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Sicilia 1958: vite improbabili di una puttana

 

Bel tipo, bel tipo, ce l’aveva con i padroni. I padroni, a me, m’hanno fatto campare. Da che tempo è tempo ci sono padroni e servi, e può darsi che i servi siano più furbi dei padroni. Ma lui, lui odia i padroni! Lui vuole la rivoluzione! Lui ha le bombe in tasca da lanciare allo stato! Lui vuole liberare i servi! Lui vuole che l’uomo non sia più uomo!
E’ possibile?
No.
E’ possibile?
No! Ve lo dice una che ha campato abbastanza per dirlo. E non è mai abbastanza campare, fa gli scongiuri ridendo. Ve lo dice una che ha quasi cent’anni, non si arriva per niente a quest’età.
E se fosse possibile? si chiedono le donne sfaccendate. Se facesse bene crederci?
Non è bene. Non ha fatto bene a quel tipo, e alla mia colomba, alla mia santa, non fa bene a nessuno. Lui parlava di rivoluzione, mentre era letto con quel fiore. Ma ci pensate? Perdeva l’anima da un’altra parte, invece che perderla sul letto della mia colomba. E c’era da perdere l’anima con lei, credetemi, su quel letto. Lui pensava ai servi , ai padroni, a paroloni senza senso, basta questo per sentire puzzo d’inganno e disgrazia. Io non ci sarei cascata.
La tua favola c’è cascata! La tua favola è cascata nella disgrazia.
Le favole sono come le poesie a memoria. E’ sempre bello recitarle. Puzzo di disgrazia, annusavo l’aria mentre lui straparlava sul letto della mia santa, mentre parlava di polizia e nascondigli, di compagni e traditori, di libri e idee, di vita alla macchia. Sentivo la disgrazia. Vivere scappando come un topo! Dov’è la libertà? Dov’è la giustizia? La disgrazia troverai! La colomba chiedeva, che sono libertà e giustizia? Lo chiedeva perché forse anche lei, anche Aida sentiva la disgrazia, con il naso delle donne. Però il cuore non porta ragione. Libertà, giustizia è una sola cosa, è esserci, essere qui, amare, parlare, essere qui con te, fare e non subire, respirare, è la mia donna, te l’ho detto! rideva lui. Aida fiutava la disgrazia, e la gelosia, e se fosse una donna che non esiste? Così diceva la mia santa, pensava di sicuro, io sono davvero qui, ma cercava di capire. E lui: è lo stesso un amore, anche se non esiste, te l’ho detto. Un amore? mormorava stranamente la mia santa, ma voleva capire. Lo pensavo diverso un amore, diceva. Ridevano tutti e due, rideva anche Aida finalmente, ma la sua risata non metteva allegria. E parlavano, parlavano. Un uomo non parla con una donna a letto. Lui ripeteva certe parole, pareva un prete alla messa. Ma i preti portano sfortuna. La fiutavo nell’aria attorno a lui. E la sfortuna è arrivata. O la fortuna di Aida.
Fortuna?
La vecchia scuote il capo. Quei tipi attirano i guai. Parlava di rivoluzione con i libri in mano mentre era a letto con Aida, il libro senza pagine, il libro più bello, il nascondiglio più bello, l’amore più bello, la battaglia più bella. Parlava di bombe, di compagni traditori dietro scrivanie, di venduti, e di padroni senza faccia. Bisogna scoprire la faccia di quei padroni, mostrarla alla gente! diceva. Imbrogliava la mia colomba sul suo letto, a letto con l’unico compagno e tradimento, esistenti, l’unico padrone. Certo, era intelligente il tipo, ma un’intelligenza di quelle maledette e pericolose. Meglio esser stupidi. Dagli stupidi sai che aspettarti, da quelli invece… Solo guai.
Furono guai, vero?
Si sapeva. L’avevo avvertita, Aida, la mia Aida, la mia padrona, la mia figlia, il mio cuore, il mio padrone. Non stare con lui tutto il giorno a letto. Come se il mondo fosse quello! Io ho tutto, mi rispondeva, non le vedo neppure, le pareti di questa stanza, io cerco di vedere oltre le pareti di questa stanza. Quello lì sarà il tuo male. Non mi replicava. Aida, ti ho preparato, quel tipo ti ha tolto anche l’appetito, quello sarà il tuo male. Lei ride, ma non dice no. Ricordo quella sua risata, mi fa venire ancora i brividi. Anche lei sentiva la disgrazia. Ma doveva entrarci, fosse anche lei stessa la mosca senz’ali. La vecchia serva tentenna il capo. Rifiutò qualsiasi uomo finché ci fu lui. Rifiutò qualsiasi ragione. E restò incinta della rivoluzione.


