vedeva l’aia della cascina di Santa Brigida e suo cugino, proprio quel cugino che aveva avuto (così come raccontava lui) l’incontro con le streghe, stava in piedi, di fronte alla stalla, con il cappello in testa e vestito da festa, esattamente come lo ricordava lui, con le maniche della giacca sempre troppo corte e il nodo della cravatta sempre troppo piccolo. Insomma, suo cugino di Santa Brigida che iniziava parlando sotto voce, quasi un bisbiglio, e poi via via più forte fino a che arrivava ad urlare, ma le parole erano sempre uguali: «Tu non ci credi, ma le streghe ci sono, le streghe ci sono, le streghe ci sono». E la sua immagine si faceva via via più grande, e più grande, e ancora più grande, fino a riempire tutta l’aia, e poi copriva la cascina e sventolava via verso le altre colline lì intorno.
La scena cambiava ma lui era sempre chiuso a chiave in un sogno, un sogno che cambiava di scenario e di personaggi, ma che aveva sempre lui come protagonista “esterno”, quello cioè che guardava da fuori il sogno, ma al quale gli altri personaggi rivolgevano la parola.
Adesso il quadro era riempito dalla figura della signora Ghita, proprio quella vecchia che sembrava, quel pomeriggio, dover essere il perno di tutte le discussioni e di tutti gli interessi delle altre signore.
«Il nostro paese è talmente fuori dall’ordinario che è l’unico paese del Piemonte in cui si dice ancora, per intendere le due del pomeriggio, stuciava, pensi, dal latino hac hora octava».
«Più probabilmente da ista (hora) octava»; le diceva lui nel sogno, mescolando così un frammento di una discussione, che aveva avuto qualche giorno innanzi con un signore che conosceva di vista, con la figura della signora.
«I soliti buzzurri – pensava poi tra sé, sempre nel sogno – che sono convinti che il loro paese sia l’unico, il solo, speciale, straordinario, diverso da tutti gli altri……»
Ma come mai un pezzo di quella conversazione, accompagnato per di più anche dai pensieri che aveva avuto in quel momento della discussione, si mescolava con la figura di quella vecchia balorda? E, per di più: come insisteva, la vecchia, nel sogno!
«Si dice così. Si dice così. E che non si sogni di discutere e di contraddirmi!»
Invece stava proprio per risponderle a tono quando, per fortuna, si svegliò.

