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divagazione dedicata a Giulia, a Stefania e al caro ricordo di Maria Corti

 

Qualificare “provinciale” una persona, un atteggiamento, un comportamento, una realtà locale come cultura, non è elogio. Mi è capitato di leggere in un pretenzioso catalogo di pareri critici sulla letteratura italiana di autori siciliani il seguente frettoloso giudizio: “Ercole Patti è un narratore provinciale, tale non è il suo coetaneo, conterraneo e meno noto Antonio Aniante”. L’autore della frettolosa critica alludeva all’ambientazione e all’ispirazione del Patti autore di Un amore a Roma, Cronache romane, Un bellissimo novembre, Diario Siciliano, Gli ospiti di quel castello, opere nelle quali l’impronta di elementi, comportamenti e costumi locali (romani, etnei) è forte ed evidente. “Un provinciale” per etichettare persona dalle vedute limitate, condizionate da idola tribus.

Superfluo aggiungere esempi, infatti capita a tutti di sentire la frase che evoca la provincia come luogo del minus habens, delle occasioni insignificanti, limitate e dal comportamento, appunto, “da provinciale”, parvanu, cioè di individuo pervenuto al successo, ma che conserva abitudini e tratti delle non eccelse condizioni precedenti in cui è stato immerso. Facile comprendere la reazione (invidia?) di Hemingway per i successi di William Faulkner fino al Nobel per la letteratura conferitogli nel 1949, ma per l’Autore de Il vecchio e il mare (Premio Nobel 1954), il rivale altro non era che “Il contadino dell’Alabama” o, meglio: “Il provinciale con la stilografica”.

Pare che Faulkner non abbia mai risposto alle ingenerose qualifiche attribuitegli dal focoso collega, forse per un ironico omaggio al famoso detto “Contadino scarpe grosse e cervello fino”, come suona nell’italiano che impone all’aggettivo “fine” un cambio della vocale finale per agevolare la rima.

Insomma, la provincia come metafora di asfittica bassezza, di scarso adeguamento alla contemporaneità e, forse peggio a misura del riferimento, persino labirinto per quel sovrappiù di atmosfera di gabbia a cielo aperto, resa maleodorante dal comportamento dei suoi stessi inquilini e dallo stagnare cui è destinata. Ma, attenzione: come per tutte le formule di semplice apparenza, anche per questa volta interviene l’a-fondo di chi speculando va oltre la consuetudine del pecoreccio, fino a osservare che tutto il mondo è provincia, e non solo per l’esito della realtà moderna della globalizzazione ma da sempre, in forza della realtà imprescindibile che deve tener conto delle tante unità come unico corpo della complessità, dell’insieme, come lo ha spiegato con mirabile metafora lo scrittore brasiliano Osman Lins intitolando un proprio libro col fantastico nome di un uccello altrettanto fantastico, Avalovara, “(…)uccello fabuloso al pari dell’araba fenice”, scrive Maria Corti “ma che ha proprietà di essere animale composto, fatto di uccellini minuscoli come api, che disposti in modo adatto conferiscono all’uccello Avalovara la sua forma e fisionomia”.

Ecco, il mondo come provincia è servito. Le province idealmente riunite a farsi, novello Leviatano, mostro enorme composto da tutte le province dell’universo. Anche se con quest’ultimo accostamento si rischia di tracimare nello spauracchio biblico del citato drago, che se disturbato ed eccitato è capace di inghiottire momentaneamente il sole, offrendo alle streghe l’occasione del buio per lanciare i loro malefici per tutta la durata dell’eclisse. No, per il mondo come unica immensa provincia, meglio il modello Avalovara di Osman Lins. Il Leviatano ci porterebbe lontano, anche perché intraprendendo un tipo di ricerca adeguata al mito del labirinto (La provincia come labirinto), salterebbe fuori, mito nel mito, il Minotauro. E si rischierebbe il pericolo di dover fare contemporaneamente i conti con due mostri.

2. La provincia come labirinto? E perché no? Le due immagini hanno infatti solidi punti in comune a partire da quello fondamentale che caratterizza il labirinto nella sua consistenza territoriale limitata, proprio come quella di ogni provincia. E il labirinto è tale in quanto riunisce in spazio quanto più minimo la sua struttura di vicoli ciechi come diramazione di altrettanti vicoli aperti per frantumarsi in appendici chiuse, e il tutto per raggiungere lo scopo di far perdere tempo a chi vi si muove per raggiungere il centro o dal centro per guadagnare l’uscita. Uscire dalle difficoltà di un percorso snervante, lungo il quale l’ansia per il pericolo di non farcela ha una sua parte pesante.

Provando a confrontare la provincia come luogo che non offre soluzioni all’esercizio dell’ansia e dello spreco di energie, con il mito del labirinto conviene dunque per prima disciplina ignorare l’altro mito, quello del Minotauro. Fermiamoci alla considerazione dell’edificio dalla particolarissima architettura e non del suo mitico insaziabile inquilino. Salvo a tornarvi per altre ancor più complesse considerazioni.

