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© R. Magritte, Tentative de l'impossible,1928
© R. Magritte, Tentative de l'impossible,1928

Il suo amico Piero glielo aveva detto:
«Fammi il piacere, chiama tu al telefono la signora R.: il numero è sull’elenco, sotto il suo nome».
Non è che avesse tanta voglia di fare questa telefonata, ma Piero glielo aveva chiesto per favore e poi non avrebbe certamente sprecato troppo tempo e troppo fiato per quelle quattro cose che aveva da dirle. Non la conosceva nemmeno di persona, questa signora, ma solo di nome; con tutto ciò aveva trovato il numero e la domenica, a mezzogiorno – l’ora di pranzo, con la speranza che così non lo tenesse troppo all’apparecchio – l’aveva chiamata.
Uno squillo, due, tre – speriamo che non ci sia – quattro: la cornetta si solleva e una voce femminilmente piacevole risponde: «Sì?»
«Sono l’architetto G. Vorrei parlare con la signora…»
«Sei tu, finalmente. Cosa hai da aggiungere a quello che…»
«Guardi che io cerco la signora G. e vorrei…», tutto si sarebbe aspettato, tranne che una risposta del genere; e ciò lo spiazzava completamente.
«Su, non fare lo scemo, Stefano, che ti ho riconosciuto, va’. Come è andata dopo quella bottiglia di ieri sera? Tutto bene? – il tono era tra la presa in giro e quello di una ragazza innamorata che vuole scherzare col suo ragazzo e punzecchiarlo un po’.
«Io sono l’architetto G. e voglio parlare con la signora R. È lì o no?», non voleva neppure esagerare con quel tono arrabbiato, perché la voce da ragazza mezza scema, per quello che ne sapeva lui, poteva essere quella della figlia o della sorella della signora R.
«E allora? cosa mi racconti?»
Silenzio. G. pensava tra sé e sé quale fosse la tattica migliore in questa situazione a metà tra il grottesco e l’intrigante.
«Ci sei? Ci sei ancora, lì? Non nasconderti, che mi sono accorta che sei tu…»
Basta così. Aveva messo giù. Non poteva più reggere una situazione simile. E ora come fare con Piero e la sua telefonata? Piuttosto: non sarà magari stata una mezza matta o chissà chi, che abita in casa della signora?

Il problema della telefonata si è risolto. G. si ricordò che la signora R. aveva una figlia di cui lui conosceva l’indirizzo: cercato il numero e chiamatala, si fece dare il numero della madre, completamente differente da quello che aveva trovato lui.
«Sì, mia madre ha fatto trasloco tre settimane fa e le hanno cambiato anche il numero».
Tutto qui.

Sotterrato l’incidente della domenica. Ci sono delle cose che, anche senza mettere sottosopra la vita, danno comunque abbastanza fastidio, sia perché in questi casi non si è mai padroni della situazione, sia perché ci si accorge di quanta gente stramba c’è in giro.
Eppure… eppure.
Quella voce gli era rimasta segnata, quasi incisa, in testa, e anche la voglia di saperne qualcosa di più. Una persona stramba l’aveva giudicata, ma poi?
Una briciola di curiosità lo stava solleticando, al punto di spingerlo diverse volte ad avvicinarsi al telefono, ma poi lo aveva allontanato non tanto il rischio quanto il senso profondo di maleducazione: entrare nella vita, nell’intimità di una persona lo faceva sentir male. Ed aveva rinunciato.
«Mi sembra di forzare una serratura – si diceva tra sé – o di solleticare un’idea che deve essere solo mia… o sua, di quella ragazza, ma non di tutt’e due».
E proprio l’immagine di quella ragazza sconosciuta, un’immagine che lui si era composta pezzo dopo pezzo, frammento dopo frammento e che, incominciando dalla voce, lo aveva portato ad immaginarsela tutta intera: così le gambe e così le braccia, e così il collo e così le mani, e così le caviglie… e vestita di blu o di bianco, con i pantaloni, con la gonna, nuda… tutto gli veniva in mente, tranne il viso, che continuava ad essere un unico, straordinario punto interrogativo, che cresceva a volte ad occupare anche il collo e le spalle dell’immagine, e di notte diventava un cerchio nel suo cervello, e cominciava a muoversi fino a stordirlo, al punto che doveva alzarsi dal letto ed andare a bere un sorso d’acqua, tanto per avere qualcosa da fare (non che avesse sete…), o a mettere le mani sotto il rubinetto della cucina, tanto per togliersi, eliminare quella domanda dal suo cuore.
Il punto interrogativo gli gironzolava davanti agli occhi anche di giorno, mentre pensava a quella voce…

