SCONFITTA ED ESCLUSIONE DAI MONDIALI COME BATRACE DA INGHIOTTIRE O COME SEGNALE DEL FATO?

C’è un detto siciliano che mi sembra adatto a questo momento della esclusione dell’Italia dai Mondiali. Un detto che bisogna spiegare a chi non conosce bene il dialetto dell’Isola del fuoco e delle arance, perché propone il suo significato attraverso la doppia accezione da attribuire alla voce “fatto”, voce che sia in siciliano che nella lingua della comunicazione nazionale è participio passato del verbo fare ma può essere anche considerato aggettivo a patto di non trascurare l’uso latino (factum) da cui ha origine la voce come sostantivo neutro. Il fatto, però, in siciliano, ha ancora un altro preciso significato, come aggettivo quando ordinariamente qualifica lo stato di maturazione di un frutto. Il riferimento alla “compiutezza”, allo stato di maturazione è confermato dalla coniugazione dello stesso verbo fare: infatti diremo, ancora in siciliano, che “I ficudinia si fanu nt’a stati” = I ficondindia maturano in estate. Oppure per dire che sono già maturi e pronti per essere mangiati: “I ficudinia nt’a giugno sunu fatti” = I fichi d’India a giugno sono già maturi. (Qualcuno non si asterrà dal chiedersi perché il frutto non viene classificato al femminile come in genere tutta la frutta al momento di doverla distinguere dall’albero che la produce, adoperato al maschile, ma se lo spiegherà da solo).  Il proverbio ci ricorda: “I cosi fatti si màngiunu” = Le cose mature (compiute) si mangiano! Versione  che potrebbe dare il destro a Pierino per un intervento imbarazzante. Infatti, cogliendo tra ingenuità e malizia l’aura di riflessivo che la locuzione sembra esaltare con quel “si”, Pierino potrebbe mettere in difficoltà chi si era sforzato a spiegare che il siciliano non intende che si mangiano tra loro, ma invita in modo imperativo a consumare il bene maturo. A inghiottirlo. Quest’ultimo verbo però ha un significato che bisognerà distinguere da quello che prendendo in considerazione il dato evidente della maturità (del “fattu”) invita a deliziarne il palato. Ed ecco il “fattu” come qualcosa che è giunta al suo compimento, alla sua maturità, e che, volenti o nolenti bisognerà inghiottire, mandare giù come una medicina amara, senza battere ciglio. Per nulla l’italiano ricorre alla locuzione  “Inghiottiamo il rospo”, invito tutt’altro che salutare, rispetto a quello della medicina amara. Un rospo è un rospo! Lo avrebbe confermato persino Brecht se quella volta (1925) al momento di tirare in ballo l’uomo avesse optato per l’occhialuto batrace.

  1.  Per la sconfitta del 13 novembre sono state avanzate le più peregrine ipotesi, da quello della presenza di troppi “stranieri” nella squadra, e di troppi capitali stranieri padrono di squadre italiane, a quello della leggerezza dei responsabili. Si non invocate dimissioni e si è registrato il romantico pianto di Buffon. Insomma, chi più ne aveva più ne ha continuato a mettere nel trogolo per il pastone della truppa. Truppa che fa solfeggiare l’associabile trippa. Il che, a elogio della tempestività del reagire con un cambio di vocale, ci riporta pari-pari alla reazione di pancia, della pancia, appunto della truppa come sinonimo di collettività, di pienone, di maggioranza schiacciante, assoluta, tale da potersi qualificare e definire pensiero nazionale puro scodellato fumante.

La colpa. La necessità di trovare il colpevole non è storia da poco, né di ieri. Non dimenticheremo la mutilazione delle Erme quella volta che gli Déi avevano dato segni inconfutabili della loro disapprovazione sulla spedizione di Alcibiade in Sicilia. La colpa e il capro espiatorio. La colpa è nella presenza di stranieri nella squadra nazionale. Troppi. Anche se in misura uguale a quella in atto altrove, come in Germania, o di gran lunga inferiore a confronto con la percentuale di altri Paesi europei. Un batrace che non vuole andare giù e ingombra fino a far temere esiti patologici gravi. Un rospo che l’organismo rifiuta perché indigeribile. Ed è in parte più vero di quel che può sembrare.