Figa-ro, Figa-ro, canticchia il barbiere aspettando i clienti. Fischietta ancora mentre lavora sulla testa di qualcuno, e fischietta quando infila le mance nella cassettina, la scuote con una mano. Meglio se non fa rumore, biglietti di carta!
Non hai nessuno che t’aiuta!
Non sono i tempi, replica lui.
Per te non sono mai i tempi, prendilo, un ragazzo che t’aiuta. Gli insegni il mestiere, e intanto t’aiuta.
Nessuno vuole più imparare. Né il barbiere, né altro. Sono tutti bravi, e senza voglia di lavorare. Non sono più i tempi. E poi, il barbiere è un mestiere che non s’impara, uno ha gli occhi neri o i capelli biondi, il mestiere non sono le forbici e il rasoio. Nessuno vuole più fare il barbiere, come dire il servo, l’immondezzaio. Nessuno asciuga il culo di un altro.
Si fa, si fa per vivere, per soldi, sbuffa il cliente. Capelli! ordina.
Il barbiere ridacchia, fischietta ancora mentre s’aggiusta con un colpo di forbice le proprie basette allo specchio, mentre prepara le forbici e il pettine per il suo lavoro. E allora, iniziamo?
Sono venuto per questo! Qualche cliente ce l’hai alla fine! Voglio il miglior taglio della tua vita.
Devi sposarti domani?
Hai indovinato. Ho un matrimonio.
Figa-ro, figa-ro, canticchia il barbiere. Un barbiere sa tutto, quello ha il matrimonio d’una cugina. Guarda il suo cliente allo specchio.
Che aspetti?
Non dev’essere il taglio migliore della mia vita? Il barbiere sbircia da un’altra prospettiva, aggiusta la tovaglia come un artista, dà un colpo di pettine. Sì…
Fuori c’è un’arietta di primavera. Tempo di matrimoni. Anche il barbiere s’è sposato in primavera. Ha avuto quattro figli e un altro è in arrivo. Che ci fai con tutti quei figli? gli chiedono. Tengo occupata mia moglie, scherza lui. Pensi che ti metta le corna quando sei occupato a radere in bottega? Penso che la paglia prende fuoco accanto al fuoco, e penso che come me la godo io, quella buona donna, a qualcuno potrebbe piacere godersela come me, farle stare ritti i seni, e farle tremare le gambe, non sono l’unico ad avercela qui davanti, perdio! Ne farai una ventina di figli allora, finché le passa il calore, è più giovane di te, sghignazzano in giro. Ne farò una ventina, non preoccupatevi. Che ci porti da mangiare, a venti figli? Montagne di capelli ramazzati!
E’ venuta un’arietta calda, dice il barbiere, tempo di primavera, tempo di calori e matrimoni. Fa il suo mestiere. Deve intrattenere il suo cliente. Un tempo lo facevano i buffoni. Ma non gli dispiace.
Più corti da quel lato.
Di qui? Quando fa quest’arietta è facile rimbambire e sposarsi. Le foto in fretta su una piazza, davanti a un giardino, o un cantuccio di mare, banchettare in fretta, e in fretta guadagnare la stanzetta scalcinata d’un albergo. Quante stupidità ti fa quest’arietta di primavera. Voglia di…
Ho capito, ho capito, ridacchia il cliente, anche se non ho cento figli come te.
Meglio, meglio. Quel buco di donna…
Attento a dove tagli, ride il cliente, devo far figura domani.
Io lo so il mio mestiere! Non mi distraggo, anche se… Adesso che il tempo è buono passano di qui tutte le puttane del quartiere, vanno in giro la mattina, in vacanza. Però se trovano un cliente, anche la mattina va bene.
Per soldi…!
Sono puttane. Ce n’è una…
Chi?
Una che porta due trecce lunghe fino al posticino davanti. Il barbiere chiude un occhio per rifilare con la forbice. Batte le forbici a ritmo. E’ una musica. Come battono quelle trecce sculettando.
Una parrucca, sarà una parrucca!
Trecce nere, pelle scura, è scura come l’inferno. Fammela toccare, le dico. Lì dev’essere ancora più scura, più scura dell’inferno.
Te l’ha fatta toccare? Senza soldi? Sghignazza il cliente tenendo d’occhio la sua pettinatura.
Lì c’è tutto, in quel posto di donna. Non c’è nient’altro al mondo. E quel posto è sempre puttana.
Anche quello di tua moglie?
Il barbiere non s’offende. Se non ci badassi… Le forbici stridono. Me ne ricordo una, di puttane… Aida, mi pare si chiamava. Una puttana grassa come una vacca, tutta carne e mammelle come una vacca. Da mungere come una vacca.
Ti piacciono così? il cliente.
Mi piace il buco. Il buco della vita, recita il barbiere con un gesto teatrale della mano che sforbicia.
Attento a quelle forbici!
Sto attento. L’hai conosciuta? Il cliente non risponde, più interessato al taglio dei suoi capelli, si sposa sua cugina, e fa da testimone.
Attento, si sposa mia cugina.
Devi essere bello, allora! Le hai fatto il filo, alla cugina?
Il cliente ridacchia senza dire né sì né no.