Prese l’occasione di una telefonata di sua zia («Sembra quasi che tu non conosca neanche più la strada per venirmi a trovare…») per fare una scappata al paese della sua famiglia; e non solo, ma, visto che sua zia aveva insistito, ne approfittò per fermarsi un paio di giorni, restando a dormire da lei.
La mattina del sabato, svegliatosi di buon’ora, fece finta di pensarci su (ma, in effetti, era una decisione che il suo subcosciente aveva preso già da parecchio) e poi disse alla zia che, vista la bella giornata, avrebbe fatto un giro a piedi fin sulla collina di Santa Brigida, scendendo poi dalla parte di ***; dopo di che, mangiato un boccone a pranzo da qualche parte, sarebbe ritornato in tempo, se lei volesse, per accompagnarla da una sua amica e poi a messa («Mi piace di più quella del sabato sera – diceva lei –, perché non sembra che ci si voglia far notare, come alla domenica, da questi quattro buzzurri»).
Si era quindi incamminato subito dopo colazione, facendo attenzione a ripetere la stessa strada di allora, e col calore nel cuore a ricordarsi della sua mano in quella di suo nonno, che adesso lui si immaginava d’aver vicino e che gli rivolgeva nella sua testa le parole che probabilmente gli aveva indirizzate allora. E così, allo stesso modo, sentiva cigolare il secchiello del latte, proprio quello di metallo che lui portava con sé in quei giorni lontani.
Arrivato, sempre riflettendo tra di sé e rovistando tra i ricordi che quasi ogni cespuglio lungo quella strada gli risvegliava, arrivato al pianoro dove, come suo nonno gli aveva raccontato, suo cugino aveva visto le streghe che ballavano il sabba per far festa al loro signore, Belzebù, si avvicinò con un po’ di batticuore a quelle rocce dove, ragazzino, aveva creduto quella mattina di vedere – gli veniva ancora una briciola di commozione a pensarci – i segni delle carte infernali che, gettate per aria dal diavolo per la rabbia d’aver perso, si erano stampate lasciando, a causa del fuoco infernale, la loro incisione sulla superficie della pietra («Nonno. Napula e tre dieci…»: così aveva gridato quella mattina della scoperta). Adesso però i suoi occhi non erano più, purtroppo, i medesimi di allora e così, con un bel po’ di stizza, doveva ammettere che su quelle pietre si vedevano buchi e macchie di licheni, ma incisioni… nulla. Nessuna incisione di nessun tipo: davvero gli occhi – e il cuore – di un bambino vedono delle cose che poi, via via che gli anni passano, si sciolgono ogni momento di più e prendono dei contorni e delle sfumature sempre più razionali e certe, al di fuori di ogni immaginazione e fantasia.
Dopo tutta questa ricerca il batticuore gli era sì passato, ma la gioia-delusione della non-scoperta aveva fatto sì che si accorgesse, a questo punto, di essere proprio stanco, sia per l’essersi alzato presto che per la strada, davvero faticosa, che aveva percorso. Si sedette, quindi, alla buona, anzi, si appoggiò piuttosto, a quelle rocce e si mise a pensare a come, nonostante i molti anni, non fosse quasi per nulla cambiata – una combinazione – la scena che si stendeva davanti ai suoi occhi.
Le sue riflessioni si bloccarono di colpo quando vide una coppia, quasi certamente marito e moglie, già anzianotti, che, un cestino ciascuno in mano, davano tutta l’impressione di essere andati per funghi. Questa osservazione si rivelò subito giusta, perché i due, avvicinatisi e scambiati i saluti, gli offrirono di comprare qualche fungo appena trovato («Mi dispiace veramente, ma io i funghi non li ho mai potuti soffrire, tanto cercarli che mangiarli!»). Tuttavia i due presero al volo l’occasione per fermarsi a chiacchierare e a lui, che di solito non sopportava, anzi gli davano proprio sui nervi quelli che ogni occasione è buona per attaccare bottone e parlare, questa volta invece ciò non diede poi tanto fastidio. E così il discorso prese la direzione di “come è cambiato il panorama della campagna in Piemonte” e di come, al contrario (ma era proprio un’eccezione), “il saccheggio dei boschi avesse per fortuna risparmiato, da quelle parti, quelle poche colline” che facevano cerchio al paese ancestrale della sua famiglia. A questo punto, però:
«Sarà anche vero – gli disse il vecchietto – ma comunque non proprio del tutto. Pensi che proprio qui, saranno sette-otto anni fa, volevano impiantare un allevamento di pulcini, proprio sulla cima della collina di Santa Brigida. Poi non se ne è fatto nulla, ma intanto, pensando ai camion che dovevano salire lassù, per allargare il passaggio hanno addirittura spostato la strada, che una volta, proprio qui dove siamo noi ora, girava di là, mentre adesso…»
«Vuol dire che questa curva…»
«Già. È girata al contrario rispetto ad un tempo, adesso. Prima era così e poi è diventata così». E accompagnò i due “così” con due gesti della mano destra a mostrare come la curva si fosse addirittura stravolta.
Salutati i due vecchietti, si guardò un momento intorno. Eh, già. A questo punto non erano sicuramente le “sue” rocce quelle che aveva esaminato prima (non si ricordava certo come fossero fatte, ma – di questo ne era sicuro – erano sulla destra rispetto alla strada), ma quelle altre che adesso si trovavano sulla sinistra della strada, che è vero che passava sempre – esattamente come trent’anni prima – nel mezzo del pianoro, ma non più (come gli aveva spiegato il vecchietto) nella medesima posizione di un tempo.
Si capisce che adesso non aveva più tanta voglia di andare a controllare anche quelle altre rocce, ma – d’altra parte – gli dispiaceva anche (come si dice) andare a Roma senza vedere il Papa (o aver fatto trenta e non fare trentuno).