Stupisce però il fatto (eterna presenza retorica del “fatto”) di come nessuno abbia tirato in ballo un dato troppo evidente: la data. Non saranno in pochi adesso a battere col proprio palmo sulla fronte esclamando “Non ci avevo fatto caso”. Eppure è proprio così: il 13!. Personalmente non mi sarei sentito sollecitare da tale evidenza se non avessi incassato dall’esperienza quanta e quale superstizione viene caricata sul numero 13. Mi trovavo nell’allora URSS, da maggio a metà luglio 1984, con mansioni di ricerche storico letterarie, le stesse da cui dovevano scaturire i volumoni di “Realismi a cupole d’oro” (Lunarionuovo 1986). L’ angelo custode sovietico che mi era stato assegnato era un coltissimo e affabilissimo ebreo italianista moscovita, abbastanza noto in quegli anni in Europa, Lev Verscinin. Il quale mi aveva proposto (lui per chi per lui, evidentemente) una pausa di relax a Pitzunda sul Mar Nero, nella Colchide del Vello d’oro e dei tanti richiami della classicità greca. La taglio breve: erano tempi in cui in tutto il territorio allora URSS uno straniero, qualsiasi straniero, non poteva circolare senza l’accompagnatore ufficiale deciso da regime. E il mio accompagnatore era davvero di eccellenza, in tutti i sensi.  A Pitzunda ho trascorso giorni di relax indimenticabili, ma anche di relazioni culturali di prim’ordine, in grazia degli ospiti dell’hotel dove Verscinin aveva portato me e Nives.

La mattina del 13 giugno però, dopo aver atteso invano che con scrupolosa puntualità alle otto e trenta, Lev bussasse per avvertirmi della sua disponibilità ad accompagnarci fino alla spiaggia, aspettato per ben due ore, preoccupato chiesi al centralinista dell’hotel di mettermi in comunicazione con il mio accompagnatore. E quale non fu la mia sorpresa (e quella di Nives che non vedeva l’ora di trovarsi a nuotare in quella incantevole ed esclusiva spiaggia del Mar Nero) l’ascoltare la reazione dell’illustre intellettuale e italianista ebreo Lev Verscinin che esordiva dando per scontato che io conoscessi la sua rigorosa costanza nel non uscire di casa (e questa di stanza) nei giorni segnati dal 13. Non ci fu verso di convincerlo diversamente. E mi fermo qui perché richiederebbe molto spazio il riferire quante e quali ragioni, il mio caro amico di quei giorni, e non solo di quei giorni, aveva sciorinato per ore a ingannare la nostra ansia di andare in spiaggia e il nostro indescrivibile stupore.

Mi fermo perché pur non facendomene mallevadore, questa naturale coincidenza della data nec-fasta con la sconfitta della Nazionale di calcio, potrebbe essere non meno delle tante cause strombazzate tra notte e aurora, quella valida a giustificare il rospo da inghiottire. O, meglio, e più aderente alla realtà del punto basso dentro cui insiste attualmente la ruota dell’Italia in sorvegliata quanto micronica ripresa generale, per dare significato di medicina da trangugiare, come di una sconfitta decisa dagli déi da una congiura celeste che ha stabilito di mantenere coerenza alla realtà aureolata di spesse nebbie politiche, civili, economiche e morali dell’Italia,  orientando il “fato” alla sconfitta, indipendentemente dal numero degli stranieri in squadra o del capitale straniero che mantiene alcune squadre. E la scusa sono gli stessi assertori del fato a offrirla, il 13. Salva comunque la meno immaginifica via, quella di inghiottire  il “fatto”come medicina amara. Le medicine compensano con la speranza della guarigione il momento dell’amaro che lasciano al momento di trangugiarle tutte d’un sol fiato.

Mario Grasso

Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica, ha fondato e dirige Lunarionuovo, è direttore letterario di Prova d’Autore nel cui sito (www.provadautore.it) pubblica un suo EBDOMADARIO (lettere a personalità e personaggi); dal 1992 collabora al quotidiano La Sicilia con la rubrica settimanale “Vocabolario”, i cui scritti sono stati raccolti nel Saggilemmario, di recente pubblicazione. Nato a Acireale, ha residenza anagrafica a Catania; viaggia spesso per il mondo. Il sito personale dello scrittore è www.mariograssoscrittore.it