Buone le cugine, buone le cognate, dice il barbiere. Meglio le figlie, pensa, meno problemi, meglio le figlie appena sono abbastanza forti da reggere un uomo. Fischietta un motivetto inventato. Pulisce il pettine con la forbice. Una ciocca cotonosa cade per terra. Figa-ro.
E questa Aida te l’ha fatta toccare?
Il barbiere non parla per un attimo, pulisce il pettine con due dita, fa battere le forbici, le lascia aperte. Sembra riflettere adesso. Non lo fa mai. Non gliel’ha mai chiesto, non lo dice. Non può dirlo, che era attratto come un bambino che non ha mai avuto donne, e non riusciva a chiederglielo. E poi lei una volta aveva rotto la testa a un uomo come si spacca un’anguria in una rissa d’osteria. L’inferno è pericoloso. Grassa e molle, dice invece il barbiere. Le forbici battono di nuovo.
Attento ai capelli, ho un matrimonio domani. Magari aveva lo scolo quella puttana, ghigna il cliente.
Le puttane sono puttane, dice il barbiere. Lui l’ha vista spaccare la testa ad un uomo nell’osteria. Quello voleva spassarsi con la puttana, la vacca, ma lei ascoltava un’armonica, un negro, un marinaio. Quell’armonica era triste. Non so che tristezza hanno, le vacche puttane. Quell’uomo insiste, strattona. Ma lei è pericolosa, di più quand’è triste, l’inferno è strano e pericoloso. Le forbici impazziscono in aria.
Bada ai capelli!
Con un pugno, l’ha mandato a terra e gli ha spaccato la testa, l’ho visto io.
Più brava d’un pugile, ride il cliente.
Un negro con l’armonica, e la vacca puttana triste e pericolosa. Lei non deve nulla a nessuno, né ad ubriachi né a sfruttatori, questo forse pensa Aida, la puttana. Forse è colpa delle fantasie della primavera, del primo sole di primavera, era primavera quel giorno. L’armonica suonava. Non deve niente tra mare e cielo, e niente su terraferma, a nessuno. Ti pago, puttana! urla l’ubriaco. Paga il vino a muso di porco, dice lei, e tu, negro, non suonare più. Vieni con me, puttana, urla l’ubriaco e cerca d’afferrarla. L’armonica smette. C’è silenzio. Proprio nel silenzio sferra il pugno, ma senza rabbia, con una tristezza, e ancora senza rabbia gli è sopra e picchia il pugno sulla bocca dell’ubriaco. Ancora, ancora, senza rabbia, tristemente. Finché non la staccano. E’ ancora calma. L’ubriaco è a terra con il sangue sul pavimento. E lei, la vacca, al negro, mettila via, quell’armonica, non voglio più sentirla, non voglio vederti e sentirti suonare mai più, dice lei, ed esce dall’osteria. Il barbiere tace, solo un momento. Era primavera quella volta, forse il primo sole spioveva sulla spiaggia, la primavera è strana e puttana come le donne, pericolosa. Aida va fuori incontro alla primavera. Si liscia il pugno con l’altra mano. Forse c’è il sole di primavera sul molo, e i ragazzi giocano lanciandosi i quaderni di scuola, quelli che vanno a scuola. Forse il cielo è atterrato tra le nuvole fini della primavera sul mare, all’orizzonte, e le barche sono immobili nell’azzurro, forse il sole gioca sul mare, come giocano i ragazzi sui moli, forse Aida vuole giocare, è così calma e triste. Calma e triste, strana e pericolosa, l’inferno è pericoloso.
E il suo buco? sorride il cliente.
Il buco nero di tutta la vita! Figa-ro, Figa-ro, fischietta malamente il barbiere.
Insomma, se l’è fatta toccare Aida, la vacca? Te l’ha fatta toccare? Doveva averla molle come la ricotta, se era così grassa.
Molle come la ricotta? pensa il barbiere, e non risponde. Odorosa come la colonia della mia bottega, come la mia brillantina? Oppure viscida come una sardina, e puzzolente come una sardina d’esca? Il barbiere annusa, sente quel puzzo di sardine vive e puzzolenti, esca per ami, lo respira come avesse la faccia fra le gambe grasse d’Aida. Il buco puttana della vita, dice, odoroso come la mia colonia. Io la vendo, la colonia, te ne do un flacone, devi essere profumato al matrimonio di tua cugina, il più profumato dei maschi.
Quanto mi costa?
Il prezzo degli amici.
Ci credo! Va bene, va bene, si rassegna il cliente per amore della propria pettinatura ancora pericolosamente tra le forbici del barbiere. Hai finito?
Quasi.
E insomma gliel’hai toccata, ad Aida? chiede il cliente, con la faccia in bilico alla risata.
Il barbiere fa un ghigno, il pettine in aria. Toccarla, quella vacca molliccia? dice. Ride per primo, tra gli ultimi ritocchi del lavoro. Ride ancora, senza voglia.
Ride anche il cliente.
Un barbiere deve ridere. Nella sua bottega si ride, si deve sentire da fuori, lo deve sentire chi passa di lì, che si ride nella sua bottega. Mentre il pavimento si copre di ciocche nere come l’inferno. Ricrescono, per fortuna dei barbieri, come cresce l’inferno d’anime dannate.

(Continua…)

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.