Adesso era tutto diverso. Quelle incisioni sulla roccia: cesellate dal dito mignolo del tempo o dalle fate che vivevano su quella costa della collina o, ancora, dal fuoco sanguinante dell’inferno? Chissà, ma comunque ricordavano veramente tre serie di segni (in numero differente) e altre tre incisioni geometriche, due file laterali più lunghe e una in mezzo più breve di segni che sembravano dei piccoli cuori («Nonno – le sue stesse parole gli solcavano la memoria – Nàpula e tre dieci…!»).
Adesso stava scendendo dall’altra costa della collina e in un attimo («A scendere tutti i santi aiutano», gli diceva sempre suo nonno: come aveva ragione!) si ritrovò nella parte alta e antica di ***, dove si mise a cercare una trattoria, chiudendosi – pochi minuti dopo – dietro un tavolino del «Leon d’oro».
A bocce ferme, davanti ad un bel piatto di agnolotti ritornava ad essere padrone di se stesso, dimenticando quell’affanno che lo aveva spinto, urtante come una frustata, nello scendere dalla collina di Santa Brigida fino a ***. Sicuramente non potevano essere davvero delle incisioni, o almeno delle incisioni impresse in maniera cosciente dalla mano, o dal gesto, di qualcuno, ma dovevano essere solamente dei segni, rughe lasciate dal tempo sulla superficie di quella roccia screpolata da anni, da secoli, di vento, di pioggia, di soffi e scoppi di temporali e tempeste.
«Non ci pensi troppo su, ché tanto non cambia nulla». Girandosi verso questa voce bassa e piacevole che gli risuona sulla sua destra, vede un signore seduto anche lui ad un tavolino piccolino: i capelli ondulati, neri, baffi e pizzo nero-rossicci, quasi color sangue.
«Ma come fa, lei a sapere che io…»
«No, no, mi scusi, signore. Non che io sappia a cosa lei stia pensando, ma, a vederla così preoccupato in volto, ho subito pensato che lei avesse qualche pensiero. Così mi sono permesso di darle questo piccolo, e temo inutile, consiglio».
«Si capisce… già… si deve proprio vedere che ho dei pensieri che mi tormentano, ma, d’altra parte…»
«Non ci pensi troppo, come le ho già detto. Guardi me: gli affari da un po’ di tempo in qua non mi vanno come dovrebbero, ma tuttavia non mi lamento di niente. Qualcuno a cui piace giocare c’è ancora».
«Giocare. Alle carte, vuole dire?»
«Sì».
«Fosse solo per me chi fabbrica o chi vende mazzi di carte potrebbe anche chiudere bottega, e non me ne importerebbe assolutamente nulla. Ma, a lei dunque piace proprio giocare. E… gioca anche soldi?»
«Si capisce. Per quanto adesso, tra i video-giochi e internet e tutte quelle altre stupidaggini, sono sempre meno quelli che si divertono con le carte, ma, d’altronde, come le ho già detto, io non voglio certo lamentarmi».
«Fosse solo per me…» Stava per ripetere la sua convinzione sui giochi di carte, quando l’uomo si alzò, gli fece un cenno di saluto con la testa e poi, appoggiandosi ad un bastone dal pomo d’argento a forma di testa di cane, se ne uscì dalla saletta.
«Mah… ognuno alla sua maniera. Il mondo è bello anche per questo».
E così si concentrò nuovamente sugli agnolotti e sulla convinzione che a incidere quelle figure fosse stato il soffiare del vento e del tempo.

La domenica sera era ritornato a casa ed aveva immediatamente chiamato Marta:
«Ha visto che l’ho ascoltata e non le ho telefonato di sabato?»
«Ha fatto davvero bene, anche perché ieri sera io e le mie amiche siamo andate a ballare a ***».
«Ma c’è una sala da ballo in un paesotto come ***?»
«Io e le mie amiche ci accontentiamo anche di un posto non eccezionale. Basta che il ballerino ci sappia fare».
«Le credo sulla parola, anche perché il ballo non è tanto il mio campo. Comunque, io adesso vorrei…»
«Sì?»
«Vorrei chiederle di uscire con me. Potremmo andare a cena da qualche parte e poi, che ne so, al cinema o a teatro o a vedere la mia collezione di scatole di fiammiferi oppure ancora…»
«Molto volentieri; il fatto è però che in questi giorni io sono molto impegnata e…»
«Vogliamo fare domenica prossima?»
«Perché non piuttosto questo venerdì prossimo. Le va bene venerdì?»
«Si capisce. Dove e a che ora?»
«Se potesse passare a prendermi a casa mia…»
Fatto. Avevano combinato l’ora e lui passò quei pochi giorni vivendo in una sorta di dimensione quasi sovrumana, al punto che dovette, parecchie volte, frenare la sua fantasia che correva già perfino troppo, presentandogli delle immagini di lei certo molto piacevoli, ma che lui si sforzava comunque di far scivolare via.
La notte che precedette il giorno dell’appuntamento (quindi quella tra giovedì e venerdì) sognò sua nonna: seduta alla grande tavola della cucina, così come l’aveva vista centinaia di volte, con una tazza di caffé vicina a sé e un mazzo di carte appoggiato a fianco della tazza. A sua nonna, sì che piaceva giocare a carte. Tutto il contrario suo.
Sua nonna nel sogno gli diceva certo qualcosa, ma lui, una volta svegliatosi, pur con tutti gli sforzi mentali possibili e immaginabili non ce la fece a ricordarselo. Peccato. Di sicuro quelle befane amiche di Marta ne avrebbero ricavato chissà cosa e, probabilmente, perfino tre numeri buoni da giocare al lotto.