Rimase almeno venti minuti seduto davanti al telefono con nelle orecchie la voce scherzosa di quella ragazza e negli occhi la forma affascinante del punto interrogativo, un serpente attorcigliato al caduceo della sua vita, ma alla fine le due sensazioni si mescolarono e il punto interrogativo incominciò a parlargli:
«Su, non fare lo scemo, Stefano…»
E poi ancora, e soprattutto, chi è, Stefano? cosa significa per quella ragazza? innamorato, amico, chissà… come sarà, Stefano? sarà giovane, questo è sicuro. E se fosse, invece, un uomo già un po’ più in là con gli anni, come lui? come potrebbe avere una relazione con…
Si mise a ridere da solo: se la figura della ragazza era un punto interrogativo, quella di Stefano gli sembrava un punto esclamativo.
«Ha scambiato la mia voce per la sua; quindi si assomigliano, e allora Stefano potrebbe avere anche più o meno la mia età».
Stefano: esclamativo. La ragazza sconosciuta: interrogativo. Lui: una sfilza di puntini di sospensione… Proprio così: una vita sospesa, appesa ad una voce beffarda e ad un nome, ad una domanda e ad una certezza.

Prese il telefono in mano; era stufo di rimanere nell’incertezza. Sull’elenco aveva già controllato il numero della signora R. e se l’era segnato sull’agenda. Non era domenica a mezzogiorno, ma non importa.
Uno squillo, due, tre – speriamo che non ci sia – quattro: la cornetta si solleva ed una voce, quella voce, risponde:
«Sì?»
«Ciao, sono Stefano…»
«Ah, ti sei deciso, finalmente? Credevo proprio che ti fossi offeso, dopo l’altra settimana. Siamo di nuovo amici, come prima?»
Non l’aveva voluta interrompere proprio per cercare di raccogliere più informazioni possibile, lasciandola parlare a ruota libera, ma ora qualche cosa doveva pur dirla…
«Sì, proprio così… va tutto bene?»
«Oh, davvero… tutto bene, per te – la voce di lei si faceva sempre più dura – ma frattanto mi hai lasciata me, nei pasticci… come la mettiamo?»
Mettere di nuovo giù il telefono non poteva più farlo, altrimenti, come avrebbe trovato un’altra volta il coraggio di chiamarla ancora? Bisognava trovare un’altra soluzione, e in fretta.
«Su, parla, di’ qualcosa, Stefano. Non fare l’indisponente, lo sai che non lo sopporto. Lo sai che con questa storia che tu non hai il telefono in casa devo approfittare di quando mi chiami tu, altrimenti…»
«Scusami, scusami tanto… (voleva chiamarla per nome, ma non lo conosceva); insomma, scusami tanto e facciamo finta che non sia successo niente…»
«Ah, questo proprio per niente; neanche per sogno. Con la figura che mi hai fatto fare. Che tutte le mie amiche mi prendono in giro, e Anna di qui, e Anna di là…»
Anna: il punto interrogativo perdeva qualche pezzo, si stemperava un po’, sfumando.
«Ma senti, Anna (lo pronunciò proprio deciso questo nome), io vorrei solo che tu… come a dire…», non sapeva più come continuare: dirle tutto non osava, ma d’altra parte…
«Come a dire, cosa?»
«Senti, Anna, adesso non ho più tempo per stare al telefono; ti chiamo domani. Ciao, sta’ bene».
E interruppe mentre lei diceva chissà che cosa, con un tono di voce non proprio piacevole.
Fatto. Lo sfizio se l’era tolto; aveva persino saputo il suo nome. Adesso, basta. Già, ma lo tormentava ancora questa situazione, e ancora di più la figura di Stefano. L’avrà chiamata in questi giorni? Si saranno visti?

