Al momento stai visualizzando “La quiete” di E.V. Griškovec

Evgenij Valer’evič Griškovec è nato il 17 Febbraio 1967 a Kemerovo, in Siberia. È stato costretto a interrompere per tre anni i suoi studi universitari presso la facoltà di lettere a causa della chiamata al servizio militare. In seguito, ha ripreso gli studi partecipando, nel contempo, all’attività teatrale universitaria.
Conclusi gli studi, ha fondato la compagnia teatrale indipendente “Loža” che, nel corso dei suoi sette anni di attività, ha allestito nove spettacoli su testi propri.
Le pièces teatrali di Griškovec, molto apprezzate dal pubblico, hanno ricevuto anche il riconoscimento della critica: Zapiski russkogo putešestvennika (Appunti di un viaggiatore russo) e Zima (Inverno) hanno vinto il premio “Antibuker”, mentre l’opera Kak ja s”el sobaku (Come ho mangiato un cane) il premio “Zolotaja Maska” nelle categorie “Novità” e “Premio della critica”.
All’attività di scrittore teatrale/regista/attore ben presto Griškovec ha affiancato quella di musicista e cantautore, collaborando con il gruppo musicale Bigoudi. Nel 2004 è uscito il suo primo romanzo, Rubaška (La camicia), che ha vinto il premio per il miglior debutto e in soli sei mesi ha venduto in Russia 100.000 copie. In seguito sono stati pubblicati il racconto Reki (I fiumi) nel 2005, la raccolta di racconti Sledy na mne (Tracce su di me) nel 2007 e il romanzo Asfal’t (Asfalto) nel 2008.

Prima di congedarsi definitivamente dall’estate e di ricominciare la frenetica e stressante routine quotidiana Dima, il protagonista del racconto La quiete (2005) si concede una parentesi di temporanea solitudine e di assoluto riposo, assaporando i momenti di “dolce far niente” e riscoprendo la piacevole sensazione di tregua da una realtà in cui tutto si muove vorticosamente e ogni azione deve essere necessariamente finalizzata a uno scopo.

***

La quiete

C’era un tempo tale che non si poteva essere sicuri di nulla. L’estate stava giungendo al termine. Nonostante ancora non si vedesse quella sorta di giallo sugli alberi, il vento faceva già volare agli angoli e sotto i portoni le foglie cadute, ancora completamente verdi. In campagna l’erba era alta e un po’ sporca. L’estate stava finendo o, più precisamente, era a tutti gli effetti già finita. Rimaneva ancora qualche giorno di agosto e…
Quasi tutti gli amici, più o meno stretti, i compagni, i conoscenti e i colleghi erano tornati da qualche parte abbronzati, con la voglia di incontrarsi, con la voglia di scambiarsi le impressioni. Dima, invece, si era fermato tutta l’estate in città. Ovviamente non era rimasto fermo tutta l’estate. Semplicemente, se qualcuno trascorre tutta l’estate in città, seppur non senza piacere o beneficio, si dice lo stesso “si è fermato”. Dima, quindi, diceva a tutti: «Macché! Mi sono fermato tutta l’estate in città!». Nel frattempo sospirava, faceva un breve cenno con la mano e la faccia triste.
I suoi familiari Dima li aveva mandati via già ai primi di Luglio: il figlio maggiore in un campus internazionale perché facesse pratica di inglese, mentre la moglie e la figlia prima a Nord, dai genitori (i genitori di lei), poi a Sud, a mare, nel posto in cui erano andati insieme molte volte. Lui, invece, era rimasto in città… per lavoro.
Il lavoro effettivamente c’era, il motivo per rimanere in città e darsi da fare era valido, e molto, ma verso la metà di luglio la città si era completamente liquefatta dal caldo, nessun problema era stato risolto e le attività previste per l’estate si erano bloccate. Era stato da stupidi pianificare tanto lavoro per l’estate. Innanzitutto la maggior parte delle persone da cui dipendeva la soluzione di tutta una serie di problemi era partita, mentre quelli che erano rimasti erano stanchi, maldisposti o alcuni… con lo sguardo appannato… a causa del caldo, del ronzio estivo nelle orecchie e dell’elettricità statica accumulatasi d’estate. E verso la fine di Luglio Dima era piombato nell’ozio. In quell’ozio estivo strano, in cui i giorni si trascinano con una lentezza estenuante, mentre il tempo vola con incredibile velocità.