Continuando con i confronti ci viene da pensare alla provincia come a un territorio limitato da rigidi confini ma a cielo aperto. Anche il labirinto è struttura a cielo aperto, infatti Dedalo che l’aveva progettato e ne aveva diretto i lavori di costruzione, vi era stato poi rinchiuso per il capriccio del padrone Minosse, ma la struttura a cielo aperto gli aveva poi consentito di evadere, dopo essersi attrezzato di ali. E c’era con lui il figlio Icaro, che se non ci fosse stato avrebbe lasciato monca la morale che cela il Mito. E noi come abbiamo momentaneamente ignorato il Minotauro, lasceremo da parte la storia di Icaro per seguire quella di Dedalo e delle sue ali di cera. Né ci distoglieremo col correre dietro al fantasma che ha fornito quel gran botto di cera per le quattro ali dei due protagonisti dell’evasione più rocambolesca che sia mai avvenuta da che il mondo è mondo. Quella cera che doveva restituire all’ingegno e alla saggezza di Dedalo la libertà e il raggiungimento della reggia di Cocalo, e, al contrario, procurare la morte all’imprudente Icaro, che procedendo a sfidare il sole e disubbidendo all’ammonimento del padre aveva ottenuto il liquefarsi della cera e la morte in mare.

3. La provincia e il labirinto sono dunque luoghi a cielo aperto. Quindi la recintazione può essere elusa con successo. Ma occorrono le ali. Non c’è altra via di scampo. E se ha detto bene Calderon de La Barca affermando che la vita è sogno, così altri e tutti potremo aggiungere che la libertà è volo. La sapienza popolare ricorre a una sua formula che potrebbe essere la chiave della vicenda mitica tra labirinto e Dedalo che evade: “chi esce riesce” e non importa se il verbo si presta a doppia lettura, quella del riuscire come successo personale e quella dell’uscire di nuovo, del ripetere l’esperienza una volta o infinite volte. Uscire per conquistare successo. Uscire per continuare a uscire, a evadere.

La cera per le ali posticce artificiali potrebbe essere l’applicazione di chi sceglie di evadere impiegando il proprio sapere a costituirsi nuove cognizioni e comunicarle oltre che avvalersene. La ricerca scientifica, la ricerca come agevolazione alla curiosità, la disponibilità ad ascoltare le sirene (ecco i miti come le nocciole del paragone con le parole) insistere sulle vie della conoscenza. Una cera che ci consente di costruire ali adatte all’evasione, a patto che questa evasione non ci faccia dimenticare il saggio precetto di volare raso terra, senza avvicinarci alla fonte del calore per eccellenza come ha fatto l’imberbe Icaro, forse perché pivello, forse perché scriteriato nel non avere dato importanza alle istruzioni del padre. Una impresa artigianale quella del costruire ali servendosi di quella cera che altrove l’altro mito, quello della conoscenza, verrà adoperata per turare i sensi dell’udito della ciurma addetta ai remi. Anche per questa occasione omerica la sottigliezza del mito non si sofferma a fornire spiegazione circa la provenienza della cera. Un particolare balza invece certo ed evidente, quello dello stesso elemento adoperato ora per costruire le ali del volo salvifico, ora per impedire l’ascolto della voce che invita alla conoscenza.

Ma quale non sarebbe libertà quella che impedisse di azzardare che l’esempio dei volatili muniti naturalmente di ali possa non essere esclusivo della specie uccelli? E se la conclusione dell’abate Calderon sulla vita come sogno ci suggerisse il corollario della vita come poesia? A questo punto sfondiamo la porta aperta dell’arte come terapia: scrittura, ritmi, pittura, danza… Siamo all’<evasione>, alle ali, e per questa volta non più di cera.

4. “La provincia è provincia e fa marcire”, abbiamo riletto da qualche parte. Ma se questa è legge che qualcuno ha scritto dopo avere percorso tutte le vie umane dell’esperienza, è altrettanto vero, come tutti sappiamo a memoria, che “Fatta la legge trovato l’inganno”. E in materia di provincia asfittica il rimedio è a portata di tutti: sia del poeta nato con le ali, che gli consentiranno in qualsiasi momento e da qualsiasi provincia di evadere, perché tutto il mondo è si provincia ma è comunque e dovunque a “cielo aperto”, proprio come il labirinto da cui fuggì il saggio Dedalo dopo aver costruito le ali servendosi di non si sa bene quale cera, né da dove l’abbia trovata in quantità tale da consentirgli di costruire, oltre alle sue, le ali per il proprio incauto figlio. Ecco perché chi esce riesce, ed ecco perché il Mondo, tutto il mondo, è provincia, anzi: paese.

Certo, qualche malinconia insorge nel pensare che dovunque ci si trovi tutto diventa gabbia, stagno, luogo per il minus habens, in una sola parola componenti della ciurma della barca di Ulisse. Ma sarà la malinconia di chi continuerà a mantenere la cera che gli tiene tappate le orecchie, trascurando la possibilità di reagire col semplice gesto di toglierla e aggiungerla a quella che occorre per costruirsi le ali come ha fatto Dedalo, deciso a evadere coltivando la fiducia in se stesso che è il primo segreto di ogni successo. La provincia come metafora, ma non solo del labirinto, sarebbe una lettura restrittiva foriera di malinconie, dal momento che noi siamo quello che vogliamo.

mariograsso(Ludi Rector)

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