Venerdì sera. Le sette. Arriva a casa di Marta con un accenno di fiatone («Vorrà, prima di uscire, farmi salutare sua madre. Che barba!») e con un mazzo di fiori già pronti da mettere in mano alla madre.
«Ah, ciao. Ben arrivato. Io sono pronta in un attimo. Intanto, vieni di là nel salotto che c’è la mamma con le sue amiche».
Ecco quello che non avrebbe proprio voluto e invece gli toccava goderselo fino all’ultima goccia: la banda delle befane.
Già preparato per quello che lo aspettava entrò nel salotto, dove c’erano, messe quasi in ordine di rango, tutte e quattro: Livia, Olga, Elsa e Ghita. Tutte e quattro sembravano sull’attenti: testa alta, petto in fuori (e ognuna con la sua bella spilla d’oro appuntata davanti, quasi come una medaglia per un veterano) e piedi con le punte in dentro. Tutte e quattro con sulle labbra il loro sorriso più bello e tutte e quattro che, mentre lui le passa in rassegna, le saluta e sta per offrire il mazzo di fiori alla padrona di casa, aprono la fila e così gli permettono di vedere, seduto su di una poltrona di fianco ad un tavolino, proprio quell’uomo che lui aveva conosciuto nella saletta del «Leon d’oro» a ***.