Perché non vederla? Già, perché non darle appuntamento da qualche parte e così, di nascosto, vedere che tipo era? Una buona idea, così gli pareva. E allora: prendi di nuovo il telefono…
«Sì?»
«Ciao, Anna. Volevo dirti…»
«Ah! Dopo quello che mi hai detto ieri non abbiamo più nulla da dirci, io e te. Addio». E butta giù.
Cosa diavolo le avrà fatto, Stefano? La sola risposta: chiederlo a lei. Preso di nuovo il telefono.
«Sì?»
Tutto d’un fiato «Scusami, scusami, Anna, ti chiedo perdono, davvero, di tutto cuore. Noi due dobbiamo vederci…»
«Uhm… per questa volta… ma non ti ho ancora perdonato. Comunque… ci vediamo al solito posto alle…»
Solito posto? Quale solito posto? Dove, solito posto? No! «No, guarda Anna, tesoro, voglio essere davvero un uomo completamente nuovo (veramente – pensava tra sé) e allora incominciamo a spazzare via le vecchie abitudini anche le più piccole: basta col solito posto. Troviamoci… troviamoci… (dove?)… troviamoci in quel caffè di via Cernaja «La barra di ferro»… lo sai…»
«Lo so, lo so. Va bene. A che ora?»
«Quando vuoi tu, Anna, amore…»
Così aveva preso appuntamento e le ore fino alle tre del giorno dopo volarono perfino troppo in fretta.

Seduto ad un tavolino un po’ defilato, un po’ nascosto. Dieci alle tre. Verrà sicuramente. Si imponeva tra sé di non pensare più alla sua figura. Basta. Tra qualche minuto l’avrebbe vista.
Finalmente entrò. Lei, senza dubbio. Una ragazza giovane, entra, si guarda in giro, si siede, dice qualcosa al cameriere che si è avvicinato, poi tira fuori un libro dalla borsetta. È distante qualche metro, lui non può vederla bene, ma è bella, è bionda, il colore degli occhi non si vede ma pazienza. Ha la gonna, le gambe lunghe e sottili, i capelli tagliati a caschetto… insomma: una bella ragazza… e giovane. E poi, legge… è un’intellettuale. Tutto è a posto. Bene.
E adesso? Adesso cosa fare? Avvicinarsi e parlarle, e spiegarle tutto, oppure far finta di niente, aspettare ancora un momento, poi andare via e telefonarle questa sera. Mah… aspettiamo ancora cinque minuti e poi decideremo.
A questo punto è entrata. Bella, bruna, alta, con i pantaloni a fiori e i capelli ricci che le coprono le spalle; le braccia e le dita cariche di anelli. Prende di petto il cameriere e
«Aspetto una persona; mi siedo qui».
E adesso? Momento di panico. Poi la ragione ha preso di nuovo il suo posto. Una delle due troverà la persona che sta aspettando e così io capirò chi è Anna. Bene; ciò mi dà ancora qualche minuto per decidere cosa fare poi.
Passa mezz’ora e la bionda si alza con un’aria piena di rimpianto, si avvicina al banco, ordina un caffè, lo beve e, pagato, se ne va via con un viso come se le avessero rubato la minestra di sotto il naso. Dopo cinque minuti anche l’altra si alza con gli occhi che rovesciavano rabbia e se ne esce senz’altro.
«Ed io, qui, come uno scemo, al punto di prima».

