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Le memorie naives di Concetta Messina

 

L’amicizia tra loro nacque in un laboratorio di anatomia.
Silvana era una ragazza diversa dalle solite e ad Adalgisa piacevano molto le persone originali e insolite e il fatto che vivesse in un bosco la incuriosiva particolarmente. Lei infatti viveva nel bosco dentro la riserva dell’Etna, la casa era stata costruita dal padre, coltivatore di vigneti, che si cimentava nell’arte della muratura. La costruzione era posta su due terrazzamenti e nel terzo terrazzamento in alto a picco sulla rupe di pietra lavica, era stato costruito un pollaio dove vivevano pacificamente insieme, gallinacei e altri animali domestici di tutte le razze, oche, anatre, conigli e un bellissimo pavone dalle coloratissime e sfavillanti piume verdi-azzurre, colori che si inserivano perfettamente in quelli del bosco.
Le stanze della casa non erano ben squadrate, le finiture neanche esistevano, i pavimenti di marmo non levigato e le pareti lasciate bianche col passare del il tempo tendevano a ingiallirsi. La casa era composta da due camere da letto, un salone con sala da pranzo e divani.
La cucina era costituita da una veranda di vetro e ferro battuto a ridosso della casa e veniva usata per le feste comandate perché, per non sporcare, cucinavano in un piccolo magazzino, distaccato dalla casa, molto angusto e buio, con una piccolissima finestra rivolta alla marina, da dove filtrava poca luce. Appena entrati incombeva da un lato un frigorifero e una vecchia cucina e dall’altro un tavolino e poi, in fondo, una sorta di pagliericcio dove il padre riposava nel pomeriggio al rientro del suo faticoso lavoro nelle sue campagne.
Negli anni la casa crebbe, il padre costruì anche una mansarda, che la figlia si curò di arredare con una ulteriore monumentale sala da pranzo.
In quella nuova casa si contavano tre stanze da pranzo enormi, con tavoli massicci da dodici posti ciascuno, pesanti sedie, come troni, difficili da spostare. Stanze che non venivano mai utilizzate perché non usavano invitare mai nessuno; erano lì quasi a colmare le carenze dei contatti che avevano. L’unico tavolo che veniva però utilizzato era quello del piccolo magazzino.
La casa era immersa nel bosco, lontana dal paese, circondata da una folta pineta, di castagni e querce molto antiche; il sottobosco ricco di grandi felci e di piante estranee all’habitat stesso.
Il padre, Noè, dai tratti primitivi, era un padre “padrone” e al suo autoritarismo nessuno poteva sottrarsi. Possedeva vigneti, uliveti, meleti, frutta di ogni genere che egli con tanta devozione e conoscenza curava
al meglio. Amava coltivare anche fiori, specialmente le dalie, ma le fioriere che circondavano la casa erano sempre in disordine e lavori mai finiti non conferivano al posto un bell’aspetto. Tutto era incompiuto.
L’abitazione era vigilata da un paio di cani trovati chissà dove, piccoli ma agguerriti e quando qualcuno si avvicinava al cancello erano pronti ad azzannare chiunque, se non venivano legati.
La madre, Gina, un soggetto psicologicamente fragile per natura e che l’autoritarismo del marito aveva fatto il resto, era piccola di statura e mingherlina, con il volto rugoso sciupato dal sole e dagli anni. Si comportava come una bambina, camminava strascicando le ciabatte di stoffa rattoppate, si occupava di qualche faccenda domestica, per il resto si trastullava accudendo le galline, con le quali parlava e rideva e a volte parlava anche da sola, ma era un’artista dell’uncinetto e realizzava dei bei centrini. Pur provenendo da una discreta famiglia, vestiva trasandata con un fazzoletto scuro legato sulla nuca e vagabondava tra i vari terrazzamenti tra casa, pollaio e magazzino che, a furia di avervi accumulato roba vecchia e dismessa, si era trasformato in un deposito. Gina, era una donna svaghita, ma Adalgisa trovava piacevole parlare con lei perché la sua sincerità era disarmante: era come parlare con una bambina e, quando finiva un discorso, concludeva con un sorriso strascicato.
Quando nacque Silvana – nome molto confacente al luogo in cui venne alla luce – la madre, ancora giovane, cercava di fare del suo meglio nel crescere la figlia, ma quando la bimba entrò nell’età scolare non fu in grado di indirizzarla e seguirla negli studi, il padre ancora meno.
Il prete del paese, che conosceva il contesto familiare in cui si trovava la fanciulla, per la cresima si interessò di cercarle una madrina che potesse supportarla e negli studi e nelle altre cose della vita che i genitori non erano in grado di offrirle. Così Silvana si inserì in un contesto sociale assai diverso dal suo. La madrina era una professionista, di nobile casato, che si recava in quei luoghi di montagna durante il periodo estivo, per le vacanze, il resto dell’anno lo trascorreva in città e Silvana spesse volte alloggiava presso di lei.
Silvana, avendo conosciuto un’altra realtà culturale e sociale, diversa dalla sua, dapprincipio sembrava disorientata ma finì presto per identificarsi in entrambe le famiglie: quella di origine che la sostentava economicamente e che le consentiva una buona disponibilità economica e la famiglia acquisita che l’attraeva per mille ragioni: stile, cultura, ricchezza, rapporti sociali altolocati ecc.
La madrina, che non era sposata, e viveva assieme ad altre sorelle, molto affiatate tra loro, tutte nubili, si occupava di Silvana come se fosse sua figlia. Mano a mano che la giovane cresceva si legava sempre di più alla sua madrina e ne acquisiva i modi più raffinati per relazionarsi, ma nel contempo si creava delle lacerazioni interiori: la madre a cui dava ben poca retta, e il padre che da un lato innalzava agli altari, dall’altro lo temeva e anche da adulta gli era sottomessa, dall’altra parte la nuova famiglia dove si respirava cultura e si viveva in un contesto sociale diverso. Tutte cose a cui lei aspirava e più il tempo passava più avvertiva questo distacco.