«Il mondo è davvero piccolo, dottore. Lo vede che ci incontriamo di nuovo? abbiamo delle amicizie in comune, a quanto sembra. Ma che bei fiori che mi ha portato. Però non doveva disturbarsi così tanto, davvero».
«Le presento il nostro maestro, dottore». Gli fa Livia, mentre lui, sbigottito per la sorpresa, quasi senza accorgersene dà il mazzo all’uomo.
«Buona sera. Tanto piacere di rivederla. Credo, comunque, che le presentazioni formali siano superflue. Io so chi è lei e lei sa, almeno credo, chi sono io». La situazione in sé non è imbarazzante, ma lui si sente dentro un brivido, un “non-so-che” che lo fa tremare e sentirsi non del tutto padrone di se stesso.
«Si sieda vicino a questo tavolino, dottore. Lo sa, lei, che io ho già conosciuto, parecchi anni orsono, una persona della sua famiglia?»
«Davvero? E chi era? mio padre, mia madre, un mio zio…»
«No. Nessuno così vicino a lei. Un ragazzo di campagna – la sua voce continuava con un tono assolutamente dolciastro, pieno di sussiego – un suo lontano cugino, che abitava in una cascina, su di una collina. Qual era già? Santa Cristina, forse?». Dicendo ciò girò gli occhi verso di lui e solo allora egli si accorse che avevano un colore tra il verde e il rosso: una sfumatura che non aveva mai visto in vita sua.
«Credo che fosse Santa Brigida». Gli dice con la voce dello scolaro che chiede scusa al professore.
«Santa Brigida. Già. Proprio Santa Brigida. Ma lo sa, lei, che suo cugino ed io avevamo una partita a carte da finire?». Tira fuori da una borsa un mazzo nuovo di carte e lo posa sul tavolino di fronte a sé.
«Ma quel mio cugino è già morto da parecchio e…»
«Sì. Ed è morto senza aver più avuto il coraggio, in tutta la sua vita, di uscire di casa dopo il tramonto. Sa anche questo, lei?»
«Lo so. Me lo ha raccontato mio nonno tanti anni fa. Ma io cosa c’entro, in tutto questo?»
«Cosa c’entra lei in tutto questo? Si ricorda per caso anche dell’altro che le ha raccontato suo nonno? Solo i maschi della sua famiglia possono conoscere la storia di quel suo cugino. E lei è, guarda caso, l’ultimo maschio della famiglia».
«E questo allora vorrebbe dire che…» Fa un gesto per indicare il distribuire le carte e giocare.
«Proprio così. Vedo che lei è un ragazzo intelligente. Meglio così: sarà più piacevole sfidarla. Certo: tutto ciò vuol dire che quella partita con me la deve finire lei, e con la stessa posta».
«Il vino da pagare?»
«Il vino da pagare, ed anche un’altra, come a dire, quisquilia, davvero una quisquilia per un laico raziocinante come lei: mi ha capito?»
«Credo di sì».
Le donne si erano avvicinate ed avevano fatto cerchio intorno al tavolino; il dottore si era seduto, dopo aver gettato lo sguardo su Marta, che l’aveva guardato a sua volta come per dirgli «Vedi che razza di ballerino?!».
A questo punto non c’era altro da obiettare e il dottore fa un segno con la testa come a voler dire «Cominciamo pure». Poi, mentre si sistema un po’ più comodo sulla sua poltrona, manda un pensiero a sua nonna e a tutti gli afosi pomeriggi estivi passati, da ragazzino, a giocare a carte con lei.
«Allora, suo cugino, secondo me, aveva tentato di imbrogliare e quindi ritengo superfluo ricordarle che con me è meglio non provarci neppure, a meno che lei voglia passare il resto della sua vita senza poter uscire di casa dopo il tramonto. Ebbene, ecco la posta: se vince lei, il sorriso, e forse non solo quello, di Marta sarà il suo premio, ma se, invece, vinco io…»
«Se vince lei…»
«Se vinco io mi prenderò quella cosa a cui lei dà – ed è un peccato – perfin troppo poco peso».
«Allora avevo capito bene, lei vorrebbe dire…?»
«Già… Vorrei proprio dire».
Apre la scatola delle carte e si mette a mescolarle.
«Allora, visto che l’altra volta suo cugino è a tressette che ha cercato di imbrogliarmi, questa volta ce la giochiamo a scopa. Va bene?»
«Va bene. Partita ai ventuno. Vediamo chi fa le carte per primo».

La prima mano tutto bene per l’uomo. La seconda e la terza meglio per lui. La quarta di nuovo per l’uomo. L’ultima è quella buona: mancano, a tutt’e due, tre punti per fare partita. Lui ha dato le carte. L’uomo ha già una scopa.
Lui ha il sette bello in mano: ad un certo punto in tavola ci sarebbe tre e quattro sette, ma nel momento in cui sta per prenderlo una voce gli attraversa la testa. Sono le parole che sua nonna (adesso se ne ricorda bene) gli ha detto nel sogno: «Il “talon” – ricordati – tieniti sempre il “tallone”[4. Nel gioco della scopa si chiama così, in piemontese, la carta che prende tutto alla fine dell’ultima mano.]». Erano le parole che gli diceva sempre quando, ragazzino, giocavano insieme.
Ultimo giro: l’uomo deve buttare sette da picche. Sette bello lo fa lui e, insieme a questo, denari e primiera, le carte sono pari, l’uomo solo la scopa.

Quando la sveglia suonò, il suo primo pensiero, dopo aver respirato di sollievo al pensiero del brutto sogno della notte, fu quello di come sarebbe andata con Marta, quella sera; ma tuttavia, mentre si alzava sbadigliando, fece cadere dal letto, senza neppure accorgersene, un sette da picche e uno da quadri.

streghe


 

Leone Inaudi

Nato nel territorio dell’antico Marchesato di Saluzzo da una famiglia originaria della valle Maira, ma cresciuto ed educato a Torino nei ruggenti ’60, predilige la narrativa breve in italiano, in cui si presentano sempre tematiche e prendono forma figure legate in modo strettissimo alla sua terra. Tornato nei luoghi della sua nascita ed infanzia, per vivere è giornalista e collaboratore di alcune piccole (ma attive) case editrici. Non ha ancora pubblicato nulla su carta.