Passò tutto il pomeriggio in uno stato tra il brivido della scoperta e il terrore di doversi di nuovo trovare, dopo cena, di fronte ad una situazione, la telefonata, che ogni volta lo lasciava in una condizione mentale paragonabile allo sforzo di una partita a scacchi.
La bionda: leggera, intellettuale, gentile, inesperta – si sarebbe quasi detto – della vita e dei dispiaceri, pronta alle lacrime come una bambina a cui hanno rifiutato di comprare un giocattolo o di accompagnarla in un bel posto. La bruna: una tigre selvaggia, una donna forte, decisa, pronta a tutto, pronta magari anche a morire per l’uomo che ama…
«Non facciamoci prendere troppo dalla letteratura – pensava tra sé – l’eterno femminino non ha la sua realizzazione in una figura concreta, altrimenti che “eterno” sarebbe… piuttosto, è il momento di chiamare? ancora cinque minuti. Quale sarà delle due? quale delle due la migliore? quale delle due scegliere? È ora? Sì».
Uno squillo, due, tre – perché non risponde ? – quattro, cinque, sei… la cornetta si solleva.
«Sì?»
«Anna, sono io; oggi ti ho vista…»
«Oggi tu hai? oggi tu mi hai? – la voce cominciava a farsi lacrimosa (la bionda…), ma sempre piena di stizza (la bruna…) – il posto che mi hai detto era chiuso e così me ne sono tornata a casa, di brutto, e tu…»
«Ma no, Anna, ti sarai sbagliata, confusa – che so – avrai sbagliato posto… era aperto, sono stato ad aspettarti più di mezz’ora… per questo che non sei venuta. Eppure io te lo avevo detto chiaro: il caffè della «Barra di ferro», in via Cernaja…»
«Ed io sono andata al caffè «Cernaja» in via della Barra di Ferro: può anche capitare, di confondersi…»
«Bene, basta adesso: domani … (stampando le parole) alle tre… al caffè della «Barra di ferro»… in via Cernaja… va tutto bene? è tutto chiaro?»
«Tutto bene; tutto chiaro. A domani. Ciao».
Lei mise giù senza quasi neanche lasciargli il tempo di salutarla. Lui andò a dormire nel dubbio se andarci o non andarci, all’appuntamento.

Che notte lunga, spaventosa, angosciosa. Dormito poco, ma in compenso male, con dei sogni non certo brutti, ma neppure piacevoli: cortei di donne che gli andavano incontro, tutte diverse: belle, brutte, vecchie, giovani, nere, gialle, bianche, e tutte a dirgli «Sono io Anna – Sono io Anna»… Si svegliò e poi di nuovo si addormentò. Un altro incubo: la ragazza con il punto interrogativo al posto della testa; e il ricciolo dell’interrogativo si allargava e si apriva e si muoveva fino ad arrivare a lui, e gli avviluppava le braccia e gli stringeva le spalle e gli abbracciava la testa…
Fortuna che si svegliò. Non ne poteva proprio più.

Di nuovo seduto al caffè. Mancano cinque alle tre; fa finta di leggere un giornale, alza gli occhi ogni venti secondi, guarda l’orologio, osserva fuori della vetrina del caffè. Le tre e dieci: ecco che si avvicina di nuovo la biondina di ieri.
«È lei… me lo sentivo – il suo primo pensiero, e fa per alzarsi e andarle incontro ma poi si risiede – ma se mi ha detto… s’è inventato tutto, ieri sera; certo che era venuta all’appuntamento, ma non voleva ammetterlo, ’sta sgualdrina di una pivella, guarda come l’aspetto esteriore sembra una cosa e poi l’interno è tutta un’altra…»
La biondina chiede di telefonare e va nella cabina.
Le tre e un quarto: si fa sulla porta una ragazza coi capelli neri, piccola, snella, che sembra poco più di una bambina. Sbircia all’interno del caffè e gli occhi le si illuminano di una gioia allegra; entra, si avvicina al suo tavolino, e poi getta le braccia al collo a quel ragazzo che è seduto vicino a lui, al tavolino lì d’angolo, un po’ defilato…
«Stefano…»
«Anna…»
La biondina ha finito di telefonare ed esce nella nebbia d’ottobre. Lui vorrebbe quasi alzarsi e, forse, seguirla. Si siede di nuovo e prende in mano il giornale. Troppo bello sognare: i punti interrogativi sono più belli delle certezze (e di quelli esclamativi), e poi… ancora una cosa: il giorno dopo doveva ricordarsi di disdettare il telefono.

Leone Inaudi

Nato nel territorio dell’antico Marchesato di Saluzzo da una famiglia originaria della valle Maira, ma cresciuto ed educato a Torino nei ruggenti ’60, predilige la narrativa breve in italiano, in cui si presentano sempre tematiche e prendono forma figure legate in modo strettissimo alla sua terra. Tornato nei luoghi della sua nascita ed infanzia, per vivere è giornalista e collaboratore di alcune piccole (ma attive) case editrici. Non ha ancora pubblicato nulla su carta.