Silvana, contrariamente ai suoi genitori, pur essendo bassina e robusta, era carina e aveva dei piccoli occhi azzurri “pizzuti” e capelli chiari. Sin dalla sua nascita abitò questo luogo fatato, popolato da elfi, fate turchine che si rifugiavano nel bosco che avvolgeva la sua casa.
Per Adalgisa, che viveva in paese, era molto strano che ci fosse gente che vivesse nel bosco, completamente isolata e quando studiavano insieme, spesso alzava lo sguardo oltre ai vetri a caccia dei misteri del bosco con la segreta speranza di intravedere un elfo nascosto dietro un albero.
Il bosco, coltivato a castagni, era anche ricco di funghi e il sottobosco, a primavera, si riempiva di un tappeto lilla di ciclamini selvatici, che incantavano Adalgisa. Quando tornava a casa, incontrava quasi sempre dei ragazzini che raccoglievano i ciclamini per venderli ed Adalgisa ne comprava spesso un bel mazzetto che collocava sulla sua scrivania dentro un vasetto trasparente.

Gli anni dell’università all’inizio furono molto belli per Silvana; fece molte amicizie e in particolar modo con Adalgisa con cui ripeteva le materie che andavano a preparare. Quando Adalgisa andava a trovarla, per ripetere assieme le lezioni di anatomia, con un cranio vero in mano, si soffermavano a descrivere puntigliosamente tutto ciò che agli esami poteva essere loro richiesto, ormai avevano superato insieme il primo impatto che si prova quando si viene a contatto con resti umani. A volte si intrattenevano un po’ di più per raccontarsi le vicende del giorno prima, dei professori, dei colleghi e di tutte le novità, la sera si telefonavano per raccontarsi il resto.
Gli studi assieme ad Adalgisa andavano bene, sostenevano le materie, ma al terzo anno Adalgisa si sposò e partì. Silvana rimase nel suo bosco sempre più sola. Si sentivano per telefono di tanto in tanto, si scrivevano qualche bella lettera di ricordi e di esperienze e, quando Adalgisa rimase incinta della prima figlia raccontava, per via epistolare, a Silvana tutte le sue esperienze sulla maternità.
Mentre Adalgisa era alle prese con la maternità, Silvana continuava a studiare e condivideva le gioie per le materie sostenute con l’amica. Per lei fu una vera e propria delusione non poter continuare gli studi in quanto nel luogo in cui si era trasferita non c’era una università vicina. E quando venne informata da Silvana che si era appena laureata per Adalgisa fu una grande gioia. Lei non soffriva di invidie ed era realmente compiaciuta del completamento degli studi da parte dell’amica, la sua era una amicizia sincera e leale e, non avendo sorelle, Adalgisa considerava Silvana come una sorella.
Con il passare degli anni però Adalgisa scopri che Silvana non si era mai laureata, che aveva trovato un lavoro e aveva abbandonato gli studi. Quando scoprì la verità restò di sasso e si chiese che bisogno avesse mai avuto l’amica per inventarsi una laurea che avrebbe potuto anche conseguire in seguito.
Dopo lunghi anni di permanenza fuori dall’Isola, Adalgisa rientrò nella sua Sicilia sperando di continuare da vicino l’amicizia con Silvana, ma dopo varie insistenze Adalgisa, che era stata sempre disponibile nei suoi confronti – soprattutto nei momenti più crudeli della vita, come la morte dei genitori, le era stata vicina notte e giorno –, ebbe a capire che a Silvana non interessava più quell’amicizia di oltre quarant’anni e senza un chiarimento o una ragione chiuse le porte a qualsiasi tipo di rapporto, non rispondendo neanche al telefono-
Adalgisa rimase ferita, lei aveva sempre creduto in quella insolita amicizia ma dovette arrendersi. Si ricordò che spesso il padre le diceva che gli amici ce li hanno i ciechi e cominciò a credere che il padre potesse avere ragione.