Inizialmente, per alcuni giorni, Dima era rimasto a lungo sdraiato sul divano, vicino al televisore. Passava in rassegna all’infinito i canali televisivi, soffermandosi ora su uno, ora su un altro… e poi cambiava di nuovo. Quando aveva la fortuna d’imbattersi in qualche vecchio film, noto fin da quando era bambino, batteva le mani, le strofinava, riassettava il divano, che aveva fatto diventare il suo nido, correva in cucina a mettere su il tè e rapidamente si preparava i panini più dannosi per la salute, e, quindi, i più appetitosi. Un vecchio film, panini e tè zuccherato assicuravano un autentico e profondo piacere. Era questo quello che da tempo non provava. Era questa la quiete. Attorno al terzo giorno di un simile ozio cominciò a perdere la cognizione del tempo. Si addormentava la mattina, si svegliava a giorno inoltrato. Si svegliava e stava ad ascoltare il rumore torrido dell’estate proveniente dal cortile. Quando nel frigorifero finì tutto, quasi per un giorno intero Dima lottò contro la fame. Uscire da casa sembrava qualcosa di irrealizzabile. Dima aveva rimandato a lungo il momento di uscire. Non si radeva da molto, ma, improvvisamente, radersi fu piacevole. Poi si lavò con calma, si vestì e, in seguito, uscì a fare la spesa… con piacere. E prese tutto in gran quantità. Tornato a casa, non si buttò sul cibo, non si mise a mangiucchiare nervosamente; ancora una volta, con inaspettato piacere, rimise in ordine l’appartamento, lavò i piatti, dispose tutto con cura nel frigorifero. In seguito preparò senza fretta contemporaneamente il pranzo e la cena (nel senso che Dima non aveva ancora pranzato, ma era già sera). Stava preparando da mangiare, il suono della radio era confortevole… Dima aprì una bottiglia di vino, nella mente vagavano parole quiete, isolate, del tipo “non male” o “ecco, così…”, oppure “caspita”. Mentre il cibo si cuoceva in forno Dima bevve due bicchieri di vino. Il vino si era rivelato fantastico… Dima prese subito il telefono. Chiamò i genitori (i suoi genitori), poi telefonò giù alla moglie e riuscì a parlare con lei. Ženja disse che andava tutto bene, solo con il tempo erano state sfortunate. Poi fu la figlia a prendere la cornetta e disse che si stava bene, si mangiava bene e in generale andava tutto bene. Alla domanda di Dima se le mancasse il papà, la figlia rispose rapidamente: «Sì». Subito dopo questa telefonata Dima chiamò una sua conoscente, non riuscì a trovarla e si tranquillizzò una volta per tutte. Andava bene. Anzi, molto bene. Di tanto in tanto gli balenava un pensiero: «Però il lavoro è ancora lì, bisognerebbe…». Ma subito venivano trovate argomentazioni della serie “piano, piano!” oppure “ma è estate!”. L’unica cosa che dava fastidio era il caldo. E neanche per il fatto che facesse caldo, nel senso di afa, sudore e così via, ma il caldo dava fastidio perché perdurava. L’estate precedente Dima l’aveva trascorsa con tutta la sua famiglia sulla costa baltica. Gli amici gli avevano detto: «Che ci andate a fare? Là piove in continuazione, il mare è freddo, bello ma freddo». Col tempo, invece, erano stati fortunati! Ed era stato così piacevole prendere il sole sulla spiaggia o sedersi sotto gli ombrelloni del bar a bersi una birra, la sera guardare il telegiornale e venire a sapere che a casa pioveva ininterrottamente, a Sud c’erano temporali e in Grecia grandinava.
Sarebbe stato bello e giusto che l’estate fosse umida e cupa. Allora in televisione non avrebbero parlato di come negli stagni poco fuori città l’acqua fosse più calda di quella del Mar Nero, ma del fatto che sul bacino artificiale più vicino fossero state aperte spiagge con nulla da invidiare alle migliori di quel genere. Periodicamente dall’esterno arrivavano inviti: inviti ad andare a casa di qualcuno in campagna o con qualcuno a pesca. Dima inventava varie scuse e non andava da nessuna parte. La quiete che gli era piovuta addosso inaspettatamente era più intensa, preziosa e importante di qualsiasi beneficio estivo. Se, però, ci fossero state piogge fredde e grigie, ci sarebbe stata ancora più quiete. Ci sarebbe stata una quiete perfetta!
Certo, con un tempo del genere è sempre una seccatura! Stando a ciò che Dima si ricordava dei suoi rapporti con il tempo, era sempre stata una seccatura. Gli ultimi giorni di Maggio, quando studiare e dare esami era particolarmente difficile, c’era un tempo meraviglioso. C’era sempre fresco, calore, ma non caldo… e si aveva voglia di tutto. Non appena cominciavano le vacanze, però, pioggia, vento, raffreddore. Si andava a mare e subito un presagio di tempesta, pioggia, vento. Ed era sempre così. Si ricordava di quando, una volta, aveva trascorso mezza estate in campagna da sua zia e non era andato a pesca neanche una volta, nonostante avesse portato con sé un’ottima canna da pesca. Il lago era vicino, ma il marito della zia aveva detto che sarebbe andato a pescare se non ci fosse stato vento. Se ci fosse stato vento non avrebbe avuto senso andarci. Lo zio Vova aveva detto: «Guarda, vedi quell’albero laggiù? Se di mattina sta fermo, senza ondeggiare, significa che non c’è vento. Prendi la canna da pesca, svegliami e tutti i pesci saranno nostri. Se invece dondola, non osare nemmeno avvicinarti a me, io dormirò, non andremo a pescare un bel niente». Per mezza estate Dima aveva guardato quell’albero. Ogni giorno tirava fuori la sua canna da pesca, la guardava soltanto e poi la rimetteva nel capanno. Quasi ogni giorno raccoglieva i vermi e teneva d’occhio l’albero. Di sera l’albero non si muoveva quasi mai. Di notte Dima si alzava per fare la pipì, usciva sul terrazzino d’ingresso e osservava come alla luce della luna si vedesse la cima scura dell’albero, immobile, sullo sfondo delle stelle estive. Gli veniva un tuffo al cuore dalla gioia, tornava a letto e si addormentava, inspirando profondamente ed espirando rumorosamente… Di mattina si svegliava prima di tutti, correva sul terrazzino… nel punto in cui l’alba cominciava a tingersi di rosa si affollavano già le nuvole, la cima dell’albero oscillava e ogni fogliolina si scuoteva. Dima aspettava ancora per un po’, guardando l’albero, poi il cuore gli cessava di battere, lui cominciava ad avere freddo e si metteva a piovigginare. Dima tornava nel suo letto e piangeva silenziosamente. Dopodiché si svegliava tardi e trascorreva il giorno, a volte annoiandosi, a volte divertendosi. Tuttora, quando Dima andava da qualche parte il mattino presto e lì c’era un albero, osservava sempre la sommità di quello più alto, guardava come se… semplicemente guardava come allora.
Il caldo, ossia una buona estate, era l’unica cosa che aveva non rovinato, ma piuttosto offuscato la quiete in cui si era ritrovato Dima. I primi giorni di Agosto aveva accettato di vedersi una sera con una sua conoscente. Si erano incontrati verso le nove. C’era un’afa terribile. A causa dell’afa alla conoscente era venuto mal di testa. Si erano diretti verso la fontana, là c’era un mucchio di gente. La città passeggiava, come presa dalla follia. Tutto il lungofiume, i bar sul lungofiume e tutti i posti vicino alle fontane erano strapieni. Vicino alla fontana Dima e la sua amica avevano incontrato un conoscente di Dima con sua moglie. Dima aveva presentato la sua accompagnatrice come una collega di un’altra città in trasferta di lavoro. Lei aveva sgranato gli occhi. In genere…
In seguito sulla città si era abbattuto un acquazzone ed era scoppiato un temporale. L’acquazzone era così forte che a distanza di mezzo minuto era inutile correre di qua e di là. Erano tutti bagnati. Il temporale era diventato violento. Un grande temporale, come una cannonata! Per farla breve, Dima si era convinto che non valesse la pena di mettere a rischio la quiete, che non fosse proprio possibile voltarle le spalle. Il giorno seguente non era uscito da casa e il tempo era stato tutto il giorno stupendo.
La quiete! A tal punto che Dima non beveva neanche birra. Non ne aveva voglia. Era tutto quieto. Gli venivano in mente pensieri divertenti e un po’ fuori luogo. Questi pensieri apparivano, venivano elaborati e svanivano. Dopo l’acquazzone Dima, con calma e soavemente, aveva pensato: «Se fossi un meteorologo avrei dato sempre la stessa previsione sul tempo: precipitazioni sparse. È la formula più funzionale e universale. Sei finito sotto la pioggia o la neve? Vuol dire che sei capitato proprio là. Non sei finito sotto la pioggia, né sotto la neve? Vuol dire che non era quello il posto. Fine. Molto semplice».
Il figlio gli telefonava periodicamente dal suo campus e sembrava soddisfatto. I genitori di Dima non uscivano dalla casa in campagna. Dalla moglie e dalla figlia, quando riusciva a parlare con loro, Dima sentiva solo parole rassicuranti. La quiete. La quiete.
All’inizio di Agosto per alcuni giorni non aveva più smesso di piovere. Dima se ne era rallegrato e aveva trascorso quei giorni nella massima quiete possibile. Le piogge erano intense, piacevoli… successivamente erano cessate ed erano cominciati a spuntare i funghi. Ne parlavano in continuazione al telefono i suoi genitori e anche alla televisione locale si comunicava della straordinaria quantità di funghi, si raccomandava di non cogliere quelli sconosciuti o di non acquistare funghi in scatola di origine ignota.
Dima non andava nel bosco da un bel po’ di tempo. Amava raccogliere funghi. Amava andare nel bosco, fare ogni passo con attenzione e, improvvisamente, tra l’erba, le foglioline e le ombre frastagliate, scovare un fungo. Ed ecco che un attimo dopo il fungo si confondeva con tutto ciò che frusciava e crepitava sotto i piedi e di colpo, oplà… il fungo! Quindi lentamente ci si inginocchiava accanto e si osservava attentamente attorno…
Dima amava tutto ciò. Ma stavolta la quiete aveva avuto la meglio. Avevano vinto argomentazioni come “dove sono andati a finire questi funghi?”, “immagino che mare di funghi!” e “ma adesso nel bosco c’è più gente che a fare acquisti il giorno del mercato”. Dima era rimasto a casa a leggere un paio di gialli e qualche romanzo rosa che aveva trovato nel comodino della moglie.
Dima aveva avuto, è vero, la sensazione di essere leggermente ingrassato in quei giorni… ma non in modo considerevole. Solo un pochino.
E così Agosto ormai giungeva al termine, presto sarebbero dovuti tornare la moglie e i figli. Il tempo continuava ad essere buono, anche se non si poteva essere sicuri di nulla. In qualsiasi momento l’estate avrebbe potuto trasformarsi bruscamente in autunno. Si sarebbe dovuto cercare di approfittare di ogni bella giornata dell’estate che stava per finire. Dima, tuttavia, non lo faceva. Era sprofondato nella quiete. In tutta l’estate non era andato a tagliarsi i capelli nemmeno una volta.
Goša telefonò proprio un giorno prima del rientro della moglie e della figlia di Dima da Sud.
– Ah, ciao! – disse Goša, un po’ sorpreso, non appena Dima prese la cornetta. – Sei già tornato? Ho telefonato giusto per provare e invece sei già qui. Come sono andate le vacanze?
– Ma quali vacanze! – disse Dima con un sospiro, – sono rimasto tutta l’estate in città. Vorrà dire che ci riposeremo la prossima volta. E tu?
– Quindi eri qui?! – Goša era evidentemente e sinceramente sorpreso. – Eravamo certi che fossi partito. Non se n’è saputo più niente di te. Io sono tornato già da un bel po’.
– E dove sei stato?
– Dove?! Ma se ti ho maledetto tutta l’estate! Non ti sono fischiate le orecchie? Abbiamo seguito il tuo consiglio, siamo andati sul Baltico. Là la pioggia ha allagato tutto. Non c’è stata praticamente nemmeno una bella giornata. Ce ne siamo scappati. L’anno scorso ne avevi parlato così straordinariamente bene…
– Goša, Goša! Che colpa ne ho io? Che ti devo dire? Sei stato sfortunato…
– Tu sei sempre fortunato, però – lo aveva interrotto Goša. – Si dice che in città il tempo sia sempre stato bello. Cosa hai fatto?
– Ehm… sì. C’era molto lavoro. Le solite sciocchezze. La mia famiglia, invece, l’ho mandata al mare. Bisognava portare i bambini fuori città. Tu sei tornato da molto?
– Da circa dieci giorni. Per poco non impazzivo dalla noia. Non c’era nessuno. Erano partiti tutti. Peccato non aver saputo che fossi qui. Un paio di giorni fa sono tornati tutti in una volta, quindi ieri abbiamo giocato a calcio. Ho guardato, ma non c’eri. Ho pensato che non fossi ancora tornato.
– Ieri avete giocato? Senza di me? Com’è che nessuno mi ha chiamato?
– Ma nessuno sapeva che tu fossi qui…
– C’ero o non c’ero, era difficile fare una semplice telefonata? Avete giocato senza di me e nessuno mi ha chiamato! Ti sembra normale?
– Abbiamo pensato… – Goša era stato colto alla sprovvista.
– Non avete pensato affatto, – lo interruppe Dima. – Vi siete semplicemente dimenticati, diciamo, e basta. Era difficile comporre un numero di telefono?
Dima si era arrabbiato, si era offeso. Le partite di calcio nel campo della scuola erano un importante rito. E per Dima non era tanto importante il riunire qualche volta le squadre, instillare in tutti col tempo l’abitudine a quelle partite settimanali, alla sauna dopo aver giocato, alle chiacchere divertenti. Non era questo. Semplicemente, avevano giocato senza di lui e nessuno lo aveva chiamato. Nessuno! Nemmeno uno. Avevano potuto, quindi, giocare senza di lui e non era successo niente. Soltanto Goša, per caso, aveva telefonato il giorno dopo la partita.
Circa un paio d’ore dopo la telefonata di Goša, chiamò una vecchia conoscente. Si informò se Dima potesse parlare, alludendo alla presenza o meno della moglie.
– Dimmi pure, tutto a posto, – disse Dima.
Lei raccontò di essere andata su un’isola, di essersi completamente riposata e di aver portato a Dima un regalo da lì.
– Tra l’altro, Dima caro, vale la pena dare un’occhiata alla mia abbronzatura, – disse lei e Dima capì che la sua conoscente era piacevolmente e allegramente brilla.
– E con chi sei andata? – chiese Dima.
– Beh, ovviamente non da sola, – fu la risposta.
La conoscente era davvero vecchia, ma non in senso anagrafico. Non la vedeva da tanto ed era rimasto molto sorpreso dalla sua telefonata. Quell’ “ovviamente non da sola”, però, aveva in qualche modo urtato Dima. Quelle parole non avevano provocato gelosia e neanche stizza per il fatto che lui non era mai stato su quell’isola. No! Quelle parole avevano turbato la quiete.
Più tardi, nel corso della serata, c’erano state un paio di telefonate di lavoro. Non telefonate terribili, né importanti, eppure Dima non aveva nulla da dire. Per tutto il giorno aveva tenuto il televisore spento, aveva avuto la possibilità di accenderlo solo molto tardi, quando stavano trasmettendo l’ultima edizione delle notizie serali. Le notizie erano spiacevoli, tra l’altro non quelle estere, ma quelle russe. Nel giro di quindici minuti di trasmissione aveva visto a sufficienza il volto teso di qualche funzionario e parlamentare, perché fosse chiaro che mentivano tutti e non ne sarebbe venuto niente di buono.
Di sport avevano parlato poco e Dima si era perso le previsioni del tempo, perché aveva telefonato la moglie e gli aveva ricordato il numero del volo e l’orario di arrivo.
La notte prima dell’arrivo della moglie Dima dormì male. Non era riuscito a prendere sonno per molto tempo. La mattina diede una parvenza di ordine alla casa. Passò l’aspirapolvere al centro delle stanze e della cucina, spinse agli angoli i vestiti e il resto, poi andò a fare la spesa, comprò qualcosa da mangiare e da bere per avere qualcosa con cui accogliere i suoi familiari al loro arrivo. Tutte quelle attività gli erano costate fatica. In seguito fece una decina di telefonate. Erano tutti tornati da qualche parte, con la voglia di incontrarsi, scambiarsi impressioni.
Durante il viaggio verso l’aeroporto la macchina non funzionò tanto bene. Dima non si metteva al volante da molto tempo, la macchina era tutta impolverata e non camminava molto bene.
Il tempo continuava ad essere bello. Il cielo, blu con qualche chiara nuvola, era alto. La città sembrava ancora completamente spensierata, estiva. Le donne, come a Luglio, erano vestite molto poco. Per strada gli occhi di Dima si fissavano continuamente su una o su un’altra figura. All’ingresso dell’aeroporto c’erano lavori in corso. Ronzavano i compressori e altre macchine stradali. I giubbotti arancioni degli uomini con le pale erano gettati direttamente sulla pelle nuda. I corpi degli operai brillavano di sudore, dal finestrino aperto della macchina Dima fu investito dall’odore dell’asfalto bollente e dal caldo. Per un istante, di conseguenza, gli sembrò che l’estate fosse appena cominciata.
In aeroporto c’era una quantità spaventosa di gente. Molti partivano per ritornare da qualche parte, c’era chi li salutava. Ancora più numerosi erano quelli che arrivavano, tornavano indietro chissà da dove, affrettandosi a riportare i figli a casa per l’inizio dell’anno scolastico. C’era chi li andava a prendere. In fondo alla sala arrivi le porte a vetri lasciavano uscire un volo dopo l’altro. Chi ritornava era abbronzato, con i denti bianchi, allegro. Veniva portato via da chi era andato a prenderlo, portando i bambini in braccio…
Dima aveva visto un conoscente che era andato a prendere qualcuno. Era una vecchia e lontana conoscenza. Dima non ricordava neanche il suo nome.
– Chi stai aspettando? – chiese lui.
– La mia famiglia. Torna dal mare.
– E tu dove sei stato?
– Ehm, – Dima tagliò corto. – Sono rimasto tutta l’estate in città! E tu dove sei stato che sei così abbronzato?
– Io?! – ridacchiò il conoscente. – Sul tetto. Per tutta l’estate con mio figlio abbiamo risistemato la casa in campagna; mia moglie, invece, è partita. E ora la vado a prendere. Come va?
– Che vuoi che ti dica! L’estate sta finendo e io sono rimasto ad aspettare in città. Insomma, non sono riuscito a riposarmi. Pazienza!
– Ah! Stammi bene!
Si strinsero la mano. Cinque minuti dopo Dima vide il suo conoscente con due grandi valigie in mano e dietro di lui una bella donna con un vestito chiaro. Il conoscente camminava e sorrideva tra sé e sé.
Improvvisamente Dima si sentì alquanto a disagio per aver raccontato una piccola bugia al conoscente. Perché gli aveva detto di aver passato una brutta estate? La sua estate non era stata male. E perché aveva diffamato in quel modo la sua quiete estiva? Anzi, probabilmente non avrebbe mai più avuto un’estate così bella.
Molti voli erano in ritardo per vari motivi. L’aereo che aspettava Dima aveva un ritardo di due ore. Tornare in città e poi ripartire immediatamente non avrebbe avuto senso. Dima continuò a tormentarsi, vagare, sonnecchiare in macchina… In seguito fu comunicato che il volo avrebbe ritardato di un’altra ora. Dima allora si perse completamente d’animo. Pensò: «Ecco, l’ultima giornata dell’estate, e ora?». Acquistò un giornale, ma non riuscì a leggere. Dentro di sé non era affatto agitato. La quiete non l’aveva ancora abbandonato.
Gli erano molto mancate la moglie e la figlia. Gli era mancato il figlio, che sarebbe arrivato due giorni dopo. Aveva sentito la loro mancanza, ma ci pensava con il volto rilassato e inclinando leggermente a sinistra la testa. Perfino il rumore dell’aeroporto si era in qualche modo attenuato…
Incontrò i suoi familiari. Prese la figlia e la sollevò in alto con le braccia tese, poi baciò la moglie. Aspettando i bagagli, la figlia parlava di qualcosa senza interruzione, mostrava qualcosa e perfino ballava. Ženja diceva che erano terribilmente sfinite a causa del terribile ritardo. Dima tentava di ascoltare attentamente… ma in realtà stava a sentire la quiete dentro di sé. In che stato era? Sarebbe durata ancora?
Quando erano in prossimità della città si era già del tutto fatta sera. La figlia si era addormentata sul sedile posteriore. Dormiva in una posizione impensabile per una persona adulta. Ženja elencava cosa bisognava fare già dal giorno seguente. Era chiaro che di mattina sarebbero dovuti andare a comprare alla figlia le scarpe per la scuola e molto altro. Dima annuiva, sorrideva e pensava… No, non pensava neanche, guardava negli occhi la sua quiete tentando di memorizzare quello sguardo, quello con cui per qualche tempo aveva guardato il mondo, ed era stato bello. Voleva memorizzare quello sguardo prima di andare via.
Quando arrivarono a casa era già quasi buio.
– Oh, che belle panchine hanno messo, che carino! – disse la moglie.
Dima guardò e, effettivamente, vide accanto all’ingresso delle panchine nuove. Strano, quando le avevano messe? Dima non se n’era accorto.
– Sì, non abbiamo perso tempo inutilmente qui. – rispose prontamente Dima.
Baciò la moglie, poi tirò la figlia piano e premurosamente fuori dalla macchina; la moglie prese dal bagagliaio la valigia e la borsa. Si diressero quindi verso l’ingresso. La figlia, addormentata, era coperta di sudore. Dima la strinse a sé, era tutta avvinghiata, era grande e pesante. I suoi capelli odoravano di sole caldo, di vento e di mare.
– Calda… – Disse tra sé e sé Dima. – Mia cara. – disse ormai quasi in silenzio.
Mentre la moglie apriva la porta d’ingresso, Dima lanciò una breve occhiata al cortile. Alzò lo sguardo e guardò la cima di un enorme acero, che sovrastava le betulle e i sorbi. L’acero era alto alto. Sullo sfondo del cielo quasi del tutto spento si vedeva che l’acero era immobile. Dima gli strizzò l’occhio, si voltò e, entrando nell’ingresso, sorrise… accennando appena un addio.

(Traduzione a cura di Flavia Riolo)

Flavia Riolo

Nata a Catania, ha conseguito la Laurea di Primo Livello in Lingue e Culture Europee presso l’Università di Catania e, in seguito, la Laurea Magistrale in Traduzione e Interpretariato presso l’Università di Genova, specializzandosi in russo e inglese. Dopo aver fatto uno stage di tre mesi a San Pietroburgo presso un’agenzia di viaggi e qualche esperienza di insegnamento e interpretariato per la lingua inglese, ha partecipato alla preparazione del Convegno Internazionale La filosofia russa oggi (Genova, 19 Maggio 2011) in qualità di traduttrice. Appassionata di letteratura, musica e arte, ha sempre dimostrato un particolare interesse per tutto ciò che riguarda il